L'allusione al filo snodato dalla figlia di Minosse per superare le innumerevoli giravolte del labirinto vuol richiamare l'attenzione del lettore sull'agire del medico prescrittore in quanto di momento in momento poco prevedibile, ma pur sempre volto a un fine. È su questo groviglio di mezze intenzioni e su questo incerto fine che si vuole qui argomentare, concludendo con una perorazione laica per una pratica medica il più possibile razionale.
Questo intervento si articola su tre punti: l'esposizione del quesito circa le motivazioni che sottendono alla propensione soprattutto dei neurologi e dei geriatri a prescrivere farmaci di dubbia efficacia, l'esempio paradigmatico dell'impiego sintomatico degli anti-acetil-colinesterasici ad azione centrale (AChE), una classe di medicinali impiegati nella terapia della malattia di Alzheimer, e il supposto animus del medico prescrittore.
Si sa che in ogni atto propagandistico si combinano due azioni: informare dell'esistenza di una nuova merce e, nel prosieguo, magnificarne le virtù. Facendo leva su questa combinazione, la propaganda commerciale mira a un risultato, quello di creare aspettative benefiche dal consumo della merce, che, se consolidate in un convincimento e diffuse nella comunità, si trasformano in inderogabili bisogni la cui richiesta di soddisfacimento si protrae nel tempo a tutto beneficio del produttore e, talvolta, del consumatore. Quando le caratteristiche della nuova merce sono poco o punto collimanti con quelle segnalate dalla propaganda, il bisogno – reale o indotto che sia – non trova soddisfacimento. Ad esempio, in un quadro grottesco, si considerino i cosmetici di cui viene propagandata l'efficacia nel mantenere "la pelle sempre giovane": una promessa impossibile da mantenere (come lo specchio si incarica di dimostrare ogni giorno), che fa leva su un potente bisogno indotto. O, per entrare nel tragico, si consideri il bisogno di un farmaco che il paziente ritiene provvidenziale per migliorare la prognosi di una malattia, segnatamente se ad andamento cronico-progressivo come è il caso della malattia di Alzheimer: il bisogno è genuino, la fiducia nell'efficacia è indotta.
Ma la trafila tra la produzione di un farmaco e il suo consumo è assai più ambigua di come la si è appena prospettata. Il farmaco, infatti, è una merce un po' speciale poiché mira ad assicurare niente meno che salute e sopravvivenza, bisogni che certo non conseguono ad alcun atto propagandistico. Ed ecco allora che efficacia reale e auspicata, come più in generale l'umano binomio di speranza e paura, si intrecciano indissolubilmente su entrambi i fronti, quello del consumatore e quello della propaganda. Vi è un altro elemento da prendere in considerazione nel caso di malattie come l'Alzheimer: di solito il paziente e i suoi congiunti, sommersi come sono nel disastro esistenziale di una malattia che inesorabilmente peggiora, sono raggiunti solo marginalmente dalla propaganda farmaceutica, di solito per i ricorrenti accenni che compaiono nei media. Anche per questo motivo, il Sistema Sanitario Nazionale, in ottemperanza alla norma costituzionale relativa al diritto alla salute, mette a disposizione dei pazienti "il santo cui appellarsi": è il medico, principalmente nel ruolo di prescrittore di medicinali, come dire: "colui che sa quel che fa". Lo stesso medico che è poi, per tornare con i piedi per terra e all'Alzheimer, l'unico target della propaganda farmaceutica dal momento che egli rappresenta il collo di bottiglia e la mano, per fortuna tutt'altro che invisibile, che regola il mercato tra produttore e consumatore. Quindi, i farmaci sono davvero una merce speciale e, di conseguenza, la responsabilità del medico che li prescrive, o non li prescrive, è molto grande.
Il problema che questo articolo vuole porre verte sulla facilità con cui la propaganda farmaceutica crea e stabilizza il convincimento nel medico, portandolo alla prescrizione e alla sua reiterazione, piloni questi su cui poggia una grande parte della sua attività professionale. Sarebbe ingenuo ritenere che il medico semplicemente si trovi tra l'incudine della malattia dell'utente e il martello delle sofisticate tecniche della propaganda, difficile situazione cui sfuggire banalizzando l'atto prescrittivo. Sono, invece, convinto che il medico ci metta molto del suo, probabilmente più di quanto egli stesso sospetti. È questa la tesi che qui si avanza e che sposta il baricentro dell'agire medico: si vuole sostenere che il prescrittore cronico non gestisca il rapporto tra il farmaco e il proprio convincimento circa l'efficacia terapeutica in base a una trasparente decisione critica e a un periodico aggiornamento, ma assai più fondando su pregiudizi che precedono la decisione di prescrivere e che su di essa poi cronicamente ricadono. Nell'ultima parte del testo si cercherà di chiarire l'oscurità di questa affermazione.
Per far luce su questa tesi, si farà qui ricorso al paradigma degli AChE nella malattia di Alzheimer, lasciando deliberatamente impregiudicata la generalizzabilità delle conclusioni ad altri farmaci.
In questo paragrafo, volutamente schematico, si vuol dare quel minimo di informazione che consenta a un osservatore profano di cogliere il deficit di razionalità insito, a mio giudizio, nell'atto di prescrivere gli AChE a pazienti affetti da malattia di Alzheimer. Nel 1977, Perry e collaboratori, con conferme successive a opera di altri, riscontrarono in un numero limitato di cervelli di pazienti con malattia di Alzheimer in uno stadio avanzato, una riduzione corticale di acetil-colino-transferasi, un buon indice del tasso isto-chimico di acetil-colina, un neurotrasmettitore indispensabile perché possa realizzarsi quel colloquio tra neuroni che è alla base della normale cognitività umana. Come si sa, la malattia di Alzheimer compromette progressivamente proprio l'insieme di funzioni (memoria, linguaggio, percezione, attenzione, eccetera) che maggiormente conferiscono "competenza" ad un essere umano nel suo viver sociale. Scaturirono immediatamente grandi speranze per i pazienti e per l'industria. Whithouse e collaboratori nel 1982 in un memorabile lavoro su Brain, un'importantissima rivista neurologica – e poi moltissimi altri – decretarono che l'Alzheimer era una malattia, che almeno in una prima, lunga fase della sua evoluzione rivestiva aspetti prevalentemente mono-neuro-trasmettitoriali, nella fattispecie caratterizzati da una minore disponibilità di acetil-colina nella corteccia cerebrale. Questo assunto si trasformò per la grande maggioranza dei neurologi in dogma – un vizio metodologico molto frequente in medicina – rinfocolando la loro indistinta voluptas prescrivendi: per ogni guaio un rimedio o, detto in altri termini, mai rifiutare di prescrivere. Sulla base della constatazione di una ridotta disponibilità corticale di acetil-colina, il modello terapeutico da invocare era a portata di mano: quello ben funzionante della fisostigmina nel trattamento sintomatico della miastenia gravis, una malattia caratterizzata da esauribilità muscolare in conseguenza di una ridotta trasmissione dello stimolo nervoso dall'estremo terminale del nervo periferico al muscolo. La fisostgmina prolunga la presenza, e di conseguenza l'efficacia stimolante, dell'acetil-colina liberatasi nello spazio sinaptico tra nervo e muscolo. Sulla base di questo ben validato modello, la previsione di un sensibile miglioramento del quadro clinico dell'incompetenza cognitiva grazie agli AChE a effetto centrale, almeno fin tanto che esistessero delle sinapsi nella corteccia del paziente, appariva ragionevolmente fondata. C'era sotto agli occhi di tutti anche un altro modello terapeutico estensibile alla malattia di Alzheimer, quello della terapia sintomatica della malattia di Parkinson. Il modello era allettante anche perché si riferiva ad una patologia degenerativa del sistema nervoso centrale, relativamente affine a quella alzheimeriana. Nelle prime fasi della malattia di Parkinson, la carenza di uno specifico neuro-trasmettitore (la dopamina) veniva efficacemente compensata dall'apporto esterno della molecola.
Tutti i molteplici "trial clinici" eseguiti – farmaco contro placebo – puntualmente confermarono questa previsione. Tutti – dico tutti – i trial erano sostenuti dal denaro privato delle multinazionali produttrici dei farmaci in causa, che, quindi, erano presenti due volte al tavolo del gioco: come produttori dei farmaci e come controllori della bontà della merce prodotta e venduta, giocatori e croupier. Tutti i dati, raccolti in condizioni di "cecità" sperimentale (lo sperimentatore non sapeva se il paziente era in trattamento col farmaco o col placebo), venivano convogliati nelle mani dello sponsor, che li analizzava ed eventualmente li avviava alla pubblicazione. Il controllo a opera di un ente pubblico (soprattutto quello esercitato dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense, cui tutti devotamente si uniformavano) si limitava a verificare la correttezza degli esperimenti (trial clinici in doppio cieco e multi-centrici). Il controllo concerneva essenzialmente la buona metodologia di collezione dei dati, non la loro analisi, né la loro diffusione o non-diffusione sulla pubblicistica medica. Così fiorirono (e la fioritura non è cessata nemmeno ora) numerosissimi trial con protocolli di ricerca formalmente ineccepibili. Resta sorprendente che nell'arco di più di quindici anni sperimentazioni parallele, sponsorizzate dal denaro pubblico, fossero praticamente assenti. Stupisce che nemmeno la FDA, forte della sua autorevolezza, abbia messo una buona parola affinché venissero allestiti dei trial immuni da possibile conflitto di interessi, cioè finanziati dal denaro pubblico.
Malgrado queste distorsioni del processo di controllo d'efficacia del farmaco, i medici prescrittori non hanno sollevato pubblicamente perplessità o critiche: ciò svela una predisposizione aspecifica a trangugiare ogni piatto che il convento passi. Non erano poi questi neurologi, geriatri, internisti più o meno gli stessi che avevano pochi anni prima determinato il più che decennale trionfo prescrittorio di un farmaco (il Cronassial, Fidia) facilmente sospettabile ab ovo di essere poco efficace (poi dimostratosi privo di efficacia, ma con qualche sporadico effetto collaterale assai serio), una sorta di placebo camuffato da farmaco e usato a larghe mani per uno spettro inverosimilmente ampio di mali? E la mente di un medico anziano corre a più antiche bufale prescrittorie, giustificate da poco più che opinioni di celebrità mediche dell'epoca. Infatti, sulla base di molto immaginifiche asserzioni diagnostiche, venivano prescritti prodotti estrattivi di varie regioni del cervello di ruminanti ed anche in questo caso c'erano prescrittori che "si trovavano bene" con queste medicine.
Ma torniamo agli AChE. In questo caso si potrebbe avanzare la congettura che sin dall'inizio della vicenda le ditte produttrici si fossero rese conto della dubbia – o per lo meno esigua – efficacia clinica delle loro molecole, ma per rientrare con le spese (e forse anche per guadagnarci su un po', cosa certo non illecita per uno che venda delle merci la cui realizzazione, tra l'altro, si dice essere stata molto costosa) avessero lanciato un'astuta campagna propagandistica. Coinvolgere i neurologi più in vista, i cosiddetti "opinion leaders", di cui pullula ogni più minuta istituzione ospedaliera o universitaria in trial clinici remunerati attraverso i meccanismi legalmente previsti, con tanto di blasonati Comitati Etici, con protocolli ineccepibili, in pieno accordo, cioè, coi criteri rigorosi della FDA. Un celebre specialista di pensieri reconditi asseriva che a pensar male certo si fa peccato, ma a volte ci si piglia: nella fattispecie, chissà… trial come espedienti propagandistici?
In tutti i trial di cui sono stati pubblicati i risultati, questi andavano per tutte le molecole della classe degli AChE nella stessa direzione, cioè a favore del farmaco, certamente un dato farmacologicamente forte. Per tutte le molecole testate, le differenze tra placebo e farmaco erano sempre molto piccole e il beneficio sul comportamento del paziente e sui rapporti con i suoi congiunti restava sostanzialmente inafferrabile. È sorprendente (ma pochi si sorpresero) che con poche eccezioni (ad esempio, gli entusiastici risultati di Summers con la Tacrina, un AChE dismesso dopo poco tempo, pubblicati in tempi ormai lontani su New England Journal of Medicine, ripresi anche in tre articoli su JAMA), i risultati dei trial venissero pubblicati su riviste minori, a prevalente impronta farmacologica, generalmente fuori dall'ambito di aggiornamento correntemente battuto dai clinici prescrittori. Si incaricava poi la propaganda della trasmissione di questi dati al medico prescrittore. L'assenza (o quasi) per molti anni di lavori al riguardo sulle maggiori riviste di neurologia aveva del sorprendente visto che l'argomento riguardava niente meno che l'unica cura farmacologica di un flagello universale come l'Alzheimer. Merita ribadire che dati incerti o notizia di trial avviati e poi, per qualche motivo abortiti in itinere, non giungevano mai – almeno a mia conoscenza – alla pubblicazione. Ciò fa sì che questo genere di risultanze sperimentali non era stato messo a disposizione dei medici prescrittori, né dei funzionari ministeriali erogatori di fondi pubblici. Infatti, sulla sola base dei risultati dei trial sponsorizzati dalle ditte produttrici, i ministeri della salute del mondo occidentale stabilirono varie forme di rimborso ai pazienti in cura.
Nel 2002 DeKosky e collaboratori svolsero una verifica dei dati di Perry del 1977 sui tassi di acetil-colina corticale nei cervelli di pazienti con Alzheimer e forme meno devastanti a esso correlate. I risultati furono pubblicati su Annals of Neurology, una delle maggiori riviste neurologiche. I nuovi dati differivano radicalmente da quelli di 25 anni prima nel senso che non si rilevarono sostanziali differenze rispetto ai cervelli normali. Con ogni probabilità la discrepanza va fatta risalire a differenze metodologiche di laboratorio, quelle di DeKosky essendo universalmente ritenute molto più affidabili. Con ciò venne, però, posto in serio dubbio il dogma su cui per due decenni si era retta la terapia sintomatica dell'Alzheimer con gli AChE. Nulla di scandaloso: contraddire un'ipotesi scientifica, anche se apparentemente consolidata, è evento all'ordine del giorno nell'ambito della ricerca seria ed innovatrice. La scoperta di DeKosky ebbe poca risonanza tra i neurologi, la cui maggioranza continua tuttora a prescrivere gli AChE sulla base teorica avanzata da Perry e Whithouse qualche decennio prima. Anche le multi-nazionali produttrici non fecero una piega, anzi proseguirono con la politica del rilancio di nuovi e sempre più raffinati trial, in armonia con i severi dettami della FDA.
Arriviamo al fatidico 2004. Uno studio britannico – pubblicato su Lancet, forse la maggiore e più antica rivista di medicina nel mondo – sull'efficacia di uno degli AChE, svolto con la stessa ineccepibile metodologia dei trial privati (cioè, stile FDA), ma realizzato interamente con denaro pubblico sconfessa la credenza dell'efficacia che i molteplici studi sponsorizzati e pubblicati un po' alla spicciolata, avevano unanimamente decretato. L'impiego del farmaco testato non vale la spesa: tale fu la lapidaria (tombale) conclusione. Questo risultato confermava dati metodologicamente meno sicuri scaturiti dal primo trial non sponsorizzato svolto un anno prima (Lanctot e coll., 2003). A questo punto (solo a questo punto) – siamo nel 2005 – il British Medical Journal, altro colosso della pubblicistica medica, messo sull'allerta da quanto spuntava fuori dal seminato sponsorizzato che aveva dominato la scena ed il mercato degli ultimi 20 anni, pubblicava un'analisi critica dei trial privati, quelli che avevano convinto prescrittori e Ministeri ad usare e rimborsare gli AChE. Lo studio giungeva a dichiarare che le basi razionali dell'efficacia degli AChE andavano ritenute incerte.
Nel 2005, sulla base dei dati riportati, il National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE), ente britannico responsabile della redazione delle linee guida nazionali, consiglia al ministero della salute la sospensione della rimborsabilità per gli AChE, provvedimento duramente osteggiato dalle case produttrici degli AChE e poi ammorbidito da qualche deroga. Vista la dimensione degli interessi coinvolti, merita far menzione della causa intentata al NICE dalle case farmaceutiche Eisai e Shire Pharmaceuticals insieme alla Alzheimer's Society, un'associazione di malati. La vicenda legale arriva a compimento nell'agosto 2007: il verdetto del giudice Dobbs riconosce sostanzialmente la giustezza delle decisioni del NICE. Parafrasando il pronunciamento dell'Alta Corte, Richard Horton dalle pagine di Lancet esprime la personale soddisfazione per quella che definisce «una vittoria per il modo in cui la scienza viene posta al servizio del pubblico». Ma l'entusiasmo di Horton si era forse palesato troppo presto, vista la recentissima sentenza d'appello (British Medical Journal, 2008) che "riforma" quella del giudice Dobbs, così aprendo la strada alla prosecuzione del contenzioso legale. A proposito di questa vicenda, va ribadito che il "gold standard" sull'efficacia dei farmaci, più che trovarlo definito una volta per tutte nella aule di un Tribunale, andrebbe cercato da ricercatori e prescrittori mediante controlli sperimentali non gravati da possibili conflitti di interesse.
Questa mini-storia dell'uso clinico degli AChE nell'Alzheimer sta solo a ribadire una virtuosa banalità: che le evidenze terapeutiche vanno viste e riviste, e che chi ha la mano sul rubinetto della prescrizione dovrebbe tenere conto, esigendolo qualora mancasse, del doveroso lavoro di controllo pubblico. Ma a noi, qui, non interessa proferire una virtuosa omelia, anche se è difficile non deplorare che i più eminenti neurologi italiani che si sono occupati di Alzheimer non abbiano preso carta e penna per rendere pubblici i loro crescenti sospetti d'inefficacia, sospetti che hanno indotto i colleghi britannici a svolgere un ineccepibile trial clinico non sponsorizzato. Interessa piuttosto capire quali remore frenino così vistosamente il corso della critica dei medici prescrittori.
Un lettore potrebbe chiedere di levargli una curiosità apparentemente fuori dal contesto qui discusso: come mai l'autore ha deciso di scrivere questo articolo, piuttosto polemico e certamente partigiano, la cui utilità si rivelerà alquanto modesta? Lo si capirà dalle congetture che seguono. Comunque, c'è sotto un bisogno di cavarsi qualche sassolino dalle scarpe e anche di cercare di compensare errori e omissioni commessi in passato. Viene da porsi una domanda, certamente non univoca nelle risposte: perché mai la maggioranza dei neurologi e geriatri (le due categorie di medici più coinvolte in questa faccenda) tutt'oggi continua a prescrivere farmaci di così incerta efficacia, e il nostro ministero della salute continua a rimborsare la spesa collegata al loro consumo? E ciò addirittura a dispetto dell'esito negativo dello studio osservazionale sugli AChE (European Journal of Clinical Pharmacology, 2005) avviato e gestito dall'Istituto Superiore di Sanità, studio purtroppo assai tardivo e certo non esente da critiche metodologiche. Questo studio, malgrado la rivista non-clinica su cui ha trovato ospitalità (anziché, ad esempio, sull'organo della Società Italiana di Neurologia, che è una rivista clinica molto letta in quanto inviata a tutti i neurologi italiani), ha avuto il merito di avere coinvolto moltissimi medici prescrittori collegati ai numerosi Centri Alzheimer del Progetto Cronos, con ciò avendo forse contribuito a diffondere un atteggiamento più cauto circa l'impiego degli AChE.
Va, però, anche detto che non tutti i neurologi italiani si sono dimostrati ipocritici. Qualcuno, meno impermeabile ai dati della letteratura e soprattutto della propria sagacia osservazionale, si sforzava di rendere consapevoli i propri pazienti della dubbia efficacia terapeutica dei prodotti prescritti. Taluno (ad esempio, l'autore di questo intervento) fin dall'inizio del 2004 inseriva in calce alle proprie relazioni diagnostiche su pazienti Alzheimer una nota cautelativa circa l'efficacia degli AChE (corredandola, ad uso del medico di base, dei più importanti riferimenti bibliografici) e, a far tempo dai mesi immediatamente successivi, si è astenuto da ogni prescrizione di AChE, rendendo di pubblica ragione questo convincimento terapeutico in convegni (ad esempio, Annali dell'Istituto Superiore di Sanità, 2005, sulla base di un seminario del 2003), nonché in lezioni universitarie.
Comunque, prima di avanzare delle congetture riguardo alla propensione prescrittoria, onde comprendere che il peso finanziario sul tappeto, seppure non enorme, non è però del tutto irrilevante, merita chiedersi entro quale cornice si situi il volume d'affari degli AChE. L'onere complessivo (da chiunque erogato, famiglia compresa) per un paziente con demenza viene valutata in non meno di 30.000 euro/anno con minime differenze tra i paesi occidentali; esso assume nel Regno Unito una dimensione pari allo 0,6 per cento del prodotto interno lordo. Si stima che in Italia vivano almeno 500.000 dementi (in grande maggioranza tali in conseguenza della malattia di Alzheimer). La quota farmaceutica sembra aggirarsi attorno al 10 per cento della somma pro capite prima enunciata, ed è a carico della sanità pubblica. La maggior parte di essa è rappresentata dagli AChE. Quest'ultima rappresenta il 4,7 per cento della spesa per farmaci destinati alle patologie del sistema nervoso, comprese quelle psichiatriche (complessivamente pari a 1.278 milioni/anno) ed allo 0,4 per cento della spesa farmaceutica totale (complessivamente pari a 13.440 milioni di euro/anno). Nel 2006 sono stati spesi poco più di 60 milioni di euro per gli AChE. Da uno studio molto recente (Archives of Neurology, 2007) risulta che l'impiego degli AChE in Italia sembra coinvolgere soltanto un quinto dei dementi di Alzheimer con una caduta progressiva (dal 55 per cento all'1,6 per cento dei pazienti) man mano che essi appartengono alle fasce d'età più avanzate.
Circa l'ostinazione a prescrivere farmaci di dubbia efficacia come è possibile che siano gli AChE, uno può cercare delle spiegazioni lungo due linee di speculazione. (i) Ritenere che il prescrittore in verità abbia dei fondati dubbi sull'efficacia di ciò che prescrive, ma ciononostante decida in piena consapevolezza di non dar seguito ad essi. Ci si riferisce ai dubbi (certamente non ancora convinzioni) che potrebbero essergli derivati dalla letteratura a far tempo dal 2002 (v. sopra) e dalla diretta osservazione dei "propri" pazienti trattati con gli AChE. Decida, cioè, di non deflettere dalla pratica prescrittoria fino ad allora seguita. A ciò sottende generalmente un rapporto con l'industria nella forma del coinvolgimento – assolutamente lecito e alla luce del sole – in trial sponsorizzati. Si tratta, infatti, più spesso di un neurologo istituzionale (un "opinion leader" situato in una qualche clinica universitaria o reparto ospedaliero). (ii) Ritenere che il prescrittore, per così dire, avvolga – senza pensarci su più di tanto – nella coperta di una generale sfiducia nei farmaci per le malattie degenerative la propria indifferenza circa la loro efficacia quanto la loro inefficacia. Proprio la malattia di Parkinson – come si è detto, uno dei modelli terapeutici a suo tempo invocati per l'Alzheimer – ha finito ad offrire una sponda a questo modo di pensare: infatti, l'efficacia della terapia dopaminergica risulta esaurirsi nel giro di pochi anni. Il rappresentante di questa tipologia di prescrittori potrebbe dirsi: "chissà mai che qualche cosa questi AChE forse facciano; gran guai non ne procurano: allora diamoli". In fondo, si dà la consolante impressione alla famiglia del paziente che questi venga curato. Poi, è l'abitudine che fa il resto. Oppure, in altri casi (quali? i pazienti molto vecchi, come suggeriscono i dati riportati sopra?), il medesimo prescrittore – con la stessa logica – potrebbe decidere di non prescrivere questi farmaci. In entrambi i casi, trattasi più di sovente di un medico di base o di un operatore dei vari centri Alzheimer del Progetto ministeriale Cronos.
L'operare pragmatico non è certo un comportamento estraneo alla condotta corrente dei medici, segnatamente di quelli che la propaganda ama insignire col fregio di "opinion leader". Sono quei prescrittori che accettano di svolgere i trial clinici (come è stato in passato anche per l'autore di questo scritto), allettati dall'ineccepibile aspetto metodologico della raccolta dei dati e da quello della corresponsione finanziaria all'istituto in cui lavorano sulla base del più rigoroso rispetto delle norme legislative. Un'adesione che permette di disporre poi del danaro che consente di finanziare – sempre alla luce del sole – altre e indipendenti ricerche originali, talora a forte pregnanza scientifica, o, più narcisisticamente, di circondarsi di folte schiere di ricercatori precari, il cui destino è totalmente dipendente dal buon fiuto del leader nel condurre le trattative connesse all'avvio di nuovi trial sponsorizzati. Tuttavia, a dispetto della faciloneria con cui si potrebbero sospettare pratiche illecite (la cui occorrenza reputo in realtà non essere mai accaduta), non credo che il perseguimento dei fini pragmatici cui si è accennato sopra, giochi il ruolo principale nella reiterazione prescrittiva degli AChE. E ciò malgrado che a prima vista così possa sembrare e che assai spesso il perseguimento di questo fine venga proposto in tutta buona fede dagli stessi prescrittori come la loro autentica motivazione, attribuendola alla penosa penuria di finanziamenti pubblici per la ricerca. Non va trascurato il fatto che il grosso della prescrizione degli AChE non è concentrato nelle mani dei relativamente pochi responsabili "civetta" dei trial clinici, ma piuttosto in quelle dei medici di base, dei neurologi e geriatri operanti nei numerosi centri Alzheimer sparpagliati sul territorio nazionale.
Invece, credo che alla base dell'insensibilità scientifica dei prescrittori – istituzionali e territoriali – stia un profondo sentimento di preliminare rifiuto a ogni intrusione razionale nei meccanismi decisionali del medico e, all'opposto, una viva propensione a valorizzare principalmente il ruolo personale nell'interazione col paziente e con la sua famiglia, gestito sull'onda ottocentesca della propria autorevolezza emotiva e professionale. La vetusta banalità della Medicina come arte, non come scienza. Sospetto che siano proprio questi i numerosi prescrittori che si astengono – nel caso delle malattie dementigene – dal comunicare e dallo spiegare ai congiunti del paziente la diagnosi (il deterioramento cognitivo cronico-progressivo alias demenza), e ciò che questa condizione comporterà nel vicino futuro per la famiglia colpita (Annali dell'Istituto Superiore di Sanità, 2005). Costoro, più o meno, potrebbero dirsi – naturalmente facendo le mosse di non farlo – che non sarà poi una molecola, inventata in laboratorio dall'intelligenza di qualche invidiato collega, a mutare in senso favorevole il destino di un paziente, o, molto più in generale, la qualità del percorso di un uomo tra la nascita e la morte. Così, si diranno, non saranno decisivi sulla tranquillità del paziente i dati laboriosamente ricavati grazie all'indagine sull'efficacia di un farmaco, tanto che non vale l'interminabile fatica appropriarsene, nè tanto meno convertirli in modificazione della propria abitudine prescrittoria. A questo punto il passo è breve perché si precipiti in quella selva di credenze che conferisce al farmaco un alone magico: dall'incredulità circa il tragitto "scientifico" della molecola dalla punta della lingua ai più selettivi e reconditi target nell'organismo alla credenza più radicale che, perché faccia bene, conta più del farmaco lo stato d'animo (la fiducia) con cui lo si assume. Miscredenza scientifica e neghittosità culturale vanno di pari passo e insieme spalancano le porte a vagonate di preconcetti, tutti acquisiti a bassissima spesa e riversati in tutta innocenza sulla salute dei pazienti. I comportamenti qui descritti in termini volutamente un poco estremi non sono, a mio avviso, frutto di stolidità. L'ipotesi esplicativa di chi scrive – certamente, poco più di una congettura – è che l'epidemiologia dell'indifferenza scientifica italiana riconosca un unico fattore causale di natura ideologica (o meramente culturale o storico-geografica), che – per dirla nei modi di uno slogan giornalistico omni-comprensivo – chiamerei "deficit di illuminismo". Ovvero l'essere pervicacemente propensi a non far uso soltanto della propria ragione nello sforzo di spiegare l'interagire dei fenomeni, a non voler cogliere i nessi di causalità tra i fenomeni costruendo (e demolendo) modelli conoscitivi, a non accreditare i risultati sperimentali al netto di un'incessante critica metodologica e, soprattutto, a negare la materialità dei fenomeni del mondo, di conseguenza non depurandoli preventivamente da ogni determinismo soprannaturale. In questa cornice, a mio avviso, vanno viste anche le correnti propensioni terapeutiche, esemplificate qui dall'uso facile degli AChE nell'Alzheimer.
Accedendo a una seconda congettura, mi viene da pensare che il "deficit di illuminismo" italiano abbia una causa predominante tanto seria quanto complessa, spesso inconsapevole e, in taluni casi, addirittura negata, nella quasi universale adesione alla cultura cattolica e alla conseguente intrusione incessante del soprannaturale nel determinismo del quotidiano umano, segnatamente in quello delle malattie. È ovvio che l'intrusione del soprannaturale non è un tratto specificamente cattolico, essendo un portato comune a tutte le religioni, per cui prescrittori, per così dire "anilluministici" in conseguenza dell'accettazione di un incombente fattore soprannaturale, sicuramente operano in contesti geografici e religiosi di ispirazione protestante, islamica o ebraica. In Italia si ha semplicemente più sott'occhi l'efficacia dei sentimenti che formano l'oggetto della mia seconda congettura. Si consideri che lo stato italiano trova normale erogare meno contributi per la ricerca scientifica che per la chiesa. Giusto per restare nell'assistenziale, si consideri ancora, con animo provvisoriamente sgombro da pregiudizi scettici, la miracolistica correntemente sciorinata dai media circa santi intercessori con tanto di depliant circa le loro specializzazioni per patologia, relativi riti e giaculatorie, immagini taumaturgiche e aneddotica probatoria. Si consideri infine la ripresa e il lancio di antiche e nuove reliquie salvifiche sulla salute del devoto. Tra esperimenti e miracoli, si sa, non corre buon sangue: essi si escludono a vicenda come il diavolo e l'acquasanta. Va anche detto che la seconda, più comoda, "scuola di pensiero" – quella dell'acquasanta – è, tuttavia, lungi dal produrre anche la più esangue fiammata di fanatismo religioso: essa meramente contribuisce a generare quel "deficit di illuminismo" che avvia all'uso, spesso congiunto, dei "santini", delle più impensate trovate della "medicina alternativa", dei riti propiziatori, dei maghi, eccetera. Credo non vi sia medico il cui pensiero non possa correre senza sforzo a qualche stimato collega che, alla bisogna, non vedeva nulla di bizzarro nell'accedere per la sua personale salute al supermarket del portentoso. Un po' più di pessimismo della ragione e assai meno speranze infondate, uno poteva anche aspettarseli da chi va svolgendo da decenni un lavoro incentrato sulla propria perspicacia osservazionale! Ma così non è. È, invece, il solito binomio paura/speranza di cui scrive Luciano di Samosata a proposito di un imbroglione taumaturgo dell'epoca (che vantava relazioni privilegiate con gli dèi) a dominare la scena annullando l'influsso di ogni volontà razionale. In consonanza con questi sentimenti, conta soltanto rincuorare l'infermo infondendogli in primis una qualche speranza di guarigione a genesi e garanzia indefinibilmente incerte, una messa in scena in cui le sottigliezze farmacologiche perdono ogni parvenza di incisività. In conclusione, sospetto che i prescrittori "anilluministici" siano poco impressionati dalla razionalità che ha portato a creare un farmaco, razionalità che in tutto questo articolo si è voluto difendere. Essi sono altrettanto poco convinti che ogni farmaco vada continuamente controllato nella sua efficacia con i metodi che la cultura scientifica attuale permette e su questa base, se i risultati della verifica sono negativi o quantomeno incerti, a non più prescriverlo. Un quadro decisamente diverso da quello auspicato su Lancet da Richard Horton dopo la prima, ma ormai già annullata, sentenza di un tribunale inglese. È, dunque, ben possibile che nell'atto di prescrivere farmaci a incerta efficacia, il medico prescrittore ci metta molto del suo e che questa circostanza ricorra abbastanza frequentemente.
Hans Spinnler
Professore ordinario
di Neurologia
Questo intervento si articola su tre punti: l'esposizione del quesito circa le motivazioni che sottendono alla propensione soprattutto dei neurologi e dei geriatri a prescrivere farmaci di dubbia efficacia, l'esempio paradigmatico dell'impiego sintomatico degli anti-acetil-colinesterasici ad azione centrale (AChE), una classe di medicinali impiegati nella terapia della malattia di Alzheimer, e il supposto animus del medico prescrittore.
Il quesito
Si sa che in ogni atto propagandistico si combinano due azioni: informare dell'esistenza di una nuova merce e, nel prosieguo, magnificarne le virtù. Facendo leva su questa combinazione, la propaganda commerciale mira a un risultato, quello di creare aspettative benefiche dal consumo della merce, che, se consolidate in un convincimento e diffuse nella comunità, si trasformano in inderogabili bisogni la cui richiesta di soddisfacimento si protrae nel tempo a tutto beneficio del produttore e, talvolta, del consumatore. Quando le caratteristiche della nuova merce sono poco o punto collimanti con quelle segnalate dalla propaganda, il bisogno – reale o indotto che sia – non trova soddisfacimento. Ad esempio, in un quadro grottesco, si considerino i cosmetici di cui viene propagandata l'efficacia nel mantenere "la pelle sempre giovane": una promessa impossibile da mantenere (come lo specchio si incarica di dimostrare ogni giorno), che fa leva su un potente bisogno indotto. O, per entrare nel tragico, si consideri il bisogno di un farmaco che il paziente ritiene provvidenziale per migliorare la prognosi di una malattia, segnatamente se ad andamento cronico-progressivo come è il caso della malattia di Alzheimer: il bisogno è genuino, la fiducia nell'efficacia è indotta.
Ma la trafila tra la produzione di un farmaco e il suo consumo è assai più ambigua di come la si è appena prospettata. Il farmaco, infatti, è una merce un po' speciale poiché mira ad assicurare niente meno che salute e sopravvivenza, bisogni che certo non conseguono ad alcun atto propagandistico. Ed ecco allora che efficacia reale e auspicata, come più in generale l'umano binomio di speranza e paura, si intrecciano indissolubilmente su entrambi i fronti, quello del consumatore e quello della propaganda. Vi è un altro elemento da prendere in considerazione nel caso di malattie come l'Alzheimer: di solito il paziente e i suoi congiunti, sommersi come sono nel disastro esistenziale di una malattia che inesorabilmente peggiora, sono raggiunti solo marginalmente dalla propaganda farmaceutica, di solito per i ricorrenti accenni che compaiono nei media. Anche per questo motivo, il Sistema Sanitario Nazionale, in ottemperanza alla norma costituzionale relativa al diritto alla salute, mette a disposizione dei pazienti "il santo cui appellarsi": è il medico, principalmente nel ruolo di prescrittore di medicinali, come dire: "colui che sa quel che fa". Lo stesso medico che è poi, per tornare con i piedi per terra e all'Alzheimer, l'unico target della propaganda farmaceutica dal momento che egli rappresenta il collo di bottiglia e la mano, per fortuna tutt'altro che invisibile, che regola il mercato tra produttore e consumatore. Quindi, i farmaci sono davvero una merce speciale e, di conseguenza, la responsabilità del medico che li prescrive, o non li prescrive, è molto grande.
Il problema che questo articolo vuole porre verte sulla facilità con cui la propaganda farmaceutica crea e stabilizza il convincimento nel medico, portandolo alla prescrizione e alla sua reiterazione, piloni questi su cui poggia una grande parte della sua attività professionale. Sarebbe ingenuo ritenere che il medico semplicemente si trovi tra l'incudine della malattia dell'utente e il martello delle sofisticate tecniche della propaganda, difficile situazione cui sfuggire banalizzando l'atto prescrittivo. Sono, invece, convinto che il medico ci metta molto del suo, probabilmente più di quanto egli stesso sospetti. È questa la tesi che qui si avanza e che sposta il baricentro dell'agire medico: si vuole sostenere che il prescrittore cronico non gestisca il rapporto tra il farmaco e il proprio convincimento circa l'efficacia terapeutica in base a una trasparente decisione critica e a un periodico aggiornamento, ma assai più fondando su pregiudizi che precedono la decisione di prescrivere e che su di essa poi cronicamente ricadono. Nell'ultima parte del testo si cercherà di chiarire l'oscurità di questa affermazione.
Per far luce su questa tesi, si farà qui ricorso al paradigma degli AChE nella malattia di Alzheimer, lasciando deliberatamente impregiudicata la generalizzabilità delle conclusioni ad altri farmaci.
L'uso degli AChE
In questo paragrafo, volutamente schematico, si vuol dare quel minimo di informazione che consenta a un osservatore profano di cogliere il deficit di razionalità insito, a mio giudizio, nell'atto di prescrivere gli AChE a pazienti affetti da malattia di Alzheimer. Nel 1977, Perry e collaboratori, con conferme successive a opera di altri, riscontrarono in un numero limitato di cervelli di pazienti con malattia di Alzheimer in uno stadio avanzato, una riduzione corticale di acetil-colino-transferasi, un buon indice del tasso isto-chimico di acetil-colina, un neurotrasmettitore indispensabile perché possa realizzarsi quel colloquio tra neuroni che è alla base della normale cognitività umana. Come si sa, la malattia di Alzheimer compromette progressivamente proprio l'insieme di funzioni (memoria, linguaggio, percezione, attenzione, eccetera) che maggiormente conferiscono "competenza" ad un essere umano nel suo viver sociale. Scaturirono immediatamente grandi speranze per i pazienti e per l'industria. Whithouse e collaboratori nel 1982 in un memorabile lavoro su Brain, un'importantissima rivista neurologica – e poi moltissimi altri – decretarono che l'Alzheimer era una malattia, che almeno in una prima, lunga fase della sua evoluzione rivestiva aspetti prevalentemente mono-neuro-trasmettitoriali, nella fattispecie caratterizzati da una minore disponibilità di acetil-colina nella corteccia cerebrale. Questo assunto si trasformò per la grande maggioranza dei neurologi in dogma – un vizio metodologico molto frequente in medicina – rinfocolando la loro indistinta voluptas prescrivendi: per ogni guaio un rimedio o, detto in altri termini, mai rifiutare di prescrivere. Sulla base della constatazione di una ridotta disponibilità corticale di acetil-colina, il modello terapeutico da invocare era a portata di mano: quello ben funzionante della fisostigmina nel trattamento sintomatico della miastenia gravis, una malattia caratterizzata da esauribilità muscolare in conseguenza di una ridotta trasmissione dello stimolo nervoso dall'estremo terminale del nervo periferico al muscolo. La fisostgmina prolunga la presenza, e di conseguenza l'efficacia stimolante, dell'acetil-colina liberatasi nello spazio sinaptico tra nervo e muscolo. Sulla base di questo ben validato modello, la previsione di un sensibile miglioramento del quadro clinico dell'incompetenza cognitiva grazie agli AChE a effetto centrale, almeno fin tanto che esistessero delle sinapsi nella corteccia del paziente, appariva ragionevolmente fondata. C'era sotto agli occhi di tutti anche un altro modello terapeutico estensibile alla malattia di Alzheimer, quello della terapia sintomatica della malattia di Parkinson. Il modello era allettante anche perché si riferiva ad una patologia degenerativa del sistema nervoso centrale, relativamente affine a quella alzheimeriana. Nelle prime fasi della malattia di Parkinson, la carenza di uno specifico neuro-trasmettitore (la dopamina) veniva efficacemente compensata dall'apporto esterno della molecola.
Tutti i molteplici "trial clinici" eseguiti – farmaco contro placebo – puntualmente confermarono questa previsione. Tutti – dico tutti – i trial erano sostenuti dal denaro privato delle multinazionali produttrici dei farmaci in causa, che, quindi, erano presenti due volte al tavolo del gioco: come produttori dei farmaci e come controllori della bontà della merce prodotta e venduta, giocatori e croupier. Tutti i dati, raccolti in condizioni di "cecità" sperimentale (lo sperimentatore non sapeva se il paziente era in trattamento col farmaco o col placebo), venivano convogliati nelle mani dello sponsor, che li analizzava ed eventualmente li avviava alla pubblicazione. Il controllo a opera di un ente pubblico (soprattutto quello esercitato dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense, cui tutti devotamente si uniformavano) si limitava a verificare la correttezza degli esperimenti (trial clinici in doppio cieco e multi-centrici). Il controllo concerneva essenzialmente la buona metodologia di collezione dei dati, non la loro analisi, né la loro diffusione o non-diffusione sulla pubblicistica medica. Così fiorirono (e la fioritura non è cessata nemmeno ora) numerosissimi trial con protocolli di ricerca formalmente ineccepibili. Resta sorprendente che nell'arco di più di quindici anni sperimentazioni parallele, sponsorizzate dal denaro pubblico, fossero praticamente assenti. Stupisce che nemmeno la FDA, forte della sua autorevolezza, abbia messo una buona parola affinché venissero allestiti dei trial immuni da possibile conflitto di interessi, cioè finanziati dal denaro pubblico.
Malgrado queste distorsioni del processo di controllo d'efficacia del farmaco, i medici prescrittori non hanno sollevato pubblicamente perplessità o critiche: ciò svela una predisposizione aspecifica a trangugiare ogni piatto che il convento passi. Non erano poi questi neurologi, geriatri, internisti più o meno gli stessi che avevano pochi anni prima determinato il più che decennale trionfo prescrittorio di un farmaco (il Cronassial, Fidia) facilmente sospettabile ab ovo di essere poco efficace (poi dimostratosi privo di efficacia, ma con qualche sporadico effetto collaterale assai serio), una sorta di placebo camuffato da farmaco e usato a larghe mani per uno spettro inverosimilmente ampio di mali? E la mente di un medico anziano corre a più antiche bufale prescrittorie, giustificate da poco più che opinioni di celebrità mediche dell'epoca. Infatti, sulla base di molto immaginifiche asserzioni diagnostiche, venivano prescritti prodotti estrattivi di varie regioni del cervello di ruminanti ed anche in questo caso c'erano prescrittori che "si trovavano bene" con queste medicine.
Ma torniamo agli AChE. In questo caso si potrebbe avanzare la congettura che sin dall'inizio della vicenda le ditte produttrici si fossero rese conto della dubbia – o per lo meno esigua – efficacia clinica delle loro molecole, ma per rientrare con le spese (e forse anche per guadagnarci su un po', cosa certo non illecita per uno che venda delle merci la cui realizzazione, tra l'altro, si dice essere stata molto costosa) avessero lanciato un'astuta campagna propagandistica. Coinvolgere i neurologi più in vista, i cosiddetti "opinion leaders", di cui pullula ogni più minuta istituzione ospedaliera o universitaria in trial clinici remunerati attraverso i meccanismi legalmente previsti, con tanto di blasonati Comitati Etici, con protocolli ineccepibili, in pieno accordo, cioè, coi criteri rigorosi della FDA. Un celebre specialista di pensieri reconditi asseriva che a pensar male certo si fa peccato, ma a volte ci si piglia: nella fattispecie, chissà… trial come espedienti propagandistici?
In tutti i trial di cui sono stati pubblicati i risultati, questi andavano per tutte le molecole della classe degli AChE nella stessa direzione, cioè a favore del farmaco, certamente un dato farmacologicamente forte. Per tutte le molecole testate, le differenze tra placebo e farmaco erano sempre molto piccole e il beneficio sul comportamento del paziente e sui rapporti con i suoi congiunti restava sostanzialmente inafferrabile. È sorprendente (ma pochi si sorpresero) che con poche eccezioni (ad esempio, gli entusiastici risultati di Summers con la Tacrina, un AChE dismesso dopo poco tempo, pubblicati in tempi ormai lontani su New England Journal of Medicine, ripresi anche in tre articoli su JAMA), i risultati dei trial venissero pubblicati su riviste minori, a prevalente impronta farmacologica, generalmente fuori dall'ambito di aggiornamento correntemente battuto dai clinici prescrittori. Si incaricava poi la propaganda della trasmissione di questi dati al medico prescrittore. L'assenza (o quasi) per molti anni di lavori al riguardo sulle maggiori riviste di neurologia aveva del sorprendente visto che l'argomento riguardava niente meno che l'unica cura farmacologica di un flagello universale come l'Alzheimer. Merita ribadire che dati incerti o notizia di trial avviati e poi, per qualche motivo abortiti in itinere, non giungevano mai – almeno a mia conoscenza – alla pubblicazione. Ciò fa sì che questo genere di risultanze sperimentali non era stato messo a disposizione dei medici prescrittori, né dei funzionari ministeriali erogatori di fondi pubblici. Infatti, sulla sola base dei risultati dei trial sponsorizzati dalle ditte produttrici, i ministeri della salute del mondo occidentale stabilirono varie forme di rimborso ai pazienti in cura.
Nel 2002 DeKosky e collaboratori svolsero una verifica dei dati di Perry del 1977 sui tassi di acetil-colina corticale nei cervelli di pazienti con Alzheimer e forme meno devastanti a esso correlate. I risultati furono pubblicati su Annals of Neurology, una delle maggiori riviste neurologiche. I nuovi dati differivano radicalmente da quelli di 25 anni prima nel senso che non si rilevarono sostanziali differenze rispetto ai cervelli normali. Con ogni probabilità la discrepanza va fatta risalire a differenze metodologiche di laboratorio, quelle di DeKosky essendo universalmente ritenute molto più affidabili. Con ciò venne, però, posto in serio dubbio il dogma su cui per due decenni si era retta la terapia sintomatica dell'Alzheimer con gli AChE. Nulla di scandaloso: contraddire un'ipotesi scientifica, anche se apparentemente consolidata, è evento all'ordine del giorno nell'ambito della ricerca seria ed innovatrice. La scoperta di DeKosky ebbe poca risonanza tra i neurologi, la cui maggioranza continua tuttora a prescrivere gli AChE sulla base teorica avanzata da Perry e Whithouse qualche decennio prima. Anche le multi-nazionali produttrici non fecero una piega, anzi proseguirono con la politica del rilancio di nuovi e sempre più raffinati trial, in armonia con i severi dettami della FDA.
Arriviamo al fatidico 2004. Uno studio britannico – pubblicato su Lancet, forse la maggiore e più antica rivista di medicina nel mondo – sull'efficacia di uno degli AChE, svolto con la stessa ineccepibile metodologia dei trial privati (cioè, stile FDA), ma realizzato interamente con denaro pubblico sconfessa la credenza dell'efficacia che i molteplici studi sponsorizzati e pubblicati un po' alla spicciolata, avevano unanimamente decretato. L'impiego del farmaco testato non vale la spesa: tale fu la lapidaria (tombale) conclusione. Questo risultato confermava dati metodologicamente meno sicuri scaturiti dal primo trial non sponsorizzato svolto un anno prima (Lanctot e coll., 2003). A questo punto (solo a questo punto) – siamo nel 2005 – il British Medical Journal, altro colosso della pubblicistica medica, messo sull'allerta da quanto spuntava fuori dal seminato sponsorizzato che aveva dominato la scena ed il mercato degli ultimi 20 anni, pubblicava un'analisi critica dei trial privati, quelli che avevano convinto prescrittori e Ministeri ad usare e rimborsare gli AChE. Lo studio giungeva a dichiarare che le basi razionali dell'efficacia degli AChE andavano ritenute incerte.
Nel 2005, sulla base dei dati riportati, il National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE), ente britannico responsabile della redazione delle linee guida nazionali, consiglia al ministero della salute la sospensione della rimborsabilità per gli AChE, provvedimento duramente osteggiato dalle case produttrici degli AChE e poi ammorbidito da qualche deroga. Vista la dimensione degli interessi coinvolti, merita far menzione della causa intentata al NICE dalle case farmaceutiche Eisai e Shire Pharmaceuticals insieme alla Alzheimer's Society, un'associazione di malati. La vicenda legale arriva a compimento nell'agosto 2007: il verdetto del giudice Dobbs riconosce sostanzialmente la giustezza delle decisioni del NICE. Parafrasando il pronunciamento dell'Alta Corte, Richard Horton dalle pagine di Lancet esprime la personale soddisfazione per quella che definisce «una vittoria per il modo in cui la scienza viene posta al servizio del pubblico». Ma l'entusiasmo di Horton si era forse palesato troppo presto, vista la recentissima sentenza d'appello (British Medical Journal, 2008) che "riforma" quella del giudice Dobbs, così aprendo la strada alla prosecuzione del contenzioso legale. A proposito di questa vicenda, va ribadito che il "gold standard" sull'efficacia dei farmaci, più che trovarlo definito una volta per tutte nella aule di un Tribunale, andrebbe cercato da ricercatori e prescrittori mediante controlli sperimentali non gravati da possibili conflitti di interesse.
Questa mini-storia dell'uso clinico degli AChE nell'Alzheimer sta solo a ribadire una virtuosa banalità: che le evidenze terapeutiche vanno viste e riviste, e che chi ha la mano sul rubinetto della prescrizione dovrebbe tenere conto, esigendolo qualora mancasse, del doveroso lavoro di controllo pubblico. Ma a noi, qui, non interessa proferire una virtuosa omelia, anche se è difficile non deplorare che i più eminenti neurologi italiani che si sono occupati di Alzheimer non abbiano preso carta e penna per rendere pubblici i loro crescenti sospetti d'inefficacia, sospetti che hanno indotto i colleghi britannici a svolgere un ineccepibile trial clinico non sponsorizzato. Interessa piuttosto capire quali remore frenino così vistosamente il corso della critica dei medici prescrittori.
Considerazioni sul prescrittore
Un lettore potrebbe chiedere di levargli una curiosità apparentemente fuori dal contesto qui discusso: come mai l'autore ha deciso di scrivere questo articolo, piuttosto polemico e certamente partigiano, la cui utilità si rivelerà alquanto modesta? Lo si capirà dalle congetture che seguono. Comunque, c'è sotto un bisogno di cavarsi qualche sassolino dalle scarpe e anche di cercare di compensare errori e omissioni commessi in passato. Viene da porsi una domanda, certamente non univoca nelle risposte: perché mai la maggioranza dei neurologi e geriatri (le due categorie di medici più coinvolte in questa faccenda) tutt'oggi continua a prescrivere farmaci di così incerta efficacia, e il nostro ministero della salute continua a rimborsare la spesa collegata al loro consumo? E ciò addirittura a dispetto dell'esito negativo dello studio osservazionale sugli AChE (European Journal of Clinical Pharmacology, 2005) avviato e gestito dall'Istituto Superiore di Sanità, studio purtroppo assai tardivo e certo non esente da critiche metodologiche. Questo studio, malgrado la rivista non-clinica su cui ha trovato ospitalità (anziché, ad esempio, sull'organo della Società Italiana di Neurologia, che è una rivista clinica molto letta in quanto inviata a tutti i neurologi italiani), ha avuto il merito di avere coinvolto moltissimi medici prescrittori collegati ai numerosi Centri Alzheimer del Progetto Cronos, con ciò avendo forse contribuito a diffondere un atteggiamento più cauto circa l'impiego degli AChE.
Va, però, anche detto che non tutti i neurologi italiani si sono dimostrati ipocritici. Qualcuno, meno impermeabile ai dati della letteratura e soprattutto della propria sagacia osservazionale, si sforzava di rendere consapevoli i propri pazienti della dubbia efficacia terapeutica dei prodotti prescritti. Taluno (ad esempio, l'autore di questo intervento) fin dall'inizio del 2004 inseriva in calce alle proprie relazioni diagnostiche su pazienti Alzheimer una nota cautelativa circa l'efficacia degli AChE (corredandola, ad uso del medico di base, dei più importanti riferimenti bibliografici) e, a far tempo dai mesi immediatamente successivi, si è astenuto da ogni prescrizione di AChE, rendendo di pubblica ragione questo convincimento terapeutico in convegni (ad esempio, Annali dell'Istituto Superiore di Sanità, 2005, sulla base di un seminario del 2003), nonché in lezioni universitarie.
Comunque, prima di avanzare delle congetture riguardo alla propensione prescrittoria, onde comprendere che il peso finanziario sul tappeto, seppure non enorme, non è però del tutto irrilevante, merita chiedersi entro quale cornice si situi il volume d'affari degli AChE. L'onere complessivo (da chiunque erogato, famiglia compresa) per un paziente con demenza viene valutata in non meno di 30.000 euro/anno con minime differenze tra i paesi occidentali; esso assume nel Regno Unito una dimensione pari allo 0,6 per cento del prodotto interno lordo. Si stima che in Italia vivano almeno 500.000 dementi (in grande maggioranza tali in conseguenza della malattia di Alzheimer). La quota farmaceutica sembra aggirarsi attorno al 10 per cento della somma pro capite prima enunciata, ed è a carico della sanità pubblica. La maggior parte di essa è rappresentata dagli AChE. Quest'ultima rappresenta il 4,7 per cento della spesa per farmaci destinati alle patologie del sistema nervoso, comprese quelle psichiatriche (complessivamente pari a 1.278 milioni/anno) ed allo 0,4 per cento della spesa farmaceutica totale (complessivamente pari a 13.440 milioni di euro/anno). Nel 2006 sono stati spesi poco più di 60 milioni di euro per gli AChE. Da uno studio molto recente (Archives of Neurology, 2007) risulta che l'impiego degli AChE in Italia sembra coinvolgere soltanto un quinto dei dementi di Alzheimer con una caduta progressiva (dal 55 per cento all'1,6 per cento dei pazienti) man mano che essi appartengono alle fasce d'età più avanzate.
Circa l'ostinazione a prescrivere farmaci di dubbia efficacia come è possibile che siano gli AChE, uno può cercare delle spiegazioni lungo due linee di speculazione. (i) Ritenere che il prescrittore in verità abbia dei fondati dubbi sull'efficacia di ciò che prescrive, ma ciononostante decida in piena consapevolezza di non dar seguito ad essi. Ci si riferisce ai dubbi (certamente non ancora convinzioni) che potrebbero essergli derivati dalla letteratura a far tempo dal 2002 (v. sopra) e dalla diretta osservazione dei "propri" pazienti trattati con gli AChE. Decida, cioè, di non deflettere dalla pratica prescrittoria fino ad allora seguita. A ciò sottende generalmente un rapporto con l'industria nella forma del coinvolgimento – assolutamente lecito e alla luce del sole – in trial sponsorizzati. Si tratta, infatti, più spesso di un neurologo istituzionale (un "opinion leader" situato in una qualche clinica universitaria o reparto ospedaliero). (ii) Ritenere che il prescrittore, per così dire, avvolga – senza pensarci su più di tanto – nella coperta di una generale sfiducia nei farmaci per le malattie degenerative la propria indifferenza circa la loro efficacia quanto la loro inefficacia. Proprio la malattia di Parkinson – come si è detto, uno dei modelli terapeutici a suo tempo invocati per l'Alzheimer – ha finito ad offrire una sponda a questo modo di pensare: infatti, l'efficacia della terapia dopaminergica risulta esaurirsi nel giro di pochi anni. Il rappresentante di questa tipologia di prescrittori potrebbe dirsi: "chissà mai che qualche cosa questi AChE forse facciano; gran guai non ne procurano: allora diamoli". In fondo, si dà la consolante impressione alla famiglia del paziente che questi venga curato. Poi, è l'abitudine che fa il resto. Oppure, in altri casi (quali? i pazienti molto vecchi, come suggeriscono i dati riportati sopra?), il medesimo prescrittore – con la stessa logica – potrebbe decidere di non prescrivere questi farmaci. In entrambi i casi, trattasi più di sovente di un medico di base o di un operatore dei vari centri Alzheimer del Progetto ministeriale Cronos.
L'operare pragmatico non è certo un comportamento estraneo alla condotta corrente dei medici, segnatamente di quelli che la propaganda ama insignire col fregio di "opinion leader". Sono quei prescrittori che accettano di svolgere i trial clinici (come è stato in passato anche per l'autore di questo scritto), allettati dall'ineccepibile aspetto metodologico della raccolta dei dati e da quello della corresponsione finanziaria all'istituto in cui lavorano sulla base del più rigoroso rispetto delle norme legislative. Un'adesione che permette di disporre poi del danaro che consente di finanziare – sempre alla luce del sole – altre e indipendenti ricerche originali, talora a forte pregnanza scientifica, o, più narcisisticamente, di circondarsi di folte schiere di ricercatori precari, il cui destino è totalmente dipendente dal buon fiuto del leader nel condurre le trattative connesse all'avvio di nuovi trial sponsorizzati. Tuttavia, a dispetto della faciloneria con cui si potrebbero sospettare pratiche illecite (la cui occorrenza reputo in realtà non essere mai accaduta), non credo che il perseguimento dei fini pragmatici cui si è accennato sopra, giochi il ruolo principale nella reiterazione prescrittiva degli AChE. E ciò malgrado che a prima vista così possa sembrare e che assai spesso il perseguimento di questo fine venga proposto in tutta buona fede dagli stessi prescrittori come la loro autentica motivazione, attribuendola alla penosa penuria di finanziamenti pubblici per la ricerca. Non va trascurato il fatto che il grosso della prescrizione degli AChE non è concentrato nelle mani dei relativamente pochi responsabili "civetta" dei trial clinici, ma piuttosto in quelle dei medici di base, dei neurologi e geriatri operanti nei numerosi centri Alzheimer sparpagliati sul territorio nazionale.
Invece, credo che alla base dell'insensibilità scientifica dei prescrittori – istituzionali e territoriali – stia un profondo sentimento di preliminare rifiuto a ogni intrusione razionale nei meccanismi decisionali del medico e, all'opposto, una viva propensione a valorizzare principalmente il ruolo personale nell'interazione col paziente e con la sua famiglia, gestito sull'onda ottocentesca della propria autorevolezza emotiva e professionale. La vetusta banalità della Medicina come arte, non come scienza. Sospetto che siano proprio questi i numerosi prescrittori che si astengono – nel caso delle malattie dementigene – dal comunicare e dallo spiegare ai congiunti del paziente la diagnosi (il deterioramento cognitivo cronico-progressivo alias demenza), e ciò che questa condizione comporterà nel vicino futuro per la famiglia colpita (Annali dell'Istituto Superiore di Sanità, 2005). Costoro, più o meno, potrebbero dirsi – naturalmente facendo le mosse di non farlo – che non sarà poi una molecola, inventata in laboratorio dall'intelligenza di qualche invidiato collega, a mutare in senso favorevole il destino di un paziente, o, molto più in generale, la qualità del percorso di un uomo tra la nascita e la morte. Così, si diranno, non saranno decisivi sulla tranquillità del paziente i dati laboriosamente ricavati grazie all'indagine sull'efficacia di un farmaco, tanto che non vale l'interminabile fatica appropriarsene, nè tanto meno convertirli in modificazione della propria abitudine prescrittoria. A questo punto il passo è breve perché si precipiti in quella selva di credenze che conferisce al farmaco un alone magico: dall'incredulità circa il tragitto "scientifico" della molecola dalla punta della lingua ai più selettivi e reconditi target nell'organismo alla credenza più radicale che, perché faccia bene, conta più del farmaco lo stato d'animo (la fiducia) con cui lo si assume. Miscredenza scientifica e neghittosità culturale vanno di pari passo e insieme spalancano le porte a vagonate di preconcetti, tutti acquisiti a bassissima spesa e riversati in tutta innocenza sulla salute dei pazienti. I comportamenti qui descritti in termini volutamente un poco estremi non sono, a mio avviso, frutto di stolidità. L'ipotesi esplicativa di chi scrive – certamente, poco più di una congettura – è che l'epidemiologia dell'indifferenza scientifica italiana riconosca un unico fattore causale di natura ideologica (o meramente culturale o storico-geografica), che – per dirla nei modi di uno slogan giornalistico omni-comprensivo – chiamerei "deficit di illuminismo". Ovvero l'essere pervicacemente propensi a non far uso soltanto della propria ragione nello sforzo di spiegare l'interagire dei fenomeni, a non voler cogliere i nessi di causalità tra i fenomeni costruendo (e demolendo) modelli conoscitivi, a non accreditare i risultati sperimentali al netto di un'incessante critica metodologica e, soprattutto, a negare la materialità dei fenomeni del mondo, di conseguenza non depurandoli preventivamente da ogni determinismo soprannaturale. In questa cornice, a mio avviso, vanno viste anche le correnti propensioni terapeutiche, esemplificate qui dall'uso facile degli AChE nell'Alzheimer.
Accedendo a una seconda congettura, mi viene da pensare che il "deficit di illuminismo" italiano abbia una causa predominante tanto seria quanto complessa, spesso inconsapevole e, in taluni casi, addirittura negata, nella quasi universale adesione alla cultura cattolica e alla conseguente intrusione incessante del soprannaturale nel determinismo del quotidiano umano, segnatamente in quello delle malattie. È ovvio che l'intrusione del soprannaturale non è un tratto specificamente cattolico, essendo un portato comune a tutte le religioni, per cui prescrittori, per così dire "anilluministici" in conseguenza dell'accettazione di un incombente fattore soprannaturale, sicuramente operano in contesti geografici e religiosi di ispirazione protestante, islamica o ebraica. In Italia si ha semplicemente più sott'occhi l'efficacia dei sentimenti che formano l'oggetto della mia seconda congettura. Si consideri che lo stato italiano trova normale erogare meno contributi per la ricerca scientifica che per la chiesa. Giusto per restare nell'assistenziale, si consideri ancora, con animo provvisoriamente sgombro da pregiudizi scettici, la miracolistica correntemente sciorinata dai media circa santi intercessori con tanto di depliant circa le loro specializzazioni per patologia, relativi riti e giaculatorie, immagini taumaturgiche e aneddotica probatoria. Si consideri infine la ripresa e il lancio di antiche e nuove reliquie salvifiche sulla salute del devoto. Tra esperimenti e miracoli, si sa, non corre buon sangue: essi si escludono a vicenda come il diavolo e l'acquasanta. Va anche detto che la seconda, più comoda, "scuola di pensiero" – quella dell'acquasanta – è, tuttavia, lungi dal produrre anche la più esangue fiammata di fanatismo religioso: essa meramente contribuisce a generare quel "deficit di illuminismo" che avvia all'uso, spesso congiunto, dei "santini", delle più impensate trovate della "medicina alternativa", dei riti propiziatori, dei maghi, eccetera. Credo non vi sia medico il cui pensiero non possa correre senza sforzo a qualche stimato collega che, alla bisogna, non vedeva nulla di bizzarro nell'accedere per la sua personale salute al supermarket del portentoso. Un po' più di pessimismo della ragione e assai meno speranze infondate, uno poteva anche aspettarseli da chi va svolgendo da decenni un lavoro incentrato sulla propria perspicacia osservazionale! Ma così non è. È, invece, il solito binomio paura/speranza di cui scrive Luciano di Samosata a proposito di un imbroglione taumaturgo dell'epoca (che vantava relazioni privilegiate con gli dèi) a dominare la scena annullando l'influsso di ogni volontà razionale. In consonanza con questi sentimenti, conta soltanto rincuorare l'infermo infondendogli in primis una qualche speranza di guarigione a genesi e garanzia indefinibilmente incerte, una messa in scena in cui le sottigliezze farmacologiche perdono ogni parvenza di incisività. In conclusione, sospetto che i prescrittori "anilluministici" siano poco impressionati dalla razionalità che ha portato a creare un farmaco, razionalità che in tutto questo articolo si è voluto difendere. Essi sono altrettanto poco convinti che ogni farmaco vada continuamente controllato nella sua efficacia con i metodi che la cultura scientifica attuale permette e su questa base, se i risultati della verifica sono negativi o quantomeno incerti, a non più prescriverlo. Un quadro decisamente diverso da quello auspicato su Lancet da Richard Horton dopo la prima, ma ormai già annullata, sentenza di un tribunale inglese. È, dunque, ben possibile che nell'atto di prescrivere farmaci a incerta efficacia, il medico prescrittore ci metta molto del suo e che questa circostanza ricorra abbastanza frequentemente.
Hans Spinnler
Professore ordinario
di Neurologia