I media e la scienza: proviamo a sfatare qualche mito

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©Science Bros
Cosa capisce il pubblico della scienza? Come devono comportarsi i singoli scienziati e le istituzioni universitarie per comunicare adeguatamente le loro scoperte? Qual è la qualità della copertura mediatica sui fatti scientifici? “La scienza della comunicazione della scienza” è il titolo di un convegno organizzato dalla National Academy of Sciences statunitense che si è svolto lo scorso 21 e 22 maggio a Washington. Oltre 450 ricercatori di diverse discipline psicologiche e sociali si sono riuniti per fare il punto su un quindicennio di ricerche e per evidenziare che in questo campo di studi alcuni risultati possono essere ormai considerati consolidati. Da qui il titolo stesso del convegno, che vuole appunto sottolineare il fatto che le ricerche in materia di comunicazione della scienza hanno raggiunto una massa critica sufficiente e che non si dovrebbe prescindere dai risultati di queste ricerche se si vuole comprendere come i singoli o le istituzioni ragionano e prendono decisioni su questioni di tipo scientifico.

“Gli errori intuitivi degli scienziati” è il titolo di un articolo scritto da due degli intervenuti a quel convegno: Matthew C. Nisbet, professore di comunicazione alla American University, e Dietram A. Scheufele, professore di Comunicazione della scienza alla University of Wisconsin-Madison. L’articolo, pubblicato sulla prestigiosa rivista The Scientist il 23 luglio scorso, vuole smontare le cinque credenze che i due autori ritengono più diffuse tra gli scienziati a proposito del funzionamento della comunicazione scientifica, credenze erronee in quanto si basano su giudizi di tipo intuitivo e non sulle conoscenze effettivamente raggiunte nell’ambito degli studi di science communication. Vediamo quali sono questi “miti persistenti”.

1° mito: i cittadini non si fidano più degli scienziati

Un’opinione diffusa, spiegano Nisbet e Scheufele, è quella secondo cui siamo entrati in un’epoca in cui le persone hanno smesso di considerare gli esperti come degli interlocutori affidabili. Le ricerche mostrano invece un quadro diverso. Esse indicano che i livelli di fiducia nella comunità scientifica sono stabili negli ultimi vent’anni, anche se singole istituzioni possono aver visto erodersi il loro patrimonio di credibilità. Inoltre, rimarcano i due autori, la fiducia verso gli scienziati resta più alta di quella che il pubblico manifesta verso altre categorie, per esempio i politici, i giornalisti o gli uomini d’affari. E anche se è vero che, secondo alcuni studi, una parte dell’opinione pubblica americana, e segnatamente quella di orientamento politico conservatore, sembra essersi spostata su posizioni più critiche nei confronti della comunità scientifica, per esempio su temi quali l’evoluzione, questo dato non può essere generalizzato a tutti i cittadini, ma va analizzato contestualizzandolo, per comprendere cioè le ragioni specifiche del fenomeno.

2° mito: il giornalismo scientifico è morto

Spesso gli scienziati si lamentano del modo, che considerano distorto, in cui i media riportano notizie di tipo scientifico o tecnologico. E, altrettanto spesso, essi si dichiarano preoccupati del fatto che la crisi dell’editoria stia imponendo dei tagli nelle redazioni che di fatto stanno determinando la morte del giornalismo scientifico. In realtà, però, ragionano Nisbet e Scheufele, ciò a cui assistiamo è una trasformazione di questo settore, piuttosto che una sua scomparsa. Come ha mostrato uno studio recente condotto proprio da Nisbet, infatti, le redazioni giornalistiche hanno smesso di essere la fonte unica o privilegiata di informazioni sulla scienza e la tecnologia. Di fatto, lo sviluppo della rete ha creato un canale di comunicazione diretto tra chi fa la scienza e il pubblico, che spesso finisce per saltare la mediazione dei giornalisti o che li costringe a confrontarsi con dati precisi e fonti molto autorevoli. Da un lato, infatti, cresce il numero e la credibilità dei blog curati da ricercatori scientifici e dall’altro gli uffici stampa delle università si stanno specializzando nel promuovere i risultati delle ricerche prodotte dai propri ricercatori. Il lavoro delle redazioni giornalistiche resta però indispensabile quando si tratta di spiegare e interpretare aree complesse della ricerca, o quando vanno presentati risultati scientifici che hanno ricadute di tipo politico. In questo caso i media devono esercitare un senso critico che consente di offrire una valutazione ragionata e competente dei modi in cui la scienza, in quanto istituzione, elabora i suoi risultati, nonché del loro valore sul piano sociale.

3° mito: i prodotti dell’industria cinematografica promuovono una cultura antiscientifica

Anche in questo caso le ricerche mostrano i limiti di questa credenza. I protagonisti di film o fiction televisive sono raramente degli scienziati, ma quando questo accade essi vengono presentati in una luce quasi sempre positiva: sono nella grande maggioranza dei casi degli eroi e non interpretano quasi mai dei ruoli del tutto negativi.

Quando si valuta l’effetto che la fiction cinematografica o televisiva ha sugli atteggiamenti di coloro che ne fruiscono bisognerebbe poi sempre considerare la difficoltà di analizzare tali effetti indipendentemente da altre caratteristiche del pubblico, sia di tipo socio-demografico che relative ai livelli di istruzione.

4° mito: il problema è l’opinione pubblica, non gli scienziati o i politici

Quarto mito: il problema è l’opinione pubblica, non gli scienziati o i politici. Gli scienziati, scrivono i due autori, tendono a pensare che quando segmenti più o meno ampi dell’opinione pubblica si dimostrano in disaccordo con loro su questioni che presentano risvolti sociopolitici rilevanti il problema vada ricercato nell’ignoranza del pubblico stesso. La soluzione che viene proposta in questi casi è spesso quella di promuovere delle campagne informative che dovrebbero fornire al pubblico quelle conoscenze di cui è carente, spingendolo così ad adottare un punto di vista più adeguato o rispondente alla realtà.

Anche in questo caso il riduzionismo non aiuta, poiché non considera il fatto che le posizioni che l’opinione pubblica esprime non sono la diretta conseguenza di un maggiore o minore livello di conoscenza di un tema, ma dipendono in maniera rilevante anche da altri fattori relativi alla fiducia nei confronti di certi esperti, alle emozioni che uno specifico tema o questione suscita - pensiamo per esempio a tutto ciò che ha a che fare con la salute, la malattia e la morte - o alle categorie di significato che gli vengono attribuite. Bisogna poi considerare che spesso gli atteggiamenti che il pubblico esprime su tematiche complesse come quelle scientifico-tecnologiche sono solo parzialmente definiti, quando non decisamente ambivalenti o contraddittori.

In questo senso, sarebbe utile abbandonare una visione del pubblico di tipo statico o semplificatorio: esistono pubblici diversi, e le dinamiche di cambiamento sono una caratteristica fondamentale delle contemporaneità, non un’eccezione.

5° mito: gli scienziati non sono influenzati dal loro orientamento politico

Ci sono almeno due elementi da considerare secondo i due studiosi statunitensi. Il primo è che, al di là dell’expertise scientifica, gli orientamenti politico-ideologici giocano un ruolo rilevante nel determinare la preferenza dei ricercatori verso certi meccanismi regolatori in ambito scientifico piuttosto che altri. Basti pensare, per fare un esempio significativo nel contesto italiano, alle questioni legate alla procreazione, dalle tecniche di fecondazione assistita alle tecnologie disponibili per l’interruzione di gravidanza.

Il secondo elemento è che gli orientamenti ideologici giocano un ruolo ancora più rilevante tanto più quanto gli scienziati devono giudicare di questioni che attengono ad ambiti diversi da quelli relativi alla loro specializzazione.
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