Poco dopo il 1990 i direttori dei due maggiori quotidiani italiani inventarono una nuova categoria del giornalismo, o meglio ne ribattezzarono una vecchia. Da allora si parla di “notizie divertenti”. Prima, nel crudo linguaggio delle redazioni – mi scusino le signore, userò la parola una volta sola e poi adotterò l'espressione moderna – si sarebbe detto cazzate.
Nell'inseguimento del cosiddetto “giornale omnibus”, cioè per tutti o, con espressione antica, “popolare” – quel modello di quotidiano settimanalizzato che avrebbe dovuto arginare la perdita di copie – la categoria delle “notizie divertenti” divenne presto importante.
Nelle riunioni di direzione si confezionava (si confeziona) la prima pagina con alcuni titoli di politica interna ed estera, magari uno di sport, e se i tempi aiutano, di cronaca sanguinolenta. Poi ci si guardava (ci si guarda) in faccia e si diceva (si dice): “Ci vorrebbe ancora una notizia divertente da mettere di spalla o di taglio basso”.
Chi cerca trova, e la “notizia divertente” si trovava (si trova) sempre. Spesso era (è) una notizia di scienza. Una notizia all'origine anche seria e dignitosa ma che, calata nel format del giornale omnibus, si trasforma all'istante nella parolaccia inflazionata delle paleo-redazioni.
Domenica 14 novembre 2010 in prima pagina su La Repubblica, sotto l'occhiello “La ricerca”, un titolo annunciava “Il segreto dell'enzima che ci fa gustare i gelati”. L'articolo “dal nostro inviato” a New York, era di una firma illustre e meritatamente stimata. Questo l'incipit: “Se c'è una cosa che ci fa impazzire, i ricercatori del Monell Chemical Sense di Philadelpia non hanno dubbi, sono le amilasi, gli enzimi che sciolgono l’amido. Sono le amilasi presenti nella saliva a ridurre gli amidi in liquidi, sono queste particelle elementari a operare quella scissione che produce il gusto di cioccolato e panna”.
Le particelle elementari ovviamente non saranno quark o neutrini. L'inviato speciale avrà voluto dire molecole. Non scandalizziamoci, in fondo ancora all'inizio dell'Ottocento, al tempo di Amedeo Avogadro, c'era confusione tra atomi e molecole.
Il pezzo va avanti con il tono disinvolto, svagato e fintamente confidenziale tipico delle notizie divertenti spiegando che le amilasi producono il gusto “che rende quella coppetta – preferisce un cono? – indimenticabile. Da qui alla scoperta dell'enzima del gelato il passo è breve. Troppo?”.
Pausa sull'arduo interrogativo, punto e a capo. “Per la verità – prosegue l'inviato a New York al quale è stata affidata la missione di sviscerare l'importante scoperta – il ruolo delle amilasi non era un segreto, per lo meno per i più fortunati in grado di ricordare qualche rudimento di scienze.”
Alt. “Fortunati”? Non saranno piuttosto coloro che a scuola avevano voglia di studiare? O forse sapere qualcosa di chimica è una circostanza paragonabile a quella che fa vincere al Lotto? Grazie, comunque, per non aver avvolto le amilasi nel mistero e magari nell'esoterismo: la loro scoperta risale al 1833, ad opera del chimico francese Anselme Payen (1795-1871).
Fortunati o sfigati, adesso fate attenzione perché arriva la notizia: “Quello che gli studiosi del Monell hanno scoperto è che non tutti produciamo la stessa quantità di amilasi e quindi non tutti percepiamo il sapore allo stesso modo”. Perbacco. Ma questo è niente, ora arriva la genetica in stile Sherlock Holmes. “È stato trovato anche il colpevole: un gene chiamato AMY1, da amylase appunto, che accelera o meno la scissione degli amidi in liquidi”.
Qui c'è una digressione: dal gusto del gelato si balza al diabete, emergenza sanitaria che tocca il 5 per cento della popolazione mondiale, perché quel gene è implicato anche nella predisposizione a questa malattia del metabolismo. Digressione breve, comunque, perché subito entra in scena un certo Rick Mattes, “un nutrizionista dell'Indiana”, il quale autorevolmente spiega che amilasi e geni non devono farci dimenticare che “conta anche la ripetizione: prova e riprova, a un determinato gusto ti puoi anche abituare. Insomma gli enzimi hanno un ruolo, i geni eccome se contano, ma poi è la mano del gelataio quella che conta. O no?”.
Sì, amici, nel tono conversevole è incluso anche questo “O no?”. Che serve a introdurre il colpo di scena finale: il parere di Guido Martinetti “che con Federico Grom offre in mezzo mondo, dal Giappone agli Usa quel gelato come una volta che per il New York Magazine è semplicemente il migliore”. E la multinazionale del gelato dell'analista finanziario Federico Grom si tira dietro Slow Food, multinazionale vestita da contadino scarpe grosse e cervello fino, che a Grom “spesso” certifica i prodotti. Con questo mix di informazione e pubblicità si chiude il pezzo.
Così è la scienza quando i giornali ne cavano una notizia divertente.
Nell'inseguimento del cosiddetto “giornale omnibus”, cioè per tutti o, con espressione antica, “popolare” – quel modello di quotidiano settimanalizzato che avrebbe dovuto arginare la perdita di copie – la categoria delle “notizie divertenti” divenne presto importante.
Nelle riunioni di direzione si confezionava (si confeziona) la prima pagina con alcuni titoli di politica interna ed estera, magari uno di sport, e se i tempi aiutano, di cronaca sanguinolenta. Poi ci si guardava (ci si guarda) in faccia e si diceva (si dice): “Ci vorrebbe ancora una notizia divertente da mettere di spalla o di taglio basso”.
Chi cerca trova, e la “notizia divertente” si trovava (si trova) sempre. Spesso era (è) una notizia di scienza. Una notizia all'origine anche seria e dignitosa ma che, calata nel format del giornale omnibus, si trasforma all'istante nella parolaccia inflazionata delle paleo-redazioni.
Domenica 14 novembre 2010 in prima pagina su La Repubblica, sotto l'occhiello “La ricerca”, un titolo annunciava “Il segreto dell'enzima che ci fa gustare i gelati”. L'articolo “dal nostro inviato” a New York, era di una firma illustre e meritatamente stimata. Questo l'incipit: “Se c'è una cosa che ci fa impazzire, i ricercatori del Monell Chemical Sense di Philadelpia non hanno dubbi, sono le amilasi, gli enzimi che sciolgono l’amido. Sono le amilasi presenti nella saliva a ridurre gli amidi in liquidi, sono queste particelle elementari a operare quella scissione che produce il gusto di cioccolato e panna”.
Le particelle elementari ovviamente non saranno quark o neutrini. L'inviato speciale avrà voluto dire molecole. Non scandalizziamoci, in fondo ancora all'inizio dell'Ottocento, al tempo di Amedeo Avogadro, c'era confusione tra atomi e molecole.
Il pezzo va avanti con il tono disinvolto, svagato e fintamente confidenziale tipico delle notizie divertenti spiegando che le amilasi producono il gusto “che rende quella coppetta – preferisce un cono? – indimenticabile. Da qui alla scoperta dell'enzima del gelato il passo è breve. Troppo?”.
Pausa sull'arduo interrogativo, punto e a capo. “Per la verità – prosegue l'inviato a New York al quale è stata affidata la missione di sviscerare l'importante scoperta – il ruolo delle amilasi non era un segreto, per lo meno per i più fortunati in grado di ricordare qualche rudimento di scienze.”
Alt. “Fortunati”? Non saranno piuttosto coloro che a scuola avevano voglia di studiare? O forse sapere qualcosa di chimica è una circostanza paragonabile a quella che fa vincere al Lotto? Grazie, comunque, per non aver avvolto le amilasi nel mistero e magari nell'esoterismo: la loro scoperta risale al 1833, ad opera del chimico francese Anselme Payen (1795-1871).
Fortunati o sfigati, adesso fate attenzione perché arriva la notizia: “Quello che gli studiosi del Monell hanno scoperto è che non tutti produciamo la stessa quantità di amilasi e quindi non tutti percepiamo il sapore allo stesso modo”. Perbacco. Ma questo è niente, ora arriva la genetica in stile Sherlock Holmes. “È stato trovato anche il colpevole: un gene chiamato AMY1, da amylase appunto, che accelera o meno la scissione degli amidi in liquidi”.
Qui c'è una digressione: dal gusto del gelato si balza al diabete, emergenza sanitaria che tocca il 5 per cento della popolazione mondiale, perché quel gene è implicato anche nella predisposizione a questa malattia del metabolismo. Digressione breve, comunque, perché subito entra in scena un certo Rick Mattes, “un nutrizionista dell'Indiana”, il quale autorevolmente spiega che amilasi e geni non devono farci dimenticare che “conta anche la ripetizione: prova e riprova, a un determinato gusto ti puoi anche abituare. Insomma gli enzimi hanno un ruolo, i geni eccome se contano, ma poi è la mano del gelataio quella che conta. O no?”.
Sì, amici, nel tono conversevole è incluso anche questo “O no?”. Che serve a introdurre il colpo di scena finale: il parere di Guido Martinetti “che con Federico Grom offre in mezzo mondo, dal Giappone agli Usa quel gelato come una volta che per il New York Magazine è semplicemente il migliore”. E la multinazionale del gelato dell'analista finanziario Federico Grom si tira dietro Slow Food, multinazionale vestita da contadino scarpe grosse e cervello fino, che a Grom “spesso” certifica i prodotti. Con questo mix di informazione e pubblicità si chiude il pezzo.
Così è la scienza quando i giornali ne cavano una notizia divertente.