Animali e linguaggio: non sono d'accordo
Leggendo l’articolo, su Query n. 18, Le illusioni visive negli animali ho incontrato una frase che mi ha stupito: «Essi [gli animali] non capiscono il linguaggio (contrariamente a quanto alcuni sembrano pensare)».
Sono un Professore di Zoologia, ora in quiescenza, socio CICAP e con più di 40 anni di ricerca scientifica alle spalle e posso dire che questa affermazione un po’ categorica è, quantomeno, generica e di significato incerto: «gli animali non capiscono il linguaggio» potrebbe essere ritenuta falsa, dal momento che qualunque etologo può assicurare che moltissime specie possiedono un “linguaggio” con cui comunicano in modo intra e interspecifico. Magari Stefano Vezzani ha dimenticato di aggiungere l’aggettivo “umano” ma, anche in questo caso, l’affermazione è poco chiara. Quando leggo un articolo di fisica teorica hard su Le scienze, o anche qualche pagina di taluni filosofi, il più delle volte non ne capisco il significato. Si tratta in entrambi i casi di “linguaggi umani”, ma l’autore scriverebbe che io non capisco il linguaggio tout court? Vediamo qualche altro caso: intorno agli anni ’50 quando la TV iniziò a mandare in onda i telegiornali, si osservò che un gran numero di utenti non ne comprendevano il contenuto: allora si sarebbe potuto scrivere «milioni di italiani non capiscono il linguaggio»?
Io, pur non essendo un animalista, mi annovero tra gli ingenui del “contrariamente a quanto alcuni sembrano pensare”. Mi consola l’essere in buona compagnia: basta un solo famosissimo nome di una scienziata pluripremiata e stimata in tutto il mondo, Jane Goodhall. Cito anche il nostro Danilo Mainardi.
Forse Vezzani ha lasciato nella penna l’aggettivo “complesso” vicino all’altro dimenticato, “umano”.
Ma anche parlare di “linguaggio umano complesso” lascerebbe margini di equivocità, almeno finché non si specifica cosa si intende per “complesso”. In effetti, come si vede, il tema del “linguaggio” è sempre difficile da affrontare.
Numerosi studi hanno fornito prove piuttosto convincenti che varie specie comprendono il significato di un buon numero di parole, sostantivi e verbi. Sembra anche che un numero ridotto di specie sappia utilizzarle correttamente per costruire brevi frasi, quando siano abbinate a simboli grafici. Non possiamo allora ritenere probabile che vari animali siano in grado di capire il “linguaggio umano elementare”? Adesso dovrei definire “elementare”! Direi, comprendere il significato di un certo numero di parole riuscendo a collegarle, anche se non sempre, a qualche verbo o avverbio. Definizione molto personale e criticabile, me ne rendo conto, ma forse utile per intendersi in una discussione. Certo, è assai improbabile che gli animali non umani possano comprendere il linguaggio simbolico astratto.
Ma adesso mi sorge una domanda: quanti umani comprendono il significato dei linguaggi animali?
C’è anche un’altra affermazione che mi piace poco. Vezzani scrive: «Certi metodi per lo studio della percezione… sono invasivi e provocano un danno cerebrale… Per ragioni etiche, dunque, essi non possono [essere impiegati] su esseri umani, mentre possono essere utilizzati sugli animali». Eh no, non concordo: magari mi sbaglio, ma sembra che Vezzani proponga un concetto dell’etica limitato all’antropocentrismo, direi di matrice cattolica. Non sono un docente di bioetica animale, ma ne ho letto qualcosa e alcuni filosofi del diritto si occupano dell’argomento, tra l’altro piuttosto vecchio: tra i primi a scrivere dei diritti degli animali fu Jeremy Bentham che visse a cavallo tra ‘700 e 800.
Ritengo che, proprio per ragioni etiche, noi non possiamo indurre sofferenze negli animali, nemmeno per “salvare” vite umane!
Giancarlo Fava
Risponde Stefano Vezzani
Gentile Professor Fava,
come lei stesso ricorda, il mio articolo era centrato sul tema delle illusioni visive nel mondo animale, e in questo senso la frase sul linguaggio era solo una digressione dal tema principale. La ringrazio comunque della sua lettera che mi dà l’opportunità di chiarire il mio pensiero.
Per quanto non sia un esperto in materia, so bene che gli animali comunicano tra di loro e sono certo che, come me, anche molti dei lettori hanno sentito parlare almeno del “linguaggio delle api”, studiando il quale von Frisch ha vinto un Nobel.
Lei ipotizza che io abbia «dimenticato di aggiungere l’aggettivo ’umano’» alla parola “linguaggio”. In realtà è vero che mi riferivo al solo linguaggio umano, ma non mi sono preoccupato di precisarlo per due ragioni. La prima è che davo per scontato che non si possa negare agli animali qualunque capacità di comunicare tra loro; la seconda è che nell’articolo mi rivolgevo a non specialisti e, nel suo significato non specialistico, il linguaggio è una facoltà esclusivamente umana per definizione, o almeno lo è secondo i dizionari che ho consultato.
«Quando leggo un articolo di fisica... non ne capisco il significato». Ciò implica, mi chiede, che «non capisco il linguaggio tout court?» Io e lei non capiamo l’articolo di fisica, ma sappiamo dire se una frase di quell’articolo viola la grammatica perché contiene quattro congiunzioni consecutive, mentre sospetto – ma mi potrei sbagliare – che uno scimpanzé non sarebbe in grado di farlo. Dico questo perché la comprensione della grammatica è uno dei punti principali su cui verte il dibattito tra chi crede e chi non crede all’esistenza di un linguaggio animale.
Quanto al mio inciso “contrariamente a quanto alcuni sembrano pensare”, esso si spiega col fatto che mentre scrivevo avevo presente in che modo avrei concluso l’articolo, cioè parlando degli “esperimenti” inequivocabilmente pseudoscientifici di von Osten e Krall su Clever Hans. Non ho dubbi sul rigore metodologico di tanti lavori contemporanei sul “linguaggio animale”, che li differenzia da quelli di von Osten e Krall, e che giustifica l’interesse di diversi studiosi importanti tra cui quelli che lei nomina. Vorrei però osservare a mia volta che sono molti e non meno prestigiosi anche coloro che sono scettici riguardo all’esistenza di un vero e proprio linguaggio animale, e che tra di essi c’è quello che è in genere ritenuto il più grande linguista di tutti i tempi, cioè Noam Chomsky. Per quanto mi riguarda non ho una posizione definita su questo tema perché non me ne occupo, ma mi pare che quando si parla di linguaggio, animale o umano che sia, non si possa evitare di attribuire un qualche peso all’opinione di Chomsky.
Così come non ho dimenticato di aggiungere “umano” alla parola linguaggio, non ho, come lei scrive, “lasciato nella penna” l’aggettivo “complesso”. Non ho usato questa parola perché non ho un’idea ben definita di cosa essa significhi quando la si applica al linguaggio. Lo stesso vale per l’aggettivo “elementare”, di cui lei pure propone una definizione.
Lei scrive che «Numerosi studi hanno fornito prove piuttosto convincenti che varie specie comprendono... “parole, sostantivi e verbi” e che alcune specie sanno “utilizzarle ... per costruire brevi frasi». Quel che a me risulta è che le prove di cui lei parla convincono alcuni ma non altri. Rimando i lettori a un botta e risposta su questo argomento tra C. Wynne e S. Savage-Rumbaugh[1].
Infine, lei avanza il sospetto che io ritenga moralmente lecito far soffrire gli animali quando ciò torna utile e che quindi abbia un concetto antropocentrico dell’etica, «direi di matrice cattolica». Io però non intendevo esprimere l’opinione personale dell’ateo Vezzani, quanto piuttosto descrivere un semplice dato di realtà, e cioè che oggi gli esperimenti invasivi vengono condotti solo su animali. Entrare nel merito del dibattito etico che esiste su questo tema, e che lei ricorda, esulava dagli obiettivi del mio articolo.
Il mystero della mano gigante
Vorrei sottoporre alla vostra attenzione una fotografia scattata in Mongolia questa estate. La particolarità della foto è data dalla presenza di una mano gigante che appare all'orizzonte. La foto è pubblicata nel sito di Anne Givoudan, (nella sezione "Foto insolite"), che si presenta come "guaritrice Essena"
Il mio desiderio è di capire come sia stato realizzato il "trucco" della mano che appare nella foto.
Francesco Cova
Risponde Gigi Cappello
La foto che ci è stata segnalata (fig.1) è stata notata navigando su Internet. Non possiamo dunque disporre di tutti i meta-dati dell’immagine, dai quali avremmo potuto capire che tipo di apparecchio ha scattato l’immagine (se uno smartphone, una camera digitale ed eventualmente di quale modello), quali erano i parametri dello scatto e se l’immagine sia stata elaborata attraverso qualche software di ritocco. Si tratta di informazioni fondamentali per un’analisi accurata e definitiva dello scatto.
Possiamo comunque fare alcune considerazioni basandoci sull’osservazione della fotografia.
Innanzi tutto la mano “fuori posto” non può essere un elemento fisico dell’inquadratura. Non è certamente un monumento o un'installazione: dovrebbe essere alta alcune centinaia di metri e comunque non si vedrebbe in quel modo. E a voler essere pignoli, non ci risulta che esistano monumenti simili, men che meno nella desertica Mongolia.
Si tratta dunque certamente un intervento di foto ritocco o un artefatto in fase di scatto (non possiamo fidarci di quanto recita la didascalia della foto sul sito nella quale si trova pubblicata, ovvero che non è stato effettuato alcun tipo di ritocco).
Concentrandoci sulla regione dell’anomalia (fig. 2.), possiamo notare alcuni particolari interessanti. La conformazione della “mano fantasma” ad esempio è molto simile a quella della mano dell’uomo ritratto in fotografia. Anche la posizione delle dita e la chiusura del palmo sono sovrapponibili. L’uomo inoltre sta chiaramente agitando la mano e, tracciando una ipotetica “traiettoria del saluto”, ci si accorge che la mano dell’uomo potrebbe essersi trovata in quella posizione un istante prima o dopo. Infine, la mano sullo sfondo presenta un leggero “effetto fantasma”, ovvero appare meno “materiale” rispetto agli altri elementi fisici dell’immagine. Viene dunque immediato pensare che siano stati effettuati due scatti in modalità raffica durante il saluto dell’uomo ritratto. A questo punto, chiunque abbia un po’ di dimestichezza con photoshop impiegherebbe pochi minuti a realizzare l’immagine in analisi con una semplice sovrapposizione di livelli. Su quale poi possa essere lo scopo di un tale divertissement non vogliamo soffermarci.
Un’altra possibilità è che la suddetta sovrapposizione di scatti non sia stata fatta volutamente ma che sia un artefatto dovuto ad algoritmi in camera, come ad esempio una funzione HDR (che di fatto elabora ed unisce due o più foto scattate in sequenza). Molto spesso ci è capitato di avere a che fare con casi del genere, in cui chi ha scattato la foto, non conoscendo le insidie che certe funzioni possono celare, in assoluta buona fede non è stato poi in grado di interpretare i curiosi risultati dei propri scatti.
Quest’ultima ipotesi ci lascia in questo caso un po’ perplessi, in quanto da un artefatto software ci si aspetterebbe qualcosa di più confusionario (qualche altro elemento fuori posto, qualche altro “doppione”), mentre qui tutto è molto pulito. Insomma sembrerebbe un risultato voluto.
Nota
1) Wynne, C. (2008). Aping Language, Skeptic, 13, 10-14; Savage-Rumbaugh, S. e altri (2009). Empirical Kanzi, Skeptic, 15, 25-33