Verso la metà degli anni ’50 si diffuse in Italia la mania del “fungo cinese”.
Si trattava di un organismo che, allo stato secco, appariva come un foglio di carta: veniva immerso nel tè zuccherato e conservato a temperatura ambiente. Ogni giorno il liquido veniva versato senza toccare il fungo, filtrato attraverso una tela e bevuto in dosi variabili: una cura blanda consisteva in una sola tazzina presa il mattino prima di colazione, una cura più energica arrivava a tre tazzine al giorno. Ogni quattro settimane il fungo e il recipiente che lo conteneva andavano lavati con acqua corrente e il tè interamente cambiato.
I “credenti” ritenevano questo liquido un toccasana per (quasi) tutte le malattie: ricostituente, depurativo, rigenerante, dimagrante. Nessuna dieta particolare era consigliata durante il periodo della cura; veniva però suggerito (ahia!) di sospendere qualsiasi altra terapia. Inoltre chi lo usava non doveva assolutamente dire al proprio medico curante che le ricette che aveva prescritto erano state sostituite dal “fungo cinese”.
Speciali regole venivano imposte nell’uso e nell’ingerimento della bevanda: le istruzioni venivano trasmesse col passaparola, così come il fungo stesso, che col tempo cresceva sempre più e veniva quindi diviso in quattro parti: una da tenere e le altre tre da regalare a persone amiche. Si creava così una specie di “setta”: in alcune abitazioni le “credenti” si riunivano al calar del sole per osservare la crescita del fungo e raccoglierne il succo.
Il segreto più assoluto era mantenuto su questi convegni, ai quali non potevano presenziare le donne durante il loro periodo mensile, poiché avrebbero sicuramente distrutto la carica benefica del misterioso vegetale.
Nel novembre 1954 comparve su “Oggi” un articolo del professor Carlo Cappelletti, direttore dell’Istituto Botanico dell’Università di Padova, il quale fece un po’ di chiarezza sull’argomento. Il cosiddetto fungo era in realtà una coltura di Acetobacterium xylinum, uno schizomicete (batterio) assai diffuso e ben noto per le sue proprietà di elaborare cellulosa nella propria membrana, in simbiosi con dei saccaromiceti. Contrariamente a quello che si riteneva non era il tè a “nutrire” il fungo, bensì il fungo stesso acidificava il tè e lo faceva fermentare, rendendolo benefico per la flora intestinale alla maniera dello yogurt e del kefir.
In buona sostanza, il fungo cinese non faceva male ma certo non era quella panacea tanto propagandata.
La mania del fungo cinese, come facilmente accade, dopo qualche anno si esaurì per poi tornare periodicamente sotto altre forme: purtroppo, di persone disposte ad ingurgitare qualsiasi intruglio ammantato di esotismo e di mistero non ne mancano mai.
Si trattava di un organismo che, allo stato secco, appariva come un foglio di carta: veniva immerso nel tè zuccherato e conservato a temperatura ambiente. Ogni giorno il liquido veniva versato senza toccare il fungo, filtrato attraverso una tela e bevuto in dosi variabili: una cura blanda consisteva in una sola tazzina presa il mattino prima di colazione, una cura più energica arrivava a tre tazzine al giorno. Ogni quattro settimane il fungo e il recipiente che lo conteneva andavano lavati con acqua corrente e il tè interamente cambiato.
I “credenti” ritenevano questo liquido un toccasana per (quasi) tutte le malattie: ricostituente, depurativo, rigenerante, dimagrante. Nessuna dieta particolare era consigliata durante il periodo della cura; veniva però suggerito (ahia!) di sospendere qualsiasi altra terapia. Inoltre chi lo usava non doveva assolutamente dire al proprio medico curante che le ricette che aveva prescritto erano state sostituite dal “fungo cinese”.
Speciali regole venivano imposte nell’uso e nell’ingerimento della bevanda: le istruzioni venivano trasmesse col passaparola, così come il fungo stesso, che col tempo cresceva sempre più e veniva quindi diviso in quattro parti: una da tenere e le altre tre da regalare a persone amiche. Si creava così una specie di “setta”: in alcune abitazioni le “credenti” si riunivano al calar del sole per osservare la crescita del fungo e raccoglierne il succo.
Il segreto più assoluto era mantenuto su questi convegni, ai quali non potevano presenziare le donne durante il loro periodo mensile, poiché avrebbero sicuramente distrutto la carica benefica del misterioso vegetale.
Nel novembre 1954 comparve su “Oggi” un articolo del professor Carlo Cappelletti, direttore dell’Istituto Botanico dell’Università di Padova, il quale fece un po’ di chiarezza sull’argomento. Il cosiddetto fungo era in realtà una coltura di Acetobacterium xylinum, uno schizomicete (batterio) assai diffuso e ben noto per le sue proprietà di elaborare cellulosa nella propria membrana, in simbiosi con dei saccaromiceti. Contrariamente a quello che si riteneva non era il tè a “nutrire” il fungo, bensì il fungo stesso acidificava il tè e lo faceva fermentare, rendendolo benefico per la flora intestinale alla maniera dello yogurt e del kefir.
In buona sostanza, il fungo cinese non faceva male ma certo non era quella panacea tanto propagandata.
La mania del fungo cinese, come facilmente accade, dopo qualche anno si esaurì per poi tornare periodicamente sotto altre forme: purtroppo, di persone disposte ad ingurgitare qualsiasi intruglio ammantato di esotismo e di mistero non ne mancano mai.