Chi ha detto che quelli del CICAP non fanno autocritica? Se frequentate i nostri convegni o la "blogosfera" scettica, ci troverete spesso alle prese con estenuanti discussioni sulle strategie da cambiare, gli errori da non ripetere e così via. Magari non arriviamo al livello dei fronti popolari giudei di Brian di Nazareth, più occupati a farsi la guerra tra loro che a combattere i Romani, ma certo non si può dire che manchi il confronto interno. Uno degli esempi più interessanti degli ultimi anni arriva dall'Amazing Meeting[1] del 2010. In quell'occasione il curatore di Bad Astronomy Phil Plait ha analizzato quello che ritiene uno dei nostri errori più gravi in una relazione dall'eloquente titolo "Non fare il cretino" (traduzione non letterale; l'originale è "Don't be a dick")[2]. L'intervento di Plait ha suscitato un gran numero di commenti su internet, equamente divisi tra chi lo elogiava e chi lo contestava sostenendo, in estrema sintesi, che il vero cretino era lui. Tra accuse e incomprensioni reciproche la disputa non si è più fermata, coinvolgendo i nomi più illustri del nostro piccolo mondo, come i biologi Richard Dawkins[3] e PZ Myers[4], l'editorialista di Skeptic Daniel Loxton[5] e molti altri.
Che cosa aveva detto di grave Plait per scaldare tanto gli animi? Niente di particolarmente originale. Si tratta anzi di una delle polemiche più antiche nella storia dello scetticismo: in un'interessante cronistoria, Daniel Loxton ha rintracciato articoli che ne parlano fin dal 1838[6]. La pietra dello scandalo non è, come forse ci si potrebbe aspettare, quello che diciamo (il contenuto) o come arriviamo a dirlo (il metodo), ma come lo diciamo (la forma): quale tono bisogna usare nei dibattiti pubblici con chi promuove il paranormale e le pseudoscienze? È meglio ridicolizzarli oppure trattarli con rispetto?
La tesi di Plait è: promuovere lo scetticismo è già abbastanza difficile di suo, dal momento che la nostra filosofia non offre le consolazioni della religione e le illusioni della pseudoscienza; non rendiamolo ancora più difficile "facendo i cretini", cioè prendendo in giro e offendendo chi crede nell'irrazionale. Siamo indignati per i danni causati dalla ciarlataneria e frustrati dalla difficoltà del nostro compito, perciò lasciarsi andare al sarcasmo o agli insulti è una reazione comprensibile, ma controproducente. Non perdiamo di vista il nostro obiettivo di fondo (per dirla con Plait, rendere il mondo «più razionale e più ragionevole») e decidiamo la nostra strategia di comunicazione secondo un'analisi costi-benefici.
Il dibattito sulla relazione di Plait, che pure vale la pena di leggere su internet, si è arenato per una certa confusione tra tono, metodo e contenuto: si è tornati a discutere di scetticismo duro alla Paul Kurtz e di scetticismo "possibilista" alla Marcello Truzzi, di scetticismo agnostico e di scetticismo ateo, eccetera. Mi sembra invece necessario definire il problema nel modo più circoscritto possibile, per cercare una risposta fondata sui fatti e non sull'adesione emotiva a una o all'altra delle fazioni in gioco. Alla radice della tesi di Plait non ci sono né il rapporto tra scetticismo e religione né il grado di "durezza" dello scetticismo stesso: è possibile condividerla o rigettarla a prescindere dalla propria posizione su questi due temi. Il punto centrale che vorrei esaminare è semplicemente questo: qual è il tono più efficace per convincere le persone?
Diciamo fin dall'inizio che la risposta non potrà che essere un po' sfumata. Non siamo tutti uguali: qualcuno apprezza di più il sarcasmo, altri l'empatia, e perfino la stessa persona potrà reagire in modo diverso a seconda del tema, del momento e dello stato d'animo. Ma questo non cambia la sostanza dell'interrogativo: stiamo cercando di capire se un atteggiamento è mediamente più efficace dell'altro, non se lo è sempre e comunque.
Per rispondere mi sembra opportuno fermarsi a riflettere su tre interrogativi: quale pubblico vogliamo raggiungere, quale obiettivo di fondo abbiamo e come misuriamo il nostro successo.
Credo siamo tutti abbastanza d'accordo sul fatto che il pubblico a cui ci rivolgiamo non sono le persone già convinte (scettici o creduloni che siano) ma quelli che gli americani chiamano fencesitters: gli incerti, coloro che stanno sul bordo del campo a vedere come va la partita. D'altra parte, ridicolizzare i creduloni è efficace soprattutto con chi è già scettico; con chi è indeciso, può funzionare ma può anche essere inutile o controproducente. È quello che vediamo anche in politica: gli esponenti della nostra parte che ci piacciono di più perché "le cantano chiare" agli avversari sono spesso quelli meno convincenti per chi non condivide le nostre preferenze. Questo non ci permette ancora di arrivare a una conclusione, ma se non altro ci aiuta a formulare correttamente la terza domanda: dobbiamo capire qual è il tono più efficace non per noi stessi, ma per queste persone, che hanno un punto di vista sensibilmente diverso dal nostro.
Il secondo problema, definire l'obiettivo della nostra azione, è meno scontato: gli scettici si occupano sia di smontare le false credenze (il cosiddetto debunking), sia di educare il pubblico al metodo scientifico e alla razionalità. Entrambe le attività sono necessarie e benemerite, ma se dobbiamo scegliere mi sembra che la seconda abbia la precedenza: per parafrasare un famoso proverbio, non vogliamo soltanto diffondere idee scientificamente corrette, ma vogliamo aiutare le persone a pensare con la propria testa. Ne segue che per fare bene il nostro lavoro di scettici non possiamo limitarci alla pars destruens, ma dobbiamo soprattutto essere propositivi. La seconda parte è la più difficile, come sanno quelli di noi che si sono trovati di fronte alla classica domanda a occhi sgranati «Ma allora voi non credete a niente?»
Ancora più complicato è il terzo interrogativo. Come stabilire se siamo efficaci o no? Sicuramente alzare i toni attira l'attenzione, come ben sanno gli scettici americani Penn & Teller, che hanno intitolato la loro trasmissione Stronzate! (in originale, Bullshit!) anziché, per esempio, Affermazioni controverse momentaneamente prive di verifica sperimentale. Attirare l'attenzione è indispensabile, ma per valutare il nostro successo non può bastare l'indice di ascolto e neppure quello di gradimento: ci servirebbe un indice di comprensione e di condivisione del nostro modo di ragionare. Come possibile risposta empirica Loxton segnala uno studio sperimentale[7] in cui il comportamento dei partecipanti a una discussione veniva valutato da osservatori esterni; coloro che iniziavano un'aggressione verbale venivano giudicati meno credibili e dotati di argomenti meno validi. Questo studio mi sembra utile, anche perché suggerisce che nell'autovalutazione si tende a sottostimare la propria aggressività, ma non conclusivo. L'esperienza mostra che generalizzare i risultati di singoli esperimenti di questo tipo è piuttosto pericoloso, tanto più che il raggiungimento di un obiettivo complesso come lo sviluppo dello spirito critico è difficile da misurare. È vero che anche gli specialisti di comunicazione della scienza consigliano al mondo accademico di usare uno stile comunicativo più umile[8], ma l'argomento si presta a interpretazioni diverse e non credo che nella comunità scettica ci sia un consenso schiacciante su questa impostazione.
Forse si può affrontare il problema da un altro punto di vista, tenendo presente che l'onestà intellettuale è ancora più importante dell'efficacia. Per me il nocciolo della questione è il ruolo che vogliamo ricoprire: quello di parte in causa oppure quello di arbitro imparziale. Non si tratta di rinunciare al senso dell'umorismo o di inseguire il politically correct. La battuta cattiva detta al momento giusto ci può stare, purché non perdiamo di vista il nostro obiettivo di fondo. La nostra ambizione non è essere una voce tra le tante nel dibattito pubblico, è molto di più: accreditarci come una fonte obiettiva, fornire strumenti di ragionamento universali (il metodo scientifico, lo spirito critico) che possano essere condivisi a prescindere dalle ideologie. Se vogliamo davvero fare questo, il prezzo da pagare è la rinuncia a quei comportamenti che imparziali non sono. Non vedo altre strade.
Intendiamoci: di fronte a inganni, abusi e manipolazioni di persone senza scrupoli viene voglia anche a me di rispondere per le rime. Ma questa, nelle parole di Plait, è la reazione emotiva dettata dalla frustrazione, non la strategia migliore nei confronti di un pubblico ancora da conquistare. Immaginate di non avere ancora preso posizione nei confronti dell'irrazionale e di essere alla ricerca di elementi per farlo: vi sembrerebbe obiettivo un giudice che sbeffeggia e offende regolarmente una delle parti in causa?
Molto bene: ma un conto è predicare l'autocontrollo agli altri, un altro è praticarlo quando siamo noi sotto attacco. È assolutamente vero, e sono il primo a riconoscere la mia difficoltà nel mettere in atto questo ideale (per consolarmi, posso pensare che lo stesso Plait non è sempre stato all'altezza dei suoi obiettivi). Ma chiarire almeno quale ideale seguire mi sembra un buon punto di partenza. Per citare ancora una volta Phil Plait, «Non posso promettere che non sarò più un cretino. Ma farò di tutto per riuscirci. È il massimo che posso fare, ed è il massimo che posso chiedere agli altri».
Che cosa aveva detto di grave Plait per scaldare tanto gli animi? Niente di particolarmente originale. Si tratta anzi di una delle polemiche più antiche nella storia dello scetticismo: in un'interessante cronistoria, Daniel Loxton ha rintracciato articoli che ne parlano fin dal 1838[6]. La pietra dello scandalo non è, come forse ci si potrebbe aspettare, quello che diciamo (il contenuto) o come arriviamo a dirlo (il metodo), ma come lo diciamo (la forma): quale tono bisogna usare nei dibattiti pubblici con chi promuove il paranormale e le pseudoscienze? È meglio ridicolizzarli oppure trattarli con rispetto?
La tesi di Plait è: promuovere lo scetticismo è già abbastanza difficile di suo, dal momento che la nostra filosofia non offre le consolazioni della religione e le illusioni della pseudoscienza; non rendiamolo ancora più difficile "facendo i cretini", cioè prendendo in giro e offendendo chi crede nell'irrazionale. Siamo indignati per i danni causati dalla ciarlataneria e frustrati dalla difficoltà del nostro compito, perciò lasciarsi andare al sarcasmo o agli insulti è una reazione comprensibile, ma controproducente. Non perdiamo di vista il nostro obiettivo di fondo (per dirla con Plait, rendere il mondo «più razionale e più ragionevole») e decidiamo la nostra strategia di comunicazione secondo un'analisi costi-benefici.
In tempi di guerra, abbiamo bisogno di soldati. Ma questa non è una guerra. Potreste provare a dire che lo è, ma non è vero. Non stiamo cercando di uccidere un nemico. Stiamo cercando di persuadere altri esseri umani. E in tempi come questi non ci servono soldati, ci servono diplomatici.
Così, dopo tutto questo discorso , penso di poter riassumere il mio ragionamento in questo modo: prima di tutto chiedetevi sempre qual è il vostro scopo. (...) È necessario usare questo argomento? Qual è il vostro obiettivo? Che cosa state cercando di ottenere? Prima di parlare, prima di lasciare un commento, prima di affrontare uno pseudoscienziato, prima di alzare la mano, prima di firmare quella mail, chiedetevi: «Questo sarà di aiuto? Mi aiuterà a raggiungere il mio obiettivo?» E dovete anche chiedervi: «Questo mi ostacolerà nel raggiungere il mio obiettivo? Lo faccio solo per sentirmi meglio, o sto cercando di cambiare il mondo?»
(...) Però seriamente, no. Non fate i cretini. I cretini al massimo strappano con dei mezzucci qualche misera vittoria. Non conquistano il cuore e la mente delle persone, mentre conquistare il cuore e la mente delle persone è proprio il nostro obiettivo.
All'inizio vi ho fatto due domande. La prima era se in passato avete creduto a qualcosa. E la seconda era se avete smesso di crederci perché qualcuno ha fatto il cretino con voi. Il mio obiettivo personale è far sì che tutti nel mondo alzino la mano quando gli si fa la prima domanda. E la seconda parte del mio obiettivo è non dover nemmeno fare la seconda domanda.
Così, dopo tutto questo discorso , penso di poter riassumere il mio ragionamento in questo modo: prima di tutto chiedetevi sempre qual è il vostro scopo. (...) È necessario usare questo argomento? Qual è il vostro obiettivo? Che cosa state cercando di ottenere? Prima di parlare, prima di lasciare un commento, prima di affrontare uno pseudoscienziato, prima di alzare la mano, prima di firmare quella mail, chiedetevi: «Questo sarà di aiuto? Mi aiuterà a raggiungere il mio obiettivo?» E dovete anche chiedervi: «Questo mi ostacolerà nel raggiungere il mio obiettivo? Lo faccio solo per sentirmi meglio, o sto cercando di cambiare il mondo?»
(...) Però seriamente, no. Non fate i cretini. I cretini al massimo strappano con dei mezzucci qualche misera vittoria. Non conquistano il cuore e la mente delle persone, mentre conquistare il cuore e la mente delle persone è proprio il nostro obiettivo.
All'inizio vi ho fatto due domande. La prima era se in passato avete creduto a qualcosa. E la seconda era se avete smesso di crederci perché qualcuno ha fatto il cretino con voi. Il mio obiettivo personale è far sì che tutti nel mondo alzino la mano quando gli si fa la prima domanda. E la seconda parte del mio obiettivo è non dover nemmeno fare la seconda domanda.
Il dibattito sulla relazione di Plait, che pure vale la pena di leggere su internet, si è arenato per una certa confusione tra tono, metodo e contenuto: si è tornati a discutere di scetticismo duro alla Paul Kurtz e di scetticismo "possibilista" alla Marcello Truzzi, di scetticismo agnostico e di scetticismo ateo, eccetera. Mi sembra invece necessario definire il problema nel modo più circoscritto possibile, per cercare una risposta fondata sui fatti e non sull'adesione emotiva a una o all'altra delle fazioni in gioco. Alla radice della tesi di Plait non ci sono né il rapporto tra scetticismo e religione né il grado di "durezza" dello scetticismo stesso: è possibile condividerla o rigettarla a prescindere dalla propria posizione su questi due temi. Il punto centrale che vorrei esaminare è semplicemente questo: qual è il tono più efficace per convincere le persone?
Diciamo fin dall'inizio che la risposta non potrà che essere un po' sfumata. Non siamo tutti uguali: qualcuno apprezza di più il sarcasmo, altri l'empatia, e perfino la stessa persona potrà reagire in modo diverso a seconda del tema, del momento e dello stato d'animo. Ma questo non cambia la sostanza dell'interrogativo: stiamo cercando di capire se un atteggiamento è mediamente più efficace dell'altro, non se lo è sempre e comunque.
Per rispondere mi sembra opportuno fermarsi a riflettere su tre interrogativi: quale pubblico vogliamo raggiungere, quale obiettivo di fondo abbiamo e come misuriamo il nostro successo.
Credo siamo tutti abbastanza d'accordo sul fatto che il pubblico a cui ci rivolgiamo non sono le persone già convinte (scettici o creduloni che siano) ma quelli che gli americani chiamano fencesitters: gli incerti, coloro che stanno sul bordo del campo a vedere come va la partita. D'altra parte, ridicolizzare i creduloni è efficace soprattutto con chi è già scettico; con chi è indeciso, può funzionare ma può anche essere inutile o controproducente. È quello che vediamo anche in politica: gli esponenti della nostra parte che ci piacciono di più perché "le cantano chiare" agli avversari sono spesso quelli meno convincenti per chi non condivide le nostre preferenze. Questo non ci permette ancora di arrivare a una conclusione, ma se non altro ci aiuta a formulare correttamente la terza domanda: dobbiamo capire qual è il tono più efficace non per noi stessi, ma per queste persone, che hanno un punto di vista sensibilmente diverso dal nostro.
Il secondo problema, definire l'obiettivo della nostra azione, è meno scontato: gli scettici si occupano sia di smontare le false credenze (il cosiddetto debunking), sia di educare il pubblico al metodo scientifico e alla razionalità. Entrambe le attività sono necessarie e benemerite, ma se dobbiamo scegliere mi sembra che la seconda abbia la precedenza: per parafrasare un famoso proverbio, non vogliamo soltanto diffondere idee scientificamente corrette, ma vogliamo aiutare le persone a pensare con la propria testa. Ne segue che per fare bene il nostro lavoro di scettici non possiamo limitarci alla pars destruens, ma dobbiamo soprattutto essere propositivi. La seconda parte è la più difficile, come sanno quelli di noi che si sono trovati di fronte alla classica domanda a occhi sgranati «Ma allora voi non credete a niente?»
Ancora più complicato è il terzo interrogativo. Come stabilire se siamo efficaci o no? Sicuramente alzare i toni attira l'attenzione, come ben sanno gli scettici americani Penn & Teller, che hanno intitolato la loro trasmissione Stronzate! (in originale, Bullshit!) anziché, per esempio, Affermazioni controverse momentaneamente prive di verifica sperimentale. Attirare l'attenzione è indispensabile, ma per valutare il nostro successo non può bastare l'indice di ascolto e neppure quello di gradimento: ci servirebbe un indice di comprensione e di condivisione del nostro modo di ragionare. Come possibile risposta empirica Loxton segnala uno studio sperimentale[7] in cui il comportamento dei partecipanti a una discussione veniva valutato da osservatori esterni; coloro che iniziavano un'aggressione verbale venivano giudicati meno credibili e dotati di argomenti meno validi. Questo studio mi sembra utile, anche perché suggerisce che nell'autovalutazione si tende a sottostimare la propria aggressività, ma non conclusivo. L'esperienza mostra che generalizzare i risultati di singoli esperimenti di questo tipo è piuttosto pericoloso, tanto più che il raggiungimento di un obiettivo complesso come lo sviluppo dello spirito critico è difficile da misurare. È vero che anche gli specialisti di comunicazione della scienza consigliano al mondo accademico di usare uno stile comunicativo più umile[8], ma l'argomento si presta a interpretazioni diverse e non credo che nella comunità scettica ci sia un consenso schiacciante su questa impostazione.
Forse si può affrontare il problema da un altro punto di vista, tenendo presente che l'onestà intellettuale è ancora più importante dell'efficacia. Per me il nocciolo della questione è il ruolo che vogliamo ricoprire: quello di parte in causa oppure quello di arbitro imparziale. Non si tratta di rinunciare al senso dell'umorismo o di inseguire il politically correct. La battuta cattiva detta al momento giusto ci può stare, purché non perdiamo di vista il nostro obiettivo di fondo. La nostra ambizione non è essere una voce tra le tante nel dibattito pubblico, è molto di più: accreditarci come una fonte obiettiva, fornire strumenti di ragionamento universali (il metodo scientifico, lo spirito critico) che possano essere condivisi a prescindere dalle ideologie. Se vogliamo davvero fare questo, il prezzo da pagare è la rinuncia a quei comportamenti che imparziali non sono. Non vedo altre strade.
Intendiamoci: di fronte a inganni, abusi e manipolazioni di persone senza scrupoli viene voglia anche a me di rispondere per le rime. Ma questa, nelle parole di Plait, è la reazione emotiva dettata dalla frustrazione, non la strategia migliore nei confronti di un pubblico ancora da conquistare. Immaginate di non avere ancora preso posizione nei confronti dell'irrazionale e di essere alla ricerca di elementi per farlo: vi sembrerebbe obiettivo un giudice che sbeffeggia e offende regolarmente una delle parti in causa?
Molto bene: ma un conto è predicare l'autocontrollo agli altri, un altro è praticarlo quando siamo noi sotto attacco. È assolutamente vero, e sono il primo a riconoscere la mia difficoltà nel mettere in atto questo ideale (per consolarmi, posso pensare che lo stesso Plait non è sempre stato all'altezza dei suoi obiettivi). Ma chiarire almeno quale ideale seguire mi sembra un buon punto di partenza. Per citare ancora una volta Phil Plait, «Non posso promettere che non sarò più un cretino. Ma farò di tutto per riuscirci. È il massimo che posso fare, ed è il massimo che posso chiedere agli altri».
Note
1) II convegno annuale promosso dalla James Randi Educational Foundation.
2) Il video è disponibile sul blog di Phil Plait: http://blogs.discovermagazine.com/badastronomy/2010/08/17/dont-be-a-dick-part-1-the-video/
3) Dawkins, R. 2010. "Are we phalluses?". Why evolution is true, 22.8.10, http://whyevolutionistrue.wordpress.com/2010/08/22/are-we-phalluses/
4) Myers, P.Z. 2010. "The Dick Delusion". Science Blogs, 20.7.10, http://scienceblogs.com/pharyngula/2010/07/20/the-dick-delusion/
5) Loxton, D. 2011. "What is the most effective? The debate between confrontational activism v. educational outreach". Skeptic, (16) 4
6) Loxton, D. 2011. "Skepticism's oldest debate: a prehistory of ‘DBAD' (1838–2010)". Skepticblog, 21.6.11, http://www.skepticblog.org/2011/06/21/a-prehistory-of-dbad/
7) Infante, D.A. et al. 1992 "Initiating and reciprocating verbal aggression: effects on credibility and credited valid arguments". Communication Studies (43) 3: 182-190. doi: 10.1080/10510979209368370, http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/10510979209368370
8) Si veda per esempio Bucchi, M. 2010. Scientisti e antiscientisti. Perché scienza e società non si capiscono. Bologna: Il Mulino.