Il 13 maggio 1572 si manifestò nel bolognese un drago bipede "che sibilava come fosse un serpente". Dopo la festività dell'Ascensione, caduta in quell'anno il 15, un contadino che, intorno alla metà della giornata, con a fianco il carro trainato dai buoi, stava passando sulla pubblica via in località Malavolta, poco fuori la cinta muraria di Bologna, si trovò di fronte il mostro. Per paura, con il pungolo che aveva in mano, lo colpì sulla testa uccidendolo. La carcassa rimase abbandonata in quel luogo per due giorni, finché il senatore bolognese Orazio Fontana non la fece avere al genero, Ulisse Aldrovandi (1522-1605), docente di filosofia dello Studio bolognese, direttore del locale Orto botanico (fondato su suo impulso nel 1568 in pieno centro cittadino, dove ora è la Biblioteca Sala Borsa) e creatore di un pionieristico museo di storia naturale che fu poi ceduto al Senato Bolognese. Il filosofo naturale prima ne fece realizzare una tavola acquarellata "dal vivo"[1] e poi procedette ad essiccarlo in modo che potesse essere esposto nel suo museo di storia naturale. Questa è, in estrema sintesi, una curiosa vicenda narrata, fra l'altro, nel Serpentum, et draconum historiae libri duo, una delle opere dell'Aldrovandi che il medico Bartolomeo Ambrosini (1588-1657), suo successore alla guida dell'Orto botanico, pubblicò per conto del Senato Bolognese nel 1640[2].
Un evento che ha goduto negli ultimi decenni di un rinnovato interesse sia da parte di autori afferenti al mondo dell'anomalistica, come il fortiano Umberto Cordier che in un suo libro di ormai trent'anni fa vi ha dedicato ampio spazio, sia da parte di storici più interessati alla storia delle meraviglie e alla storia del collezionismo come Paula Findlen, Kathryn Hoffmann o Marco Ruffini, mentre all'intersezione dei due campi disciplinari si colloca un folklorista come Michel Meurger[3].
In particolare Hoffmann e Ruffini - due studiosi che si sono occupati di questa storia indipendentemente l'uno dall'altro - hanno proceduto ad inquadrare quanto avvenuto in quella primavera bolognese del 1572 nelle categorie del falso e dell'impostura, poco frequentate fino ad allora: «la maggior parte della ricerca accademica sulla storia dei musei di storia naturale e del collezionismo ha eluso il problema dei falsi» notava Hoffmann riferendosi ai lavori che avevano preceduto quel suo saggio del 2002 in cui proprio il drago bolognese, «un oggetto sicuramente impossibile», era uno dei casi di studio.
Ruffini, un rinascimentalista italianista (allora alla statunitense Northwestern University e oggi a La Sapienza di Roma) i cui interessi di ricerca si situano al crocevia di discipline diverse come storia dell'arte, letteratura e storia della scienza, è autore della più ampia ricostruzione di quanto potrebbe essere accaduto. Quando la notizia dell'elezione al soglio pontificio con il nome di Gregorio XIII del cardinale Ugo Boncompagni (1502-1585) avvenuta proprio il 13 maggio 1572 raggiunse la sua città di origine, Bologna, ad Aldrovandi, che del nuovo pontefice era secondo cugino per parte di madre, dovette sorgere un'idea, legata al fatto che l'insegna araldica della famiglia Boncompagni era quella di un drago. Lasciamo la parola a Ruffini: «[i]l naturalista [...] fabbricò il presunto drago nel suo museo-laboratorio [...]. Poi scrisse del mostro artificiale, delle sue caratteristiche fisiche e della storia del ritrovamento. Infine commissionò un'immagine di quella creatura per offrirla ad amici, curiosi, eruditi e potenziali protettori. [...] [Diffondendo un'interpretazione naturalistica il filosofo naturale] intendeva difendere il papa da coloro che interpretavano il drago come un segno anticristiano dimostrando che esso era [...] un fatto naturale e basta. Lo scopo ultimo era quello di trovare un mecenate nel proprio concittadino e parente [...]» (p. 84). La novità ebbe larga diffusione nelle corti italiane del tempo e fra gli eruditi. Il risultato di questa operazione, però, fu comunque, per il filosofo, un fallimento. «Il drago naturale dell'Aldrovandi», prosegue Ruffini, «non persuase (p. 88), «[...] non soddisfece gli interessi espliciti del pontefice e di nessuno della sua cerchia di influenza» (p. 94). La Dracologia, l'opera che nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto descrivere al pubblico la scoperta, sarebbe stata stampata quasi una settantina d'anni dopo la nostra vicenda quando il suo autore era ormai morto da più di trent'anni.
Se allora il drago aldrovandiano non è evidenza di una specie sconosciuta ma un mero artefatto, come era stato realizzato? Dall'acquarello e dalla descrizione che compare nel volume del 1640, possiamo immaginarci una "creatura" di quasi un metro di lunghezza, assai simile ad un serpente a parte ovviamente gli arti anteriori (che terminavano con quattro dita) e il tronco che risulta allargato e con la parte superiore che presentava squame simili a quelle di un pesce. Hoffmann si è chiesta se fosse stato realizzato cucendo insieme carcasse di pesce, lucertole ed uccelli, mentre Ruffini ha supposto che fosse stato gonfiato «l'addome di un grosso serpente, applicandogli [poi] zampe di uccello e una testa di pesce» (p. 84).
Un recente articolo pubblicato su Annals of Science avanza una nuova ipotesi che rispetto alle precedenti appare essere sostenuta dall'expertise specifico dell'autore principale, quel Phil Senter della Fayetteville State University del North Carolina che i lettori di questa rivista già hanno avuto modo di conoscere perché in passato si è occupato di resti di altri animali misteriosi della prima età moderna (vedi Query 14 e 18). Secondo il biologo statunitense e due suoi studenti l'artefatto sarebbe stato realizzato partendo da una biscia del collare (Natrix natrix), cui fu rimossa la parte superiore del torso, sostituita con quello di un pesce, forse della famiglia della carpa. Infine sarebbero stati applicati gli arti, provenienti da un rospo comune (Bufo bufo). Tutte specie, allora e oggi, presenti in Pianura Padana[4].
L'essiccazione cui fu sottoposto l'artefatto (simile come metodologia, immaginiamo, a quella presentata proprio da Aldrovandi nel Discorso naturale (1572/73), diretto al figlio del Pontefice, Giacomo Boncompagni (1548-1612): «cavandogli l'interiora et ponendogli nella cenere»[5]) avrà certamente reso difficoltoso identificare come era stato "confezionato" (seguendo la immagine del sutured body utilizzata da Hoffmann) e quindi il fatto che si trattasse di un falso.
Senter e collaboratori, già dal titolo del loro intervento, ritengono ancora una volta di aver risolto un mistero secolare. L'ipotesi è certamente interessante. Ma come fa notare il naturalista e criptozoologo Lorenzo Rossi, cui abbiamo chiesto un commento, il «metodo con cui fu fabbricato il draghetto resterà comunque un mistero» e, come del resto abbiamo visto, «si possono solo fare supposizioni con diversi gradi di plausibilità»[6]. Non c'è, infatti, purtroppo modo di verificare le ipotesi con l'analisi diretta dell'esemplare. Già nel 1602 un Aldrovandi ormai ottantenne e ritiratosi dall'insegnamento, rivolgendosi al giurista e diplomatico Fabio Albergati (1538-1606), scriveva che «[i]l Dracone, qual conservavo, come molti altri animali ho serbato appresso di me, fu per ignoranza, et inconsideratione gettato via, e robbato»[7]. Tale affermazione stride, in realtà, con una serie di attestazioni risalenti alla seconda metà del XVII secolo rintracciate da Findlen (che non conosceva quella lettera del naturalista) in opere di viaggiatori e saggi scientifici e che proverebbero che l'artefatto era all'epoca ancora presente[8].
Qui non c'è purtroppo spazio per ri-analizzarle singolarmente, ma una di queste forse può suggerirci una soluzione per quest'ulteriore piccolo mistero: il naturalista inglese Philip Skippon (1641-1691), che nel 1664 fu accompagnato nella visita del museo dall'allora curatore Ovidio Montalbani (1601-1701), vide infatti «un drago o serpente, con ali e zampe», che certo non corrisponde (come nota anche Hoffmann) con la descrizione lasciataci da Aldrovandi[9]. Forse, ad un certo punto, morto il fondatore, ci fu qualche confusione fra i materiali del museo. Oppure, come suggerisce ancora una volta Ruffini, «intorno alla metà del XVII secolo, probabilmente in seguito alla pubblicazione della "Dracologia" [...], venne fabbricato e collocato nel museo un nuovo drago, questa volta dotato anche di ali» (p. 94).
Per concludere, un auspicio: diverse fonti relative a questa vicenda sono ancora inedite, mentre altre sono pubblicate in opere di difficile reperibilità. Forse può essere giunto il momento per un'edizione complessiva che illumini la via a chi vorrà, in futuro, occuparsi ancora di questo mistero bolognese della prima età moderna.
L'autore ringrazia: Bob Rickard e Mikhail Gershtein per avere attirato la sua attenzione sull'articolo di Senter; la prof. Kathryn Hoffmann (University of Hawaii at Manoa) per aver gentilmente fornito copia del suo articolo; Lorenzo Rossi per la consulenza.
Un evento che ha goduto negli ultimi decenni di un rinnovato interesse sia da parte di autori afferenti al mondo dell'anomalistica, come il fortiano Umberto Cordier che in un suo libro di ormai trent'anni fa vi ha dedicato ampio spazio, sia da parte di storici più interessati alla storia delle meraviglie e alla storia del collezionismo come Paula Findlen, Kathryn Hoffmann o Marco Ruffini, mentre all'intersezione dei due campi disciplinari si colloca un folklorista come Michel Meurger[3].
In particolare Hoffmann e Ruffini - due studiosi che si sono occupati di questa storia indipendentemente l'uno dall'altro - hanno proceduto ad inquadrare quanto avvenuto in quella primavera bolognese del 1572 nelle categorie del falso e dell'impostura, poco frequentate fino ad allora: «la maggior parte della ricerca accademica sulla storia dei musei di storia naturale e del collezionismo ha eluso il problema dei falsi» notava Hoffmann riferendosi ai lavori che avevano preceduto quel suo saggio del 2002 in cui proprio il drago bolognese, «un oggetto sicuramente impossibile», era uno dei casi di studio.
Ruffini, un rinascimentalista italianista (allora alla statunitense Northwestern University e oggi a La Sapienza di Roma) i cui interessi di ricerca si situano al crocevia di discipline diverse come storia dell'arte, letteratura e storia della scienza, è autore della più ampia ricostruzione di quanto potrebbe essere accaduto. Quando la notizia dell'elezione al soglio pontificio con il nome di Gregorio XIII del cardinale Ugo Boncompagni (1502-1585) avvenuta proprio il 13 maggio 1572 raggiunse la sua città di origine, Bologna, ad Aldrovandi, che del nuovo pontefice era secondo cugino per parte di madre, dovette sorgere un'idea, legata al fatto che l'insegna araldica della famiglia Boncompagni era quella di un drago. Lasciamo la parola a Ruffini: «[i]l naturalista [...] fabbricò il presunto drago nel suo museo-laboratorio [...]. Poi scrisse del mostro artificiale, delle sue caratteristiche fisiche e della storia del ritrovamento. Infine commissionò un'immagine di quella creatura per offrirla ad amici, curiosi, eruditi e potenziali protettori. [...] [Diffondendo un'interpretazione naturalistica il filosofo naturale] intendeva difendere il papa da coloro che interpretavano il drago come un segno anticristiano dimostrando che esso era [...] un fatto naturale e basta. Lo scopo ultimo era quello di trovare un mecenate nel proprio concittadino e parente [...]» (p. 84). La novità ebbe larga diffusione nelle corti italiane del tempo e fra gli eruditi. Il risultato di questa operazione, però, fu comunque, per il filosofo, un fallimento. «Il drago naturale dell'Aldrovandi», prosegue Ruffini, «non persuase (p. 88), «[...] non soddisfece gli interessi espliciti del pontefice e di nessuno della sua cerchia di influenza» (p. 94). La Dracologia, l'opera che nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto descrivere al pubblico la scoperta, sarebbe stata stampata quasi una settantina d'anni dopo la nostra vicenda quando il suo autore era ormai morto da più di trent'anni.
Se allora il drago aldrovandiano non è evidenza di una specie sconosciuta ma un mero artefatto, come era stato realizzato? Dall'acquarello e dalla descrizione che compare nel volume del 1640, possiamo immaginarci una "creatura" di quasi un metro di lunghezza, assai simile ad un serpente a parte ovviamente gli arti anteriori (che terminavano con quattro dita) e il tronco che risulta allargato e con la parte superiore che presentava squame simili a quelle di un pesce. Hoffmann si è chiesta se fosse stato realizzato cucendo insieme carcasse di pesce, lucertole ed uccelli, mentre Ruffini ha supposto che fosse stato gonfiato «l'addome di un grosso serpente, applicandogli [poi] zampe di uccello e una testa di pesce» (p. 84).
Un recente articolo pubblicato su Annals of Science avanza una nuova ipotesi che rispetto alle precedenti appare essere sostenuta dall'expertise specifico dell'autore principale, quel Phil Senter della Fayetteville State University del North Carolina che i lettori di questa rivista già hanno avuto modo di conoscere perché in passato si è occupato di resti di altri animali misteriosi della prima età moderna (vedi Query 14 e 18). Secondo il biologo statunitense e due suoi studenti l'artefatto sarebbe stato realizzato partendo da una biscia del collare (Natrix natrix), cui fu rimossa la parte superiore del torso, sostituita con quello di un pesce, forse della famiglia della carpa. Infine sarebbero stati applicati gli arti, provenienti da un rospo comune (Bufo bufo). Tutte specie, allora e oggi, presenti in Pianura Padana[4].
L'essiccazione cui fu sottoposto l'artefatto (simile come metodologia, immaginiamo, a quella presentata proprio da Aldrovandi nel Discorso naturale (1572/73), diretto al figlio del Pontefice, Giacomo Boncompagni (1548-1612): «cavandogli l'interiora et ponendogli nella cenere»[5]) avrà certamente reso difficoltoso identificare come era stato "confezionato" (seguendo la immagine del sutured body utilizzata da Hoffmann) e quindi il fatto che si trattasse di un falso.
Senter e collaboratori, già dal titolo del loro intervento, ritengono ancora una volta di aver risolto un mistero secolare. L'ipotesi è certamente interessante. Ma come fa notare il naturalista e criptozoologo Lorenzo Rossi, cui abbiamo chiesto un commento, il «metodo con cui fu fabbricato il draghetto resterà comunque un mistero» e, come del resto abbiamo visto, «si possono solo fare supposizioni con diversi gradi di plausibilità»[6]. Non c'è, infatti, purtroppo modo di verificare le ipotesi con l'analisi diretta dell'esemplare. Già nel 1602 un Aldrovandi ormai ottantenne e ritiratosi dall'insegnamento, rivolgendosi al giurista e diplomatico Fabio Albergati (1538-1606), scriveva che «[i]l Dracone, qual conservavo, come molti altri animali ho serbato appresso di me, fu per ignoranza, et inconsideratione gettato via, e robbato»[7]. Tale affermazione stride, in realtà, con una serie di attestazioni risalenti alla seconda metà del XVII secolo rintracciate da Findlen (che non conosceva quella lettera del naturalista) in opere di viaggiatori e saggi scientifici e che proverebbero che l'artefatto era all'epoca ancora presente[8].
Qui non c'è purtroppo spazio per ri-analizzarle singolarmente, ma una di queste forse può suggerirci una soluzione per quest'ulteriore piccolo mistero: il naturalista inglese Philip Skippon (1641-1691), che nel 1664 fu accompagnato nella visita del museo dall'allora curatore Ovidio Montalbani (1601-1701), vide infatti «un drago o serpente, con ali e zampe», che certo non corrisponde (come nota anche Hoffmann) con la descrizione lasciataci da Aldrovandi[9]. Forse, ad un certo punto, morto il fondatore, ci fu qualche confusione fra i materiali del museo. Oppure, come suggerisce ancora una volta Ruffini, «intorno alla metà del XVII secolo, probabilmente in seguito alla pubblicazione della "Dracologia" [...], venne fabbricato e collocato nel museo un nuovo drago, questa volta dotato anche di ali» (p. 94).
Per concludere, un auspicio: diverse fonti relative a questa vicenda sono ancora inedite, mentre altre sono pubblicate in opere di difficile reperibilità. Forse può essere giunto il momento per un'edizione complessiva che illumini la via a chi vorrà, in futuro, occuparsi ancora di questo mistero bolognese della prima età moderna.
L'autore ringrazia: Bob Rickard e Mikhail Gershtein per avere attirato la sua attenzione sull'articolo di Senter; la prof. Kathryn Hoffmann (University of Hawaii at Manoa) per aver gentilmente fornito copia del suo articolo; Lorenzo Rossi per la consulenza.
Note
1) Università di Bologna, Fondo Ulisse Aldrovandi, Tavole vol. 4 Animali, tavola 130, disponibile qui: http://tinyurl.com/o5s7eqy
2) Aldrovandi, U. 1640. Serpentum, et draconum historiae libri duo. Bologna: apud Clementem Ferronium, pp. 401-416, infra p. 402, scansione digitale del volume disponibile qui: http://amshistorica.unibo.it/126 ; si segnala però che sembrano essere presenti delle divergenze, che qui non è possibile approfondire, fra le narrazioni che compaiono nelle diverse fonti.
3) In ordine cronologico: Cordier, U. 1986. Guida ai draghi e mostri in Italia. Milano: SugarCo, pp. 103-112; Findlen, P. 1994. Possessing nature : museums, collecting and scientific culture in early modern Italy. Berkeley-Los Angeles-London: University of California Press, pp. 17-31; Hoffmann, K. A. 2002. Sutured Bodies : Counterfeit Marvels in Early-Modern Europe. “Seventeenth-Century French Studies” vol. 24, n. 1, pp. 57-70, doi:10.1179/c17.2002.24.1.57; Ruffini, 2005 M. Le imprese del drago. Politica, emblematica e scienze naturali alla corte di Gregorio XIII (1572-1585). Roma: Bulzoni Editore, pp. 83-112; Meurger, M. 2006. Histoire naturelle des dragons [2nd edition]. Rennes: Terre de Brume, pp. 87-89, 249. Per semplicità, nel prosieguo dell’articolo, quando sarà necessario citare un passaggio si farà riferimento al nome dell’autore e dove possibile alla pagina.
4) Senter, P., Hill, L. C. & Moton, B. J. 2013. Solution to a 440-year-old Zoological Mystery: The Case of Aldrovandi's Dragon. “Annals of Science”, vol. 70, n. 4, pp. 531-537.
5) Il “Discorso naturale” di Ulisse Aldrovandi in: Tugnoli Pattaro, 1981, S. Metodo e sistema delle scienze nel pensiero di Ulisse Aldrovandi. Bologna, Clueb, pp. 171-232, infra p. 208. Un’edizione digitale del Discorso è disponibile all’url http://tinyurl.com/o5gxexe
6) Lorenzo Rossi, comunicazione privata, 4 luglio 2015.
7) Ruffini, op. cit., p. 94
8) Findlen, op. cit., p. 28
9) Skippon, Philip. 1732. “An account of a Journey Made Thro' Part of the Low Countries, Germany, Italy, and France”. In: A Collection of Voyages and Travels [...], Vol. VI. London: Printed from Mess. Churchill, p. 559; corsivo nostro