La scienza è un metodo per descrivere il mondo al meglio delle nostre conoscenze e non un’enciclopedia di fatti e nozioni stabiliti una volta per tutte: un’idea che dovrebbe ormai essere familiare ai lettori di questa rubrica. Teorie che ieri erano considerate acquisite oggi possono essere superate da altre che descrivono un maggior numero di fenomeni osservati.
Abbiamo anzi visto, parlando di Imre Lakatos, come proprio questo progresso (spiegare ogni volta una frazione maggiore della realtà che ci circonda) possa essere preso come requisito per stabilire la scientificità di una teoria. Come conseguenza diretta, ne discende che la conoscenza scientifica è soggetta a continua revisione e ha poco a che fare con il concetto di verità immutabile: quello che oggi è considerato “vero”, un fatto scientifico assodato, potrebbe essere considerato falso, o per lo meno inaccurato, domani. Esistono quindi inevitabilmente momenti di transizione in cui più teorie, più possibili spiegazioni di un fenomeno coesistono senza che gli scienziati riescano a mettersi d’accordo.
Ci scontriamo però con un problema: come ci si deve comportare per prendere una decisione basata sulla conoscenza scientifica, se quello che so oggi potrebbe in realtà essere sbagliato? Se la conoscenza scientifica non è la “verità”, come faccio a decidere qual è il protocollo di cura migliore per questa o quella malattia? È davvero necessario spendere miliardi per ridurre le emissioni di gas serra? È una buona idea comprare milioni di dosi di antivirali in previsione di una pandemia influenzale? Come vanno regolamentate le emissioni di onde elettromagnetiche per essere ragionevolmente certi che non vi siano pericoli per la salute?
La provvisorietà della conoscenza scientifica non implica, naturalmente, che ogni teoria o ipotesi abbia pari dignità. Ogni affermazione ha un grado più o meno elevato di plausibilità, che dipende da quanto è coerente con le conoscenze considerate come acquisite in un dato momento.
È il concetto espresso nella massima «affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie», attribuita al sociologo Marcello Truzzi e resa popolare da Carl Sagan. Se la mia affermazione mette in discussione una frazione cospicua della conoscenza scientifica generalmente accettata, che è tale perché sono state raccolte montagne di prove a suo favore, è necessario che le prove che porto abbiano un peso confrontabile (questo concetto ha anche una formulazione matematica rigorosa nel teorema di Bayes, di cui ha parlato Andrea Ferrero sul numero 3 di Query ). In ogni dato momento, quindi, chi deve prendere le decisioni si dovrebbe basare sul “consenso” (a volte si usa il termine latino consensus) della comunità scientifica, ossia sull’insieme di conoscenze generalmente considerate come acquisite.
Ma, come viene spesso fatto osservare, la scienza non si fa a maggioranza: gli scienziati possono essere anche tutti d’accordo, dovrebbe però bastare un solo esperimento dal risultato inequivocabile per far sì che cambino idea. Naturalmente la faccenda è ben più complicata di così, ma il senso è quello: vince chi ha le evidenze sperimentali dalla sua parte, non la maggioranza. Recentemente Brian Dunning ha fatto notare su Skepticblog[1] come il significato corrente del termine “consenso” sia diverso da quello scientifico: nel primo caso implica la maggioranza delle persone coinvolte, nel secondo è piuttosto la maggioranza della letteratura scientifica (di come questa funzioni abbiamo parlato nei numeri 2 e 10 di Query). Il consenso dunque non implica l’unanimità degli scienziati, e in realtà neanche l’unanimità delle pubblicazioni. È quasi certo che per qualunque argomento ci sarà qualche scienziato “eretico”, che in buona fede ha opinioni diverse, o qualche risultato sperimentale anomalo che non è sufficiente a mettere in discussione il quadro generale, come è tipico dei periodi di “scienza normale” descritti da Kuhn o da Lakatos (ne abbiamo parlato lo scorso numero).
Allora come si fa a stabilire quale sia il consenso scientifico su un determinato argomento? A volte è molto semplice: nessuno si sognerebbe di mettere in discussione che la comunità scientifica sia concorde sul fatto che sia la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa. Ma in altri casi, che da questo punto di vista sono i più interessanti, è più complicato: sono i casi di controversia scientifica, oppure quelli in cui la letteratura scientifica non mostra una concordanza immediatamente evidente.
Una possibilità è proprio stimare cosa pensi la maggioranza numerica degli scienziati, che per fortuna molto spesso coincide con il “consenso” della letteratura. In alcuni campi, in cui è necessario prendere decisioni importanti, è pratica comune interrogare esplicitamente la comunità scientifica perché esprima un parere: è il caso per esempio della costituzione dell’International Panel on Climate Change per questo riguarda il cambiamento climatico o delle consensus conference, congressi di esperti in medicina che hanno il mandato specifico di stabilire, in base alle conoscenze scientifiche in quel momento generalmente accettate, quali debbano essere le linee guida per la pratica medica.
A volte anche solo capire quale sia il consenso della letteratura può essere un lavoro non banale e portare a conclusioni sorprendenti. Un caso celebre è raccontato anche da Ben Goldacre nel suo recente Bad Pharma.[2] A partire dagli anni settanta, alcuni studi suggerivano come la somministrazione di cortisone alle donne gravide a rischio di parto prematuro migliorasse la probabilità di sopravvivenza del bambino, stimolandone la maturazione dei polmoni. Ma la letteratura non era unanime: alcuni studi trovavano un effetto positivo, altri no, e la somministrazione di steroidi non era generalmente praticata. Nel 1989, finalmente, qualcuno si prese la briga di mettere assieme tutti gli studi in una meta-analisi e si rese conto che, anche se non tutti gli studi concordavano, il risultato complessivo (il consenso, appunto) era che la somministrazione di cortisone raddoppia le probabilità di sopravvivenza del bambino, stabilendo la linea guida seguita ancora oggi dai medici che si trovano ad affrontare casi simili.
Casi come questo hanno portato alla costituzione della Cochrane Collaboration[3], una iniziativa internazionale che si occupa di valutare criticamente l’efficacia degli interventi sanitari attraverso la revisione sistematica della letteratura scientifica, proprio per stabilire quale sia il consenso scientifico su una determinata pratica (ed è sorprendente notare quante cure, alla prova dei fatti, si rivelino in realtà assai poco efficaci).
Fino a qui abbiamo parlato solo di come gli scienziati, o chi si trovi a dover prendere delle decisioni, possano tentare di stabilire quale sia il consenso anche in condizioni di controversia. Ma nella controversia, e soprattutto nella sua rappresentazione pubblica, esistono anche fattori che non derivano direttamente dalla comunità scientifica.
Per esempio, spesso la controversia (o anche solo la normale mancanza di un consenso completamente unanime) viene percepita dall’opinione pubblica più ampia di quanto non sia in effetti perché i giornalisti scientifici applicano il criterio di par condicio usato dai loro colleghi che si occupano di politica: danno infatti sempre spazio alla “altra campana”, anche se si tratta di una voce completamente minoritaria, della quale i giornalisti non sono in grado di valutare l’inconsistenza.
In altri casi l’amplificazione è pilotata ad arte da gruppi di opinione che hanno interesse nel vedere indebolito il consenso su un determinato argomento. Sono esempi ben documentati le controversie sui danni delle piogge acide o sui rischi del fumo passivo, negli anni Ottanta, solo per citare i due casi più noti; ed è plausibile che stia accadendo qualcosa del genere anche nel caso del dibattito sull’origine antropica del riscaldamento globale, come argomenta in maniera abbastanza convincente la storica Naomi Oreskes in Merchants of doubt.[4]
Anche in questo numero della rubrica, la conclusione è la stessa: ne riparleremo, più approfonditamente.
Abbiamo anzi visto, parlando di Imre Lakatos, come proprio questo progresso (spiegare ogni volta una frazione maggiore della realtà che ci circonda) possa essere preso come requisito per stabilire la scientificità di una teoria. Come conseguenza diretta, ne discende che la conoscenza scientifica è soggetta a continua revisione e ha poco a che fare con il concetto di verità immutabile: quello che oggi è considerato “vero”, un fatto scientifico assodato, potrebbe essere considerato falso, o per lo meno inaccurato, domani. Esistono quindi inevitabilmente momenti di transizione in cui più teorie, più possibili spiegazioni di un fenomeno coesistono senza che gli scienziati riescano a mettersi d’accordo.
Ci scontriamo però con un problema: come ci si deve comportare per prendere una decisione basata sulla conoscenza scientifica, se quello che so oggi potrebbe in realtà essere sbagliato? Se la conoscenza scientifica non è la “verità”, come faccio a decidere qual è il protocollo di cura migliore per questa o quella malattia? È davvero necessario spendere miliardi per ridurre le emissioni di gas serra? È una buona idea comprare milioni di dosi di antivirali in previsione di una pandemia influenzale? Come vanno regolamentate le emissioni di onde elettromagnetiche per essere ragionevolmente certi che non vi siano pericoli per la salute?
La provvisorietà della conoscenza scientifica non implica, naturalmente, che ogni teoria o ipotesi abbia pari dignità. Ogni affermazione ha un grado più o meno elevato di plausibilità, che dipende da quanto è coerente con le conoscenze considerate come acquisite in un dato momento.
È il concetto espresso nella massima «affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie», attribuita al sociologo Marcello Truzzi e resa popolare da Carl Sagan. Se la mia affermazione mette in discussione una frazione cospicua della conoscenza scientifica generalmente accettata, che è tale perché sono state raccolte montagne di prove a suo favore, è necessario che le prove che porto abbiano un peso confrontabile (questo concetto ha anche una formulazione matematica rigorosa nel teorema di Bayes, di cui ha parlato Andrea Ferrero sul numero 3 di Query ). In ogni dato momento, quindi, chi deve prendere le decisioni si dovrebbe basare sul “consenso” (a volte si usa il termine latino consensus) della comunità scientifica, ossia sull’insieme di conoscenze generalmente considerate come acquisite.
Ma, come viene spesso fatto osservare, la scienza non si fa a maggioranza: gli scienziati possono essere anche tutti d’accordo, dovrebbe però bastare un solo esperimento dal risultato inequivocabile per far sì che cambino idea. Naturalmente la faccenda è ben più complicata di così, ma il senso è quello: vince chi ha le evidenze sperimentali dalla sua parte, non la maggioranza. Recentemente Brian Dunning ha fatto notare su Skepticblog[1] come il significato corrente del termine “consenso” sia diverso da quello scientifico: nel primo caso implica la maggioranza delle persone coinvolte, nel secondo è piuttosto la maggioranza della letteratura scientifica (di come questa funzioni abbiamo parlato nei numeri 2 e 10 di Query). Il consenso dunque non implica l’unanimità degli scienziati, e in realtà neanche l’unanimità delle pubblicazioni. È quasi certo che per qualunque argomento ci sarà qualche scienziato “eretico”, che in buona fede ha opinioni diverse, o qualche risultato sperimentale anomalo che non è sufficiente a mettere in discussione il quadro generale, come è tipico dei periodi di “scienza normale” descritti da Kuhn o da Lakatos (ne abbiamo parlato lo scorso numero).
Allora come si fa a stabilire quale sia il consenso scientifico su un determinato argomento? A volte è molto semplice: nessuno si sognerebbe di mettere in discussione che la comunità scientifica sia concorde sul fatto che sia la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa. Ma in altri casi, che da questo punto di vista sono i più interessanti, è più complicato: sono i casi di controversia scientifica, oppure quelli in cui la letteratura scientifica non mostra una concordanza immediatamente evidente.
Una possibilità è proprio stimare cosa pensi la maggioranza numerica degli scienziati, che per fortuna molto spesso coincide con il “consenso” della letteratura. In alcuni campi, in cui è necessario prendere decisioni importanti, è pratica comune interrogare esplicitamente la comunità scientifica perché esprima un parere: è il caso per esempio della costituzione dell’International Panel on Climate Change per questo riguarda il cambiamento climatico o delle consensus conference, congressi di esperti in medicina che hanno il mandato specifico di stabilire, in base alle conoscenze scientifiche in quel momento generalmente accettate, quali debbano essere le linee guida per la pratica medica.
A volte anche solo capire quale sia il consenso della letteratura può essere un lavoro non banale e portare a conclusioni sorprendenti. Un caso celebre è raccontato anche da Ben Goldacre nel suo recente Bad Pharma.[2] A partire dagli anni settanta, alcuni studi suggerivano come la somministrazione di cortisone alle donne gravide a rischio di parto prematuro migliorasse la probabilità di sopravvivenza del bambino, stimolandone la maturazione dei polmoni. Ma la letteratura non era unanime: alcuni studi trovavano un effetto positivo, altri no, e la somministrazione di steroidi non era generalmente praticata. Nel 1989, finalmente, qualcuno si prese la briga di mettere assieme tutti gli studi in una meta-analisi e si rese conto che, anche se non tutti gli studi concordavano, il risultato complessivo (il consenso, appunto) era che la somministrazione di cortisone raddoppia le probabilità di sopravvivenza del bambino, stabilendo la linea guida seguita ancora oggi dai medici che si trovano ad affrontare casi simili.
Casi come questo hanno portato alla costituzione della Cochrane Collaboration[3], una iniziativa internazionale che si occupa di valutare criticamente l’efficacia degli interventi sanitari attraverso la revisione sistematica della letteratura scientifica, proprio per stabilire quale sia il consenso scientifico su una determinata pratica (ed è sorprendente notare quante cure, alla prova dei fatti, si rivelino in realtà assai poco efficaci).
Fino a qui abbiamo parlato solo di come gli scienziati, o chi si trovi a dover prendere delle decisioni, possano tentare di stabilire quale sia il consenso anche in condizioni di controversia. Ma nella controversia, e soprattutto nella sua rappresentazione pubblica, esistono anche fattori che non derivano direttamente dalla comunità scientifica.
Per esempio, spesso la controversia (o anche solo la normale mancanza di un consenso completamente unanime) viene percepita dall’opinione pubblica più ampia di quanto non sia in effetti perché i giornalisti scientifici applicano il criterio di par condicio usato dai loro colleghi che si occupano di politica: danno infatti sempre spazio alla “altra campana”, anche se si tratta di una voce completamente minoritaria, della quale i giornalisti non sono in grado di valutare l’inconsistenza.
In altri casi l’amplificazione è pilotata ad arte da gruppi di opinione che hanno interesse nel vedere indebolito il consenso su un determinato argomento. Sono esempi ben documentati le controversie sui danni delle piogge acide o sui rischi del fumo passivo, negli anni Ottanta, solo per citare i due casi più noti; ed è plausibile che stia accadendo qualcosa del genere anche nel caso del dibattito sull’origine antropica del riscaldamento globale, come argomenta in maniera abbastanza convincente la storica Naomi Oreskes in Merchants of doubt.[4]
Anche in questo numero della rubrica, la conclusione è la stessa: ne riparleremo, più approfonditamente.
Note
2) Ben Godacre, Bad Pharma. How Drug Companies Mislead Doctors and Harm Patients. London: Fourth Estate (2012)
4) Naomi Oreskes, Erik Conway, Merchants of Doubt. How a Handful of Scientists Obscured the Truth on Issues from Tobacco Smoke to Global Warming. London: Bloomsbury (2010)