Abbiamo affrontato in passato dalle pagine di questa rivista il tema della medicina basata sulle prove (evidence-based medicine). Questa propone che tutte le decisioni mediche debbano basarsi su un'attenta analisi dei dati a disposizione, e di integrare le conoscenze derivanti dalla ricerca scientifica con le esperienze cliniche e i bisogni dei pazienti (si veda ad esempio S&P 47 e 48). Spesso però gli assunti di una medicina basata sulle prove vengono disattesi.
In questo numero di S&P, Hans Spinnler, fino a poco tempo fa direttore della clinica neurologica dell'Università di Milano dell'ospedale San Paolo, discute il problema della prescrizione di farmaci di non provata efficacia. L'articolo è particolarmente interessante perché, contrariamente a quanto abbiamo fatto altre volte, non si sofferma sulla mancata efficacia di prodotti e pratiche di medicina "alternativa", ma discute di prodotti di dubbia efficacia distribuiti da multinazionali farmaceutiche e disponibili in Italia attraverso il Sistema Sanitario Nazionale.
Per determinare l'efficacia di un farmaco si organizzano dei "trials" clinici il cui scopo è di stabilire se una proposta terapeutica funzioni meglio del placebo (cioè dell'effetto spesso presente, riconducibile all'uso di una sostanza inerte, chimicamente inefficace come per esempio "pillole di zucchero"), oppure rappresenti un'alternativa migliore rispetto a terapie già esistenti. Tecniche statistiche, note come metanalisi, poi permettono di sommare i risultati dei vari trials, al fine di consigliare o sconsigliare un trattamento. Sembra ovvio e facile, ma considerate che è dal tempo del "trial" di Ignaz Semmelweis, circa il 1850, che sappiamo che dottori e infermiere possono salvare molte vite umane semplicemente lavandosi le mani, eppure in molti ospedali dei paesi industrializzati il fatto che questa semplice pratica non venga attuata come converrebbe, è ancora frequente causa di morte.
Non deve stupire dunque che farmaci (e trattamenti) non dimostrati efficaci da trial clinici ed indipendenti rappresentino una parte considerevole della spesa sanitaria. È noto che trials sponsorizzati dall'industria privata riportano risultati più favorevoli di trials indipendenti per gli stessi principi attivi. Un ottimo esempio di questa differenza viene da uno studio pubblicato sulla rivista medica The Lancet nel 2000 da Benjamin Djulbegovic e i suoi colleghi dell'università di Tampa in Florida, che hanno dimostrato come, in media, l'industria farmaceutica sceglie fior da fiore nel riportare i dati, e come trials privati siano di qualità inferiore a trials indipendenti. L'industria fa il suo mestiere, e tra l'altro è praticamente l'unica fonte di ricerca farmacologica in Italia; inoltre considerate il volume d'affari, solo per i cosiddetti inibitori dell'acetil-colinesterasi usati per "trattare" la malattia di Alzheimer, la classe di farmaci discussi nell'articolo di Spinnler: la spesa a carico del Servizio Sanitario Nazionale è di circa 700 milioni di euro all'anno. L'unica via che dovrebbe seguire un organo di Stato serio è quella di abbracciare il principio che solo composti la cui efficacia sia provata da trials indipendenti debbano essere passibili di pieno rimborso.
Val la pena rammentare le parole di H.L. Mencken, giornalista americano attivo nella prima metà del secolo scorso, che affermò che per ogni problema complesso c'è sempre una soluzione semplice e… sbagliata. Periodicamente siamo informati di una nuova scoperta che rivoluzionerà il trattamento di malattie fino ad allora incurabili. Certo che ci sono state e ci saranno tali formidabili scoperte, pensate alla penicillina ed ai successivi antibiotici, ma su queste i dubbi si dissipano rapidamente, e rapidamente tutti concordano sulla loro efficacia. Quando invece le malattie sono devastanti e poco curabili, come purtroppo è ancora il caso della malattia di Alzheimer, è più facile che si creino i presupposti per un mercato poco virtuoso, gestito da molti protagonisti: dalle industrie certo, che hanno come legittimo obiettivo il profitto, ma anche da autorità sanitarie, medici, associazioni di pazienti, e giornalisti. Aleggia spesso, nelle discussioni sull'efficacia di una terapia o di un comportamento, un positivismo buonista e sciatto che genera speranze acritiche, ovvie a livello individuale, meno giustificabili quando provenienti da professionisti o associazioni di consumatori. È il trionfo della pubblicità sulla razionalità.
Non esiste una medicina buona e una cattiva, una al servizio del paziente e una cinica e dedita al profitto, una ufficiale ed una alternativa, una ortodossa ed una complementare. Esiste una medicina che si basa sulle evidenze, che valuta i rischi in rapporto ai benefici, i benefici in relazione ai costi, per il bene degli utenti, ed una che si crogiola in dogmatismi ascientifici. Questa medicina ascientifica non è solo quella "alternativa" (si vedano ad esempi gli atti del VII convegno nazionale del CICAP). I medici prescrivono, i farmacisti vendono, e i pazienti trangugiano pillole per far tornare la memoria e la giovinezza, intrugli che non solo biointegrano, vasodilatano, immunomodulano, energizzano e la-mia-vicina-ha-detto-che-funzionano, ma che, come ci ricorda Spinnler, ridanno speranza agli incurabili e ai loro parenti.
Sergio Della Sala
Human Cognitive
Neuroscience, University
of Edinburgh, UK
In questo numero di S&P, Hans Spinnler, fino a poco tempo fa direttore della clinica neurologica dell'Università di Milano dell'ospedale San Paolo, discute il problema della prescrizione di farmaci di non provata efficacia. L'articolo è particolarmente interessante perché, contrariamente a quanto abbiamo fatto altre volte, non si sofferma sulla mancata efficacia di prodotti e pratiche di medicina "alternativa", ma discute di prodotti di dubbia efficacia distribuiti da multinazionali farmaceutiche e disponibili in Italia attraverso il Sistema Sanitario Nazionale.
Per determinare l'efficacia di un farmaco si organizzano dei "trials" clinici il cui scopo è di stabilire se una proposta terapeutica funzioni meglio del placebo (cioè dell'effetto spesso presente, riconducibile all'uso di una sostanza inerte, chimicamente inefficace come per esempio "pillole di zucchero"), oppure rappresenti un'alternativa migliore rispetto a terapie già esistenti. Tecniche statistiche, note come metanalisi, poi permettono di sommare i risultati dei vari trials, al fine di consigliare o sconsigliare un trattamento. Sembra ovvio e facile, ma considerate che è dal tempo del "trial" di Ignaz Semmelweis, circa il 1850, che sappiamo che dottori e infermiere possono salvare molte vite umane semplicemente lavandosi le mani, eppure in molti ospedali dei paesi industrializzati il fatto che questa semplice pratica non venga attuata come converrebbe, è ancora frequente causa di morte.
Non deve stupire dunque che farmaci (e trattamenti) non dimostrati efficaci da trial clinici ed indipendenti rappresentino una parte considerevole della spesa sanitaria. È noto che trials sponsorizzati dall'industria privata riportano risultati più favorevoli di trials indipendenti per gli stessi principi attivi. Un ottimo esempio di questa differenza viene da uno studio pubblicato sulla rivista medica The Lancet nel 2000 da Benjamin Djulbegovic e i suoi colleghi dell'università di Tampa in Florida, che hanno dimostrato come, in media, l'industria farmaceutica sceglie fior da fiore nel riportare i dati, e come trials privati siano di qualità inferiore a trials indipendenti. L'industria fa il suo mestiere, e tra l'altro è praticamente l'unica fonte di ricerca farmacologica in Italia; inoltre considerate il volume d'affari, solo per i cosiddetti inibitori dell'acetil-colinesterasi usati per "trattare" la malattia di Alzheimer, la classe di farmaci discussi nell'articolo di Spinnler: la spesa a carico del Servizio Sanitario Nazionale è di circa 700 milioni di euro all'anno. L'unica via che dovrebbe seguire un organo di Stato serio è quella di abbracciare il principio che solo composti la cui efficacia sia provata da trials indipendenti debbano essere passibili di pieno rimborso.
Val la pena rammentare le parole di H.L. Mencken, giornalista americano attivo nella prima metà del secolo scorso, che affermò che per ogni problema complesso c'è sempre una soluzione semplice e… sbagliata. Periodicamente siamo informati di una nuova scoperta che rivoluzionerà il trattamento di malattie fino ad allora incurabili. Certo che ci sono state e ci saranno tali formidabili scoperte, pensate alla penicillina ed ai successivi antibiotici, ma su queste i dubbi si dissipano rapidamente, e rapidamente tutti concordano sulla loro efficacia. Quando invece le malattie sono devastanti e poco curabili, come purtroppo è ancora il caso della malattia di Alzheimer, è più facile che si creino i presupposti per un mercato poco virtuoso, gestito da molti protagonisti: dalle industrie certo, che hanno come legittimo obiettivo il profitto, ma anche da autorità sanitarie, medici, associazioni di pazienti, e giornalisti. Aleggia spesso, nelle discussioni sull'efficacia di una terapia o di un comportamento, un positivismo buonista e sciatto che genera speranze acritiche, ovvie a livello individuale, meno giustificabili quando provenienti da professionisti o associazioni di consumatori. È il trionfo della pubblicità sulla razionalità.
Non esiste una medicina buona e una cattiva, una al servizio del paziente e una cinica e dedita al profitto, una ufficiale ed una alternativa, una ortodossa ed una complementare. Esiste una medicina che si basa sulle evidenze, che valuta i rischi in rapporto ai benefici, i benefici in relazione ai costi, per il bene degli utenti, ed una che si crogiola in dogmatismi ascientifici. Questa medicina ascientifica non è solo quella "alternativa" (si vedano ad esempi gli atti del VII convegno nazionale del CICAP). I medici prescrivono, i farmacisti vendono, e i pazienti trangugiano pillole per far tornare la memoria e la giovinezza, intrugli che non solo biointegrano, vasodilatano, immunomodulano, energizzano e la-mia-vicina-ha-detto-che-funzionano, ma che, come ci ricorda Spinnler, ridanno speranza agli incurabili e ai loro parenti.
Sergio Della Sala
Human Cognitive
Neuroscience, University
of Edinburgh, UK