Come difendersi da false notizie e disinformazione, per diventare dei “liberi dubitanti” consapevoli e responsabili? Nel suo nuovo libro, “Pensa come uno scienziato”, Massimo Polidoro ci aiuta a capire come applicare il metodo scientifico alla risoluzione dei problemi. Qui vi proponiamo il primo capitolo.
Tra il 1975 e il 1980 il terrore scuote il Nord-Ovest dell’Inghilterra. Un assassino seriale, che con poca fantasia i giornali battezzano “Lo Squartatore dello Yorkshire”, individua donne che si trovano da sole per strada la sera, alcune delle quali prostitute, e le convince (o le obbliga) a salire in auto con lui. Il predatore, armato di martello e cacciavite, uccide così tredici donne e ne ferisce almeno altre sette ma, per quanto sembri imprendibile – quasi un fantasma che rimanda al misterioso serial killer vittoriano, Jack lo Squartatore –, la polizia ha almeno nove occasioni per arrestarlo. Per ben nove volte, infatti, gli investigatori interrogano tale Peter Sutcliffe, un camionista che per un motivo o per l’altro continua a spuntare nell’elenco dei possibili sospettati, ma che ogni volta finisce per essere rilasciato.
In un’occasione la polizia mostra a Sutcliffe la fotografia dell’impronta di uno stivale trovata accanto a una vittima, ma nessuno si accorge che l’uomo indossa in quel momento esattamente lo stesso tipo di stivali. In una diversa occasione, nella tasca di un’altra vittima viene trovata una banconota da 5 sterline: dal numero di serie è possibile risalire a una compagnia di trasporti, la Clark Transport, la stessa per cui Sutcliffe lavora. Ma ancora nessuno fa il collegamento.
Eppure Sutcliffe era stato arrestato nel 1969 perché trovato armato di martello in una zona a luci rosse. Eppure un suo amico, Trevor Birdsall, lo aveva accusato in una lettera anonima di essere il serial killer che tutti cercavano. Eppure Tracy Browne, di soli quattordici anni, sopravvissuta all’attacco dell’assassino che la colpisce cinque volte alla testa con il martello, ne descrive l’aspetto in un modo talmente preciso che l’identikit ottenuto sembra una fotografia di Peter Sutcliffe. E così fanno altre donne scampate al massacro.
Ma nulla di tutto questo serve a qualcosa. Alla fine, Sutcliffe finisce in carcere per caso, il 2 gennaio del 1981. La polizia stradale ferma l’auto su cui si è appartato insieme a una prostituta. Vengono entrambi portati in centrale e si scopre che l’auto è rubata. È lo stesso tipo di auto visto più volte in occasione dei diversi delitti. L’uomo si giustifica dicendo che cambia la targa all’auto per non far sapere alla moglie che va con le prostitute. Incredibilmente, la polizia gli crede e ancora una volta sta per rilasciarlo, quando un controllo dell’auto porta alla scoperta di un cacciavite. Poco distante dal punto in cui Sutcliffe era stato fermato, poi, vengono ritrovati anche un martello e un coltello, di cui l’uomo si era liberato vedendo avvicinarsi le luci lampeggianti dell’auto della polizia. Solo allora, messo sotto pressione, Peter Sutcliffe confessa di essere proprio lui lo Squartatore dello Yorkshire. Ma perché non è stato arrestato prima? Perché è sempre stato escluso ogni volta che veniva sospettato o interrogato? Semplice! Perché non combaciava con l’idea che gli investigatori si erano fatti dell’assassino. La polizia, per esempio, aveva ricevuto in un pacco anonimo un nastro registrato in cui il presunto assassino si vantava dei suoi successi. La voce che parlava aveva un forte accento del Nord-Est, che Sutcliffe non possedeva. Quel nastro però era un falso, lo scherzo di un mitomane; i motivi per sospettarlo erano tanti, eppure quello che diceva si accordava bene con l’idea che la polizia si era fatta dell’“assassino di prostitute”. E poi Sutcliffe era sposato e diceva di non frequentare le prostitute. Questo, in effetti, era il vero problema: gli investigatori erano convinti che, proprio come Jack lo Squartatore, l’assassino “uccideva solo le prostitute”. «È un uomo che odia le prostitute» avevano dichiarato i detective in tv. E da questa certezza discendeva tutto il resto.
Peccato che si sbagliassero.
In pieno.
Sutcliffe era un misogino, un uomo cioè che odiava tutte le donne. E, infatti, aveva sì colpito alcune prostitute, ma non solo loro. Cercava semplicemente donne sole e, di sera, in certe zone poteva essere più facile trovare una prostituta, ma non se la prendeva solo con loro. Quando una donna che non si prostituiva era stata uccisa da Sutcliffe, si trovavano mille pretesti per identificarla come una “poco di buono”. Magari aveva problemi economici e quindi, ipotizzavano i detective, doveva per forza prostituirsi per tirare avanti, anche se non c’erano prove che lo facesse.
Quando invece una donna o una ragazza era stata aggredita da Sutcliffe, ma per miracolo era riuscita a salvarsi, i suoi racconti, i dettagli che dava, le descrizioni precise che forniva dell’assalitore venivano semplicemente ignorati perché queste donne non sembravano il tipo di vittima del “vero” Squartatore. La polizia cercava Jack the Ripper, il genio del male, non un insignificante camionista di Bradford.
Quindi dobbiamo chiederci: perché la polizia ha fallito così miseramente? Perché gli investigatori si sono lasciati accecare dai loro pregiudizi. E, soprattutto, si sono rifiutati di cambiare idea ogni volta che le prove smentivano ciò in cui credevano.
Che cosa farebbe Sherlock Holmes?
E dire che quasi un secolo prima era stato proprio un detective inglese, per quanto immaginario, a mettere in guardia contro questo rischio: «È un errore madornale teorizzare prima di avere in mano i dati» dichiara infatti Sherlock Holmes nel racconto “Uno scandalo in Boemia”. «Gradualmente si iniziano a distorcere i fatti per farli andare d’accordo con le teorie, anziché formulare teorie basate sui fatti.»
Ed è un errore in cui tutti, chi più chi meno, possiamo cadere. Perché? Perché tutti noi siamo più propensi a cercare conferme per qualcosa in cui crediamo, anziché smentite.
Proviamo a fare un piccolo test. Osservate questa sequenza di numeri:
2; 4; 6
Ora, provate a indovinare qual è la regola “misteriosa” che lega questi tre numeri e provate a immaginare una sequenza di numeri diversi che potrebbe seguire la stessa regola. Magari potreste pensare a qualcosa di questo tipo:
8; 10; 12
e la vostra ipotesi sarebbe giusta. Sì, anche questi tre numeri seguono la regola. Potreste allora provare a testare la vostra idea immaginando un’ulteriore sequenza, e forse vi verrebbe in mente qualcosa di questo tipo:
20; 22; 24
Ancora una volta la vostra idea sarebbe corretta. Quindi, a questo punto, potreste essere pronti a comunicare quella che secondo voi è la “regola misteriosa” che unisce tutti questi numeri, vale a dire: “numeri pari che crescono di due in due”. Giusto? No, è sbagliato.
Ecco infatti un’altra sequenza di numeri che rispetta la “regola misteriosa”:
7; 25; 71
oppure:
53; 121; 2850
Come è possibile? Semplice, la “regola misteriosa” è questa: “qualunque numero in ordine crescente”. Una regola cioè molto più ampia rispetto a quella più precisa che tendiamo a immaginare. Per scoprirlo, però, si sarebbe dovuta immaginare una sequenza di numeri capace di smentire la nostra ipotesi. Se cioè ipotizziamo che la regola sia “numeri pari che crescono di due in due”, per capire se è plausibile dovremo proporre sequenze di numeri che non rispettano questa ipotesi, che cercano cioè di smentirla: 1; 3; 5, per esempio, o 2; 8; 21. Se ci viene detto che queste sequenze non rispettano la regola, si potrebbe rafforzare la nostra convinzione, ma se per caso ci viene risposto che anche queste sequenze rispettano la regola, allora avremo raggiunto almeno una certezza: la nostra ipotesi è sbagliata.
È stato lo psicologo inglese Peter Cathcart Wason a proporre a gruppi di studenti, negli anni Sessanta del secolo scorso, il test che avete appena letto[1]. Il risultato è stato che solo una persona su cinque indovinava la regola corretta. Una regola che è possibile scoprire solo cercando di falsificare ciò che si pensa essere vero. Un modo di ragionare, però, che non ci viene per nulla naturale, motivo per cui siamo tutti, potenzialmente, vittime del pregiudizio (bias) di conferma. Lo stesso bias che indusse la polizia inglese a cercare unicamente conferme per la propria ipotesi sul serial killer, scartando tutto ciò che rischiava di smentirla.
Avremo modo più avanti di approfondire meglio questo tipo di trabocchetti mentali in cui ciascuno di noi può cadere in qualunque momento. Tuttavia, è importante sapere che esiste un gruppo di persone che difficilmente cade vittima del bias di conferma. Chi? Gli scienziati[2].
Attenzione, però, non mi fraintendete. Coloro che fanno scienza sono persone e, come tali, hanno pregi e difetti, potenzialità e limiti come chiunque altro. Quello che li “salva” è il loro modo di ragionare. «Le scienze hanno prodotto i loro esiti più spettacolari non perché fra gli scienziati i bias cognitivi magicamente svaniscano, ma piuttosto a dispetto della loro persistenza» scrive infatti il filosofo della scienza Vincenzo Crupi. «Le scienze rappresentano il paradigma della razionalità proprio perché hanno messo a punto una collezione di procedure e accortezze che mirano a ridurre gli errori che possono emergere da intuizioni fuorvianti e trabocchetti logici (il paradigma di tali procedure sono, naturalmente, la dimostrazione matematica, e la sperimentazione controllata)»[3].
Il motore alla base della scienza, infatti, è il dubbio. Chi fa scienza mette in dubbio ciò che sappiamo e cerca in ogni modo di trovare qualcosa che potrebbe smentire le idee e le convinzioni acquisite. Non lo fa per cattiveria o cinismo, ma solo perché questo è l’unico modo in cui possiamo capire se ci sbagliamo e scoprire così qualcosa di nuovo.
Ecco perché imparare a ragionare come scienziati potrebbe essere la strada migliore. Vediamo perché.
Coltivare una mentalità scientifica
La nostra dovrebbe essere l’epoca della scienza, ma in realtà lo è solo per le applicazioni delle scoperte scientifiche che trasformano la vita di ogni giorno, per quello che riguarda la tecnologia, insomma. Innovazioni e applicazioni della scienza che spesso la vita ce la migliorano, ma che tante altre volte creano problemi. Se chiediamo a qualcuno di dirci che cos’è la scienza, spesso citerà computer, farmaci, veicoli spaziali... o magari parlerà di manipolazione genetica, pesticidi o bombe atomiche. Ma produrre oggetti o sviluppare tecnologie non è scienza, è il modo in cui le scoperte scientifiche vengono impiegate dall’industria, impieghi che dipendono da scelte di tipo economico o politico. La scienza, invece, è uno strumento per acquisire conoscenza, per capire i principi che guidano l’Universo. È un modo di pensare, insomma. E, nella nostra società, la mentalità scientifica è tutt’altro che prevalente. Viviamo in un mondo che è sempre più attraversato e pesantemente influenzato da falsità, bufale, teorie del complotto: no vax, negazionisti del Covid, episodi come l’attacco al Campidoglio americano incoraggiato da false notizie e complottismi di ogni tipo... Ovunque sembra diffondersi il virus dell’antiscienza, non certo quello della scienza.
Un tratto comune di queste idee è quello di negare la realtà, rifiutare i fatti e proporre una visione del mondo alternativa, magari per certi versi più confortante, ma del tutto scollegata da quello che è il mondo reale. Il fatto è che non esiste purtroppo una cartina al tornasole che permetta a ciascuno di noi di capire al volo se una notizia o un’informazione è vera o falsa. Il confine tra realtà e fantasia è quanto mai labile, soprattutto se si sovrappone alle ideologie e agli aspetti che definiscono la nostra identità.
Ed è qui che occorre fare più attenzione.
Da una parte c’è la nostra mente, dove la competizione per prendere il controllo fra la sfera razionale e quella istintiva non si ferma mai, e dove la seconda parte è in assoluto vantaggio. Dall’altra c’è l’informazione, dove è in corso un’analoga battaglia tra la necessità di riportare i fatti per quello che sono e la tendenza a dare spazio al sensazionalismo o, peggio, ad alimentare la polarizzazione e il conflitto, una strategia certamente più capace di attrarre pubblico.
Come mantenersi dunque sulla retta via senza perdersi nel bosco della disinformazione o, peggio, cadere nella tana del Bianconiglio delle idee più estreme e improbabili, ma per molti altamente seducenti e confortanti? Occorre nutrire la propria curiosità, evitando però certe scorciatoie che potrebbero rivelarsi trappole fatali. Ma come farlo senza rischiare di perdersi? Un buon sistema per orientarsi, dunque, è proprio quello di imparare a pensare come scienziati. Non sempre e non per qualunque cosa, ovviamente, ma dove è necessario. Solo in quei campi, cioè, dove si possono condurre verifiche su fatti e fenomeni oggettivi, dove si può procedere per prove ed errori. La vita è piena di avvenimenti e di cose in cui non è necessaria la scienza: le emozioni, la filosofia, la spiritualità, ma anche l’arte o la letteratura, sono tutti ambiti in cui non c’è motivo per avere un atteggiamento scientifico. Quando però si tratta di prendere decisioni che riguardano la salute delle persone, che riguardano la tutela dell’ambiente, la natura, quando si deve valutare l’attendibilità di un fatto o di un fenomeno ambiguo, allora l’approccio scientifico può rivelarsi non solo prezioso, ma addirittura indispensabile.
Facciamo però attenzione: pensare come scienziati non significa prendersi una laurea in fisica o chimica e poi dedicarsi alla ricerca per il resto della propria vita. Non si tratta di accumulare nozioni e informazioni, si tratta piuttosto di imparare ad affrontare e a risolvere i problemi in maniera creativa.
«Il pensiero scientifico» osserva Neil deGrasse Tyson, astrofisico all’American Museum of Natural History e famosissimo divulgatore scientifico «non riguarda tanto ciò che sai, quanto il modo in cui il tuo cervello è attrezzato per pensare, quanto la tua mente è cablata per fare domande»[4]. È ovviamente un modo di dire: il cervello è lo stesso per tutti, ma è il modo in cui ci si abitua a usarlo a fare la differenza.
E come occorre abituarsi a usarlo? Imparando a farsi e a fare domande. E le domande quando nascono? Non certo quando siamo sicuri, quando siamo convinti di sapere ogni cosa. Nascono dove c’è spazio per il dubbio. Ecco, pensare come scienziati significa in parole semplici imparare a ragionare coltivando i dubbi.
Chi ancora pensa che la scienza sia fatta di certezze o di verità assolute non ha proprio capito che cos’è realmente la scienza. Leonardo da Vinci, cinque secoli fa, quando la scienza come la conosciamo oggi non esisteva ancora, lo aveva invece capito benissimo. Egli infatti sosteneva che le cose possono essere ritenute vere solo fino a quando non vengono dimostrate false da un’esperienza contraria. È un modo di pensare che anticipa di un secolo quello che sarebbe divenuto noto come il metodo scientifico messo a punto nel Seicento da Galileo Galilei, da Cartesio e da Bacone.
La scienza si pone costantemente domande; non offre certezze, ma fatti che possono essere considerati veri fino a che, come diceva Leonardo, non arriva una prova contraria a smentirli.
«Il problema dell’umanità» scriveva Bertrand Russell «è che gli stupidi sono sempre sicurissimi, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi»[5]. O, per dirla con Cartesio: «Il dubbio è l’inizio della saggezza».
Come diceva il celebre ed eccentrico fisico americano Richard P. Feynman, premio Nobel nel 1965, ammettere di non sapere «ci dà modo di variare, di riflettere, di scoprire cose nuove e di avanzare nella conoscenza di noi stessi». E poi aggiungeva che se ci guardiamo indietro «si ha l’impressione che i periodi peggiori della nostra storia siano quelli in cui era più forte la presenza di persone che credevano in qualcosa con fede cieca e dogmatismo assoluto, prendendosi tanto sul serio da pretendere che il mondo intero la pensasse come loro. E poi facevano cose espressamente in contrasto con i loro stessi principi al fine di dimostrare la verità della propria dottrina[6]».
Certo, non è facile coltivare i dubbi.
La certezza è piacevole, ci rassicura. Il dubbio crea disagio e il nostro cervello non tollera l’ambiguità, vuole risposte chiare. Meglio, poi, se queste risposte combaciano con ciò a cui vogliamo credere. Quando però cerchiamo di capire qualcosa, di prendere una decisione o di valutare l’attendibilità di una notizia affidandoci alle nostre certezze, alle nostre credenze, rischiamo di sbagliare.
Pensare come scienziati significa sì coltivare dubbi, ma anche andare alla ricerca di prove che possano dimostrare (o confutare) ciò che pensiamo. E per prova non va intesa la “sensazione” che qualcosa sia vero o sia giusto, ma solo i fatti verificabili.
Liberi dubitanti
Nelle pagine che seguono capiremo meglio come funziona la scienza e dal suo metodo ricaveremo preziosi strumenti che ci permetteranno di superare la nostra tendenza a subire passivamente le informazioni. Ciascuno di noi, infatti, è una parte fondamentale dell’ecosistema informativo. Ogni volta che accettiamo in maniera passiva le informazioni condividendo un post, un’immagine, un video, senza prima avere verificato, contribuiamo ad aumentare il rumore e la confusione. L’ecosistema è ora così inquinato che dobbiamo assumerci la responsabilità di controllare in maniera indipendente ciò che vediamo online.
Quando dobbiamo prestare più attenzione? Quando le nostre capacità di analisi critica diminuiscono, ovvero quando ci troviamo di fronte a qualcosa che scatena le nostre emozioni, sia quelle positive che ci esaltano, sia quelle negative che ci fanno arrabbiare, ci indignano o ci spaventano.
Se siete troppo arrabbiati o anche troppo compiaciuti per il contenuto di un post, di un video o di un articolo (nel caso in cui confermino il vostro punto di vista), controllate di nuovo. Occorre cioè assumere un atteggiamento di “scetticismo emotivo”. Se, cioè, diventiamo consapevoli del fatto che le emozioni sono spesso usate come grimaldello per la manipolazione psicologica, quando ci accorgiamo che qualcosa che leggiamo, sentiamo o vediamo accende in noi un’emozione di qualche tipo (paura, rabbia, ripulsa, entusiasmo...) dovremmo abituarci a sentire un campanellino d’allarme. «Aspetta un attimo,» dovremmo chiederci «sarà davvero così?»
Più che investire su progetti di fact-checking o media literacy, come proposto da alcuni, è quindi forse più utile incoraggiare sempre più una mentalità critica nelle persone e, in particolare, nei giovani. Imparare a dubitare e maturare una forma di pensiero critico e antidogmatico è, o dovrebbe essere, l’obiettivo finale della formazione scolastica attraverso il concorso di tutte le discipline. Al di là dei singoli insegnamenti, ogni corso di studi non dovrebbe perdere di vista il processo sottostante, l’abito mentale, come lo chiamava il pedagogista statunitense John Dewey, che rappresenta il prodotto più importante della formazione scolastica. Invece, molto spesso, questo non succede.
Spesso si insegnano le scienze, la fisica, la chimica, la biologia, per esempio, ma si dà poco spazio al metodo della scienza, alla sua etica, alla sua filosofia e alla sua cultura. Ma le nozioni, le conoscenze, finiscono presto o tardi per essere dimenticate: se si impara come funziona il metodo scientifico, se se ne indossa l’abito mentale, questo diventa permanente, uno strumento che influenzerà stabilmente il modo di pensare e di affrontare la realtà, tornando utile nel corso di tutta la vita e contribuendo al radicarsi dello spirito democratico.
Sviluppare abiti mentali di natura critica, infatti, è qualcosa che va a braccetto con l’atteggiamento scientifico, componente imprescindibile proprio dello spirito democratico. «Una scuola che forma all’atteggiamento critico è una scuola che forma all’atteggiamento democratico» dice il pedagogista Massimo Baldacci dell’Università Carlo Bo di Urbino. «Formare allo spirito critico e formare allo spirito democratico devono essere facce della medesima medaglia: una scuola che sia una comunità democratica e una comunità di liberi dubitanti mi pare realmente la buona scuola»[7]. Cerchiamo dunque tutti di diventare liberi dubitanti, anche chi la scuola l’ha lasciata da un pezzo. Stando però attenti a non trasformarci in dubitanti selettivi, come sono quelli che non si fidano assolutamente di nulla e vedono complotti ovunque, ma solo se confermano i loro pregiudizi sul mondo. Costoro si convincono di essere gli unici in grado di riconoscere le bugie e di avere aperto gli occhi sulla realtà, mentre tutti gli altri sono pecoroni. Ma credere che tutti mentano, siano ciechi o acquiescenti al potere non significa essere liberi dubitanti, è solo un’altra forma di creduloneria.
Bisogna imparare a ragionare con la propria testa e a mettere in discussione l’autorità, ovviamente, ma bisogna farlo sulla base di fatti e prove, e non solo per dare libero sfogo alle nostre passioni, ideologie e convinzioni personali. Se non impariamo a farlo, se non capiamo cioè come costruire una critica fattuale e costruttiva, anziché considerare le persone al potere come al servizio dei cittadini, ci ritroveremo a trasformarci in creta plasmata a proprio piacimento dalle mani di chi comanda.
Non si tratta di credere a tutto o dubitare di tutto. La credenza, senza motivazioni fondate, non ci aiuta a capire la realtà. Allo stesso modo il rifiuto pregiudiziale di un’affermazione non ci aiuta a capire la differenza tra qualcosa che potrebbe essere vero o falso e qualcosa che, semplicemente, vorremmo fosse vero (o falso). Scientia potentia est, “sapere è potere”, è un aforisma attribuito a Francis Bacon (Francesco Bacone) e Thomas Hobbes, e ribadisce ciò che oggi appare ovvio: chi possiede la conoscenza possiede il potere, può cioè ottenere e fare ciò che desidera, a differenza di chi confonde il sapere con la fantasia o le illusioni, perché prende decisioni e compie scelte sulla base dei fatti reali; può individuare e superare gli ostacoli, prevedere i possibili esiti e avere quindi più possibilità di successo.
Ma sapere è importante non solo per ciò che possiamo fare con ciò che sappiamo. È importante, più semplicemente, perché ci permette di capire di più e meglio, e questa è già una ricompensa in sé. Come diceva Albert Einstein: «Esiste una passione per capire le cose così come esiste una passione per la musica»[8].
Coltiviamo dunque questa passione per il sapere e per la comprensione e rendiamola più forte con l’arte del dubbio che nasce da una mentalità scientifica. Perché, come spiegava l’astronomo Carl Sagan nel suo ultimo libro, diventato il suo testamento filosofico[9], in un mondo infestato dai demoni dell’oscurantismo, del pregiudizio e della disinformazione, conseguenza inevitabile della nostra umanità, imparare e insegnare ai nostri figli il metodo scientifico potrebbe essere tutto ciò che ci separa dal buio che ci circonda.
Tra il 1975 e il 1980 il terrore scuote il Nord-Ovest dell’Inghilterra. Un assassino seriale, che con poca fantasia i giornali battezzano “Lo Squartatore dello Yorkshire”, individua donne che si trovano da sole per strada la sera, alcune delle quali prostitute, e le convince (o le obbliga) a salire in auto con lui. Il predatore, armato di martello e cacciavite, uccide così tredici donne e ne ferisce almeno altre sette ma, per quanto sembri imprendibile – quasi un fantasma che rimanda al misterioso serial killer vittoriano, Jack lo Squartatore –, la polizia ha almeno nove occasioni per arrestarlo. Per ben nove volte, infatti, gli investigatori interrogano tale Peter Sutcliffe, un camionista che per un motivo o per l’altro continua a spuntare nell’elenco dei possibili sospettati, ma che ogni volta finisce per essere rilasciato.
In un’occasione la polizia mostra a Sutcliffe la fotografia dell’impronta di uno stivale trovata accanto a una vittima, ma nessuno si accorge che l’uomo indossa in quel momento esattamente lo stesso tipo di stivali. In una diversa occasione, nella tasca di un’altra vittima viene trovata una banconota da 5 sterline: dal numero di serie è possibile risalire a una compagnia di trasporti, la Clark Transport, la stessa per cui Sutcliffe lavora. Ma ancora nessuno fa il collegamento.
Eppure Sutcliffe era stato arrestato nel 1969 perché trovato armato di martello in una zona a luci rosse. Eppure un suo amico, Trevor Birdsall, lo aveva accusato in una lettera anonima di essere il serial killer che tutti cercavano. Eppure Tracy Browne, di soli quattordici anni, sopravvissuta all’attacco dell’assassino che la colpisce cinque volte alla testa con il martello, ne descrive l’aspetto in un modo talmente preciso che l’identikit ottenuto sembra una fotografia di Peter Sutcliffe. E così fanno altre donne scampate al massacro.
Ma nulla di tutto questo serve a qualcosa. Alla fine, Sutcliffe finisce in carcere per caso, il 2 gennaio del 1981. La polizia stradale ferma l’auto su cui si è appartato insieme a una prostituta. Vengono entrambi portati in centrale e si scopre che l’auto è rubata. È lo stesso tipo di auto visto più volte in occasione dei diversi delitti. L’uomo si giustifica dicendo che cambia la targa all’auto per non far sapere alla moglie che va con le prostitute. Incredibilmente, la polizia gli crede e ancora una volta sta per rilasciarlo, quando un controllo dell’auto porta alla scoperta di un cacciavite. Poco distante dal punto in cui Sutcliffe era stato fermato, poi, vengono ritrovati anche un martello e un coltello, di cui l’uomo si era liberato vedendo avvicinarsi le luci lampeggianti dell’auto della polizia. Solo allora, messo sotto pressione, Peter Sutcliffe confessa di essere proprio lui lo Squartatore dello Yorkshire. Ma perché non è stato arrestato prima? Perché è sempre stato escluso ogni volta che veniva sospettato o interrogato? Semplice! Perché non combaciava con l’idea che gli investigatori si erano fatti dell’assassino. La polizia, per esempio, aveva ricevuto in un pacco anonimo un nastro registrato in cui il presunto assassino si vantava dei suoi successi. La voce che parlava aveva un forte accento del Nord-Est, che Sutcliffe non possedeva. Quel nastro però era un falso, lo scherzo di un mitomane; i motivi per sospettarlo erano tanti, eppure quello che diceva si accordava bene con l’idea che la polizia si era fatta dell’“assassino di prostitute”. E poi Sutcliffe era sposato e diceva di non frequentare le prostitute. Questo, in effetti, era il vero problema: gli investigatori erano convinti che, proprio come Jack lo Squartatore, l’assassino “uccideva solo le prostitute”. «È un uomo che odia le prostitute» avevano dichiarato i detective in tv. E da questa certezza discendeva tutto il resto.
Peccato che si sbagliassero.
In pieno.
Sutcliffe era un misogino, un uomo cioè che odiava tutte le donne. E, infatti, aveva sì colpito alcune prostitute, ma non solo loro. Cercava semplicemente donne sole e, di sera, in certe zone poteva essere più facile trovare una prostituta, ma non se la prendeva solo con loro. Quando una donna che non si prostituiva era stata uccisa da Sutcliffe, si trovavano mille pretesti per identificarla come una “poco di buono”. Magari aveva problemi economici e quindi, ipotizzavano i detective, doveva per forza prostituirsi per tirare avanti, anche se non c’erano prove che lo facesse.
Quando invece una donna o una ragazza era stata aggredita da Sutcliffe, ma per miracolo era riuscita a salvarsi, i suoi racconti, i dettagli che dava, le descrizioni precise che forniva dell’assalitore venivano semplicemente ignorati perché queste donne non sembravano il tipo di vittima del “vero” Squartatore. La polizia cercava Jack the Ripper, il genio del male, non un insignificante camionista di Bradford.
Quindi dobbiamo chiederci: perché la polizia ha fallito così miseramente? Perché gli investigatori si sono lasciati accecare dai loro pregiudizi. E, soprattutto, si sono rifiutati di cambiare idea ogni volta che le prove smentivano ciò in cui credevano.
Che cosa farebbe Sherlock Holmes?
E dire che quasi un secolo prima era stato proprio un detective inglese, per quanto immaginario, a mettere in guardia contro questo rischio: «È un errore madornale teorizzare prima di avere in mano i dati» dichiara infatti Sherlock Holmes nel racconto “Uno scandalo in Boemia”. «Gradualmente si iniziano a distorcere i fatti per farli andare d’accordo con le teorie, anziché formulare teorie basate sui fatti.»
Ed è un errore in cui tutti, chi più chi meno, possiamo cadere. Perché? Perché tutti noi siamo più propensi a cercare conferme per qualcosa in cui crediamo, anziché smentite.
Proviamo a fare un piccolo test. Osservate questa sequenza di numeri:
2; 4; 6
Ora, provate a indovinare qual è la regola “misteriosa” che lega questi tre numeri e provate a immaginare una sequenza di numeri diversi che potrebbe seguire la stessa regola. Magari potreste pensare a qualcosa di questo tipo:
8; 10; 12
e la vostra ipotesi sarebbe giusta. Sì, anche questi tre numeri seguono la regola. Potreste allora provare a testare la vostra idea immaginando un’ulteriore sequenza, e forse vi verrebbe in mente qualcosa di questo tipo:
20; 22; 24
Ancora una volta la vostra idea sarebbe corretta. Quindi, a questo punto, potreste essere pronti a comunicare quella che secondo voi è la “regola misteriosa” che unisce tutti questi numeri, vale a dire: “numeri pari che crescono di due in due”. Giusto? No, è sbagliato.
Ecco infatti un’altra sequenza di numeri che rispetta la “regola misteriosa”:
7; 25; 71
oppure:
53; 121; 2850
Come è possibile? Semplice, la “regola misteriosa” è questa: “qualunque numero in ordine crescente”. Una regola cioè molto più ampia rispetto a quella più precisa che tendiamo a immaginare. Per scoprirlo, però, si sarebbe dovuta immaginare una sequenza di numeri capace di smentire la nostra ipotesi. Se cioè ipotizziamo che la regola sia “numeri pari che crescono di due in due”, per capire se è plausibile dovremo proporre sequenze di numeri che non rispettano questa ipotesi, che cercano cioè di smentirla: 1; 3; 5, per esempio, o 2; 8; 21. Se ci viene detto che queste sequenze non rispettano la regola, si potrebbe rafforzare la nostra convinzione, ma se per caso ci viene risposto che anche queste sequenze rispettano la regola, allora avremo raggiunto almeno una certezza: la nostra ipotesi è sbagliata.
È stato lo psicologo inglese Peter Cathcart Wason a proporre a gruppi di studenti, negli anni Sessanta del secolo scorso, il test che avete appena letto[1]. Il risultato è stato che solo una persona su cinque indovinava la regola corretta. Una regola che è possibile scoprire solo cercando di falsificare ciò che si pensa essere vero. Un modo di ragionare, però, che non ci viene per nulla naturale, motivo per cui siamo tutti, potenzialmente, vittime del pregiudizio (bias) di conferma. Lo stesso bias che indusse la polizia inglese a cercare unicamente conferme per la propria ipotesi sul serial killer, scartando tutto ciò che rischiava di smentirla.
Avremo modo più avanti di approfondire meglio questo tipo di trabocchetti mentali in cui ciascuno di noi può cadere in qualunque momento. Tuttavia, è importante sapere che esiste un gruppo di persone che difficilmente cade vittima del bias di conferma. Chi? Gli scienziati[2].
Attenzione, però, non mi fraintendete. Coloro che fanno scienza sono persone e, come tali, hanno pregi e difetti, potenzialità e limiti come chiunque altro. Quello che li “salva” è il loro modo di ragionare. «Le scienze hanno prodotto i loro esiti più spettacolari non perché fra gli scienziati i bias cognitivi magicamente svaniscano, ma piuttosto a dispetto della loro persistenza» scrive infatti il filosofo della scienza Vincenzo Crupi. «Le scienze rappresentano il paradigma della razionalità proprio perché hanno messo a punto una collezione di procedure e accortezze che mirano a ridurre gli errori che possono emergere da intuizioni fuorvianti e trabocchetti logici (il paradigma di tali procedure sono, naturalmente, la dimostrazione matematica, e la sperimentazione controllata)»[3].
Il motore alla base della scienza, infatti, è il dubbio. Chi fa scienza mette in dubbio ciò che sappiamo e cerca in ogni modo di trovare qualcosa che potrebbe smentire le idee e le convinzioni acquisite. Non lo fa per cattiveria o cinismo, ma solo perché questo è l’unico modo in cui possiamo capire se ci sbagliamo e scoprire così qualcosa di nuovo.
Ecco perché imparare a ragionare come scienziati potrebbe essere la strada migliore. Vediamo perché.
Coltivare una mentalità scientifica
La nostra dovrebbe essere l’epoca della scienza, ma in realtà lo è solo per le applicazioni delle scoperte scientifiche che trasformano la vita di ogni giorno, per quello che riguarda la tecnologia, insomma. Innovazioni e applicazioni della scienza che spesso la vita ce la migliorano, ma che tante altre volte creano problemi. Se chiediamo a qualcuno di dirci che cos’è la scienza, spesso citerà computer, farmaci, veicoli spaziali... o magari parlerà di manipolazione genetica, pesticidi o bombe atomiche. Ma produrre oggetti o sviluppare tecnologie non è scienza, è il modo in cui le scoperte scientifiche vengono impiegate dall’industria, impieghi che dipendono da scelte di tipo economico o politico. La scienza, invece, è uno strumento per acquisire conoscenza, per capire i principi che guidano l’Universo. È un modo di pensare, insomma. E, nella nostra società, la mentalità scientifica è tutt’altro che prevalente. Viviamo in un mondo che è sempre più attraversato e pesantemente influenzato da falsità, bufale, teorie del complotto: no vax, negazionisti del Covid, episodi come l’attacco al Campidoglio americano incoraggiato da false notizie e complottismi di ogni tipo... Ovunque sembra diffondersi il virus dell’antiscienza, non certo quello della scienza.
Un tratto comune di queste idee è quello di negare la realtà, rifiutare i fatti e proporre una visione del mondo alternativa, magari per certi versi più confortante, ma del tutto scollegata da quello che è il mondo reale. Il fatto è che non esiste purtroppo una cartina al tornasole che permetta a ciascuno di noi di capire al volo se una notizia o un’informazione è vera o falsa. Il confine tra realtà e fantasia è quanto mai labile, soprattutto se si sovrappone alle ideologie e agli aspetti che definiscono la nostra identità.
Ed è qui che occorre fare più attenzione.
Da una parte c’è la nostra mente, dove la competizione per prendere il controllo fra la sfera razionale e quella istintiva non si ferma mai, e dove la seconda parte è in assoluto vantaggio. Dall’altra c’è l’informazione, dove è in corso un’analoga battaglia tra la necessità di riportare i fatti per quello che sono e la tendenza a dare spazio al sensazionalismo o, peggio, ad alimentare la polarizzazione e il conflitto, una strategia certamente più capace di attrarre pubblico.
Come mantenersi dunque sulla retta via senza perdersi nel bosco della disinformazione o, peggio, cadere nella tana del Bianconiglio delle idee più estreme e improbabili, ma per molti altamente seducenti e confortanti? Occorre nutrire la propria curiosità, evitando però certe scorciatoie che potrebbero rivelarsi trappole fatali. Ma come farlo senza rischiare di perdersi? Un buon sistema per orientarsi, dunque, è proprio quello di imparare a pensare come scienziati. Non sempre e non per qualunque cosa, ovviamente, ma dove è necessario. Solo in quei campi, cioè, dove si possono condurre verifiche su fatti e fenomeni oggettivi, dove si può procedere per prove ed errori. La vita è piena di avvenimenti e di cose in cui non è necessaria la scienza: le emozioni, la filosofia, la spiritualità, ma anche l’arte o la letteratura, sono tutti ambiti in cui non c’è motivo per avere un atteggiamento scientifico. Quando però si tratta di prendere decisioni che riguardano la salute delle persone, che riguardano la tutela dell’ambiente, la natura, quando si deve valutare l’attendibilità di un fatto o di un fenomeno ambiguo, allora l’approccio scientifico può rivelarsi non solo prezioso, ma addirittura indispensabile.
Facciamo però attenzione: pensare come scienziati non significa prendersi una laurea in fisica o chimica e poi dedicarsi alla ricerca per il resto della propria vita. Non si tratta di accumulare nozioni e informazioni, si tratta piuttosto di imparare ad affrontare e a risolvere i problemi in maniera creativa.
«Il pensiero scientifico» osserva Neil deGrasse Tyson, astrofisico all’American Museum of Natural History e famosissimo divulgatore scientifico «non riguarda tanto ciò che sai, quanto il modo in cui il tuo cervello è attrezzato per pensare, quanto la tua mente è cablata per fare domande»[4]. È ovviamente un modo di dire: il cervello è lo stesso per tutti, ma è il modo in cui ci si abitua a usarlo a fare la differenza.
E come occorre abituarsi a usarlo? Imparando a farsi e a fare domande. E le domande quando nascono? Non certo quando siamo sicuri, quando siamo convinti di sapere ogni cosa. Nascono dove c’è spazio per il dubbio. Ecco, pensare come scienziati significa in parole semplici imparare a ragionare coltivando i dubbi.
Chi ancora pensa che la scienza sia fatta di certezze o di verità assolute non ha proprio capito che cos’è realmente la scienza. Leonardo da Vinci, cinque secoli fa, quando la scienza come la conosciamo oggi non esisteva ancora, lo aveva invece capito benissimo. Egli infatti sosteneva che le cose possono essere ritenute vere solo fino a quando non vengono dimostrate false da un’esperienza contraria. È un modo di pensare che anticipa di un secolo quello che sarebbe divenuto noto come il metodo scientifico messo a punto nel Seicento da Galileo Galilei, da Cartesio e da Bacone.
La scienza si pone costantemente domande; non offre certezze, ma fatti che possono essere considerati veri fino a che, come diceva Leonardo, non arriva una prova contraria a smentirli.
«Il problema dell’umanità» scriveva Bertrand Russell «è che gli stupidi sono sempre sicurissimi, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi»[5]. O, per dirla con Cartesio: «Il dubbio è l’inizio della saggezza».
Come diceva il celebre ed eccentrico fisico americano Richard P. Feynman, premio Nobel nel 1965, ammettere di non sapere «ci dà modo di variare, di riflettere, di scoprire cose nuove e di avanzare nella conoscenza di noi stessi». E poi aggiungeva che se ci guardiamo indietro «si ha l’impressione che i periodi peggiori della nostra storia siano quelli in cui era più forte la presenza di persone che credevano in qualcosa con fede cieca e dogmatismo assoluto, prendendosi tanto sul serio da pretendere che il mondo intero la pensasse come loro. E poi facevano cose espressamente in contrasto con i loro stessi principi al fine di dimostrare la verità della propria dottrina[6]».
Certo, non è facile coltivare i dubbi.
La certezza è piacevole, ci rassicura. Il dubbio crea disagio e il nostro cervello non tollera l’ambiguità, vuole risposte chiare. Meglio, poi, se queste risposte combaciano con ciò a cui vogliamo credere. Quando però cerchiamo di capire qualcosa, di prendere una decisione o di valutare l’attendibilità di una notizia affidandoci alle nostre certezze, alle nostre credenze, rischiamo di sbagliare.
Pensare come scienziati significa sì coltivare dubbi, ma anche andare alla ricerca di prove che possano dimostrare (o confutare) ciò che pensiamo. E per prova non va intesa la “sensazione” che qualcosa sia vero o sia giusto, ma solo i fatti verificabili.
Liberi dubitanti
Nelle pagine che seguono capiremo meglio come funziona la scienza e dal suo metodo ricaveremo preziosi strumenti che ci permetteranno di superare la nostra tendenza a subire passivamente le informazioni. Ciascuno di noi, infatti, è una parte fondamentale dell’ecosistema informativo. Ogni volta che accettiamo in maniera passiva le informazioni condividendo un post, un’immagine, un video, senza prima avere verificato, contribuiamo ad aumentare il rumore e la confusione. L’ecosistema è ora così inquinato che dobbiamo assumerci la responsabilità di controllare in maniera indipendente ciò che vediamo online.
Quando dobbiamo prestare più attenzione? Quando le nostre capacità di analisi critica diminuiscono, ovvero quando ci troviamo di fronte a qualcosa che scatena le nostre emozioni, sia quelle positive che ci esaltano, sia quelle negative che ci fanno arrabbiare, ci indignano o ci spaventano.
Se siete troppo arrabbiati o anche troppo compiaciuti per il contenuto di un post, di un video o di un articolo (nel caso in cui confermino il vostro punto di vista), controllate di nuovo. Occorre cioè assumere un atteggiamento di “scetticismo emotivo”. Se, cioè, diventiamo consapevoli del fatto che le emozioni sono spesso usate come grimaldello per la manipolazione psicologica, quando ci accorgiamo che qualcosa che leggiamo, sentiamo o vediamo accende in noi un’emozione di qualche tipo (paura, rabbia, ripulsa, entusiasmo...) dovremmo abituarci a sentire un campanellino d’allarme. «Aspetta un attimo,» dovremmo chiederci «sarà davvero così?»
Più che investire su progetti di fact-checking o media literacy, come proposto da alcuni, è quindi forse più utile incoraggiare sempre più una mentalità critica nelle persone e, in particolare, nei giovani. Imparare a dubitare e maturare una forma di pensiero critico e antidogmatico è, o dovrebbe essere, l’obiettivo finale della formazione scolastica attraverso il concorso di tutte le discipline. Al di là dei singoli insegnamenti, ogni corso di studi non dovrebbe perdere di vista il processo sottostante, l’abito mentale, come lo chiamava il pedagogista statunitense John Dewey, che rappresenta il prodotto più importante della formazione scolastica. Invece, molto spesso, questo non succede.
Spesso si insegnano le scienze, la fisica, la chimica, la biologia, per esempio, ma si dà poco spazio al metodo della scienza, alla sua etica, alla sua filosofia e alla sua cultura. Ma le nozioni, le conoscenze, finiscono presto o tardi per essere dimenticate: se si impara come funziona il metodo scientifico, se se ne indossa l’abito mentale, questo diventa permanente, uno strumento che influenzerà stabilmente il modo di pensare e di affrontare la realtà, tornando utile nel corso di tutta la vita e contribuendo al radicarsi dello spirito democratico.
Sviluppare abiti mentali di natura critica, infatti, è qualcosa che va a braccetto con l’atteggiamento scientifico, componente imprescindibile proprio dello spirito democratico. «Una scuola che forma all’atteggiamento critico è una scuola che forma all’atteggiamento democratico» dice il pedagogista Massimo Baldacci dell’Università Carlo Bo di Urbino. «Formare allo spirito critico e formare allo spirito democratico devono essere facce della medesima medaglia: una scuola che sia una comunità democratica e una comunità di liberi dubitanti mi pare realmente la buona scuola»[7]. Cerchiamo dunque tutti di diventare liberi dubitanti, anche chi la scuola l’ha lasciata da un pezzo. Stando però attenti a non trasformarci in dubitanti selettivi, come sono quelli che non si fidano assolutamente di nulla e vedono complotti ovunque, ma solo se confermano i loro pregiudizi sul mondo. Costoro si convincono di essere gli unici in grado di riconoscere le bugie e di avere aperto gli occhi sulla realtà, mentre tutti gli altri sono pecoroni. Ma credere che tutti mentano, siano ciechi o acquiescenti al potere non significa essere liberi dubitanti, è solo un’altra forma di creduloneria.
Bisogna imparare a ragionare con la propria testa e a mettere in discussione l’autorità, ovviamente, ma bisogna farlo sulla base di fatti e prove, e non solo per dare libero sfogo alle nostre passioni, ideologie e convinzioni personali. Se non impariamo a farlo, se non capiamo cioè come costruire una critica fattuale e costruttiva, anziché considerare le persone al potere come al servizio dei cittadini, ci ritroveremo a trasformarci in creta plasmata a proprio piacimento dalle mani di chi comanda.
Non si tratta di credere a tutto o dubitare di tutto. La credenza, senza motivazioni fondate, non ci aiuta a capire la realtà. Allo stesso modo il rifiuto pregiudiziale di un’affermazione non ci aiuta a capire la differenza tra qualcosa che potrebbe essere vero o falso e qualcosa che, semplicemente, vorremmo fosse vero (o falso). Scientia potentia est, “sapere è potere”, è un aforisma attribuito a Francis Bacon (Francesco Bacone) e Thomas Hobbes, e ribadisce ciò che oggi appare ovvio: chi possiede la conoscenza possiede il potere, può cioè ottenere e fare ciò che desidera, a differenza di chi confonde il sapere con la fantasia o le illusioni, perché prende decisioni e compie scelte sulla base dei fatti reali; può individuare e superare gli ostacoli, prevedere i possibili esiti e avere quindi più possibilità di successo.
Ma sapere è importante non solo per ciò che possiamo fare con ciò che sappiamo. È importante, più semplicemente, perché ci permette di capire di più e meglio, e questa è già una ricompensa in sé. Come diceva Albert Einstein: «Esiste una passione per capire le cose così come esiste una passione per la musica»[8].
Coltiviamo dunque questa passione per il sapere e per la comprensione e rendiamola più forte con l’arte del dubbio che nasce da una mentalità scientifica. Perché, come spiegava l’astronomo Carl Sagan nel suo ultimo libro, diventato il suo testamento filosofico[9], in un mondo infestato dai demoni dell’oscurantismo, del pregiudizio e della disinformazione, conseguenza inevitabile della nostra umanità, imparare e insegnare ai nostri figli il metodo scientifico potrebbe essere tutto ciò che ci separa dal buio che ci circonda.
Note
1) P. C. Wason, On The Failure to Eliminate Hypotheses in a Conceptual Task, «Quarterly Journal of Experimental Psychology», 1960, 12(3), pp. 129-140.
2) Ho detto che è difficile che uno scienziato sia vittima del bias di conferma, ma non è impossibile. Anche gli scienziati sono esseri umani e, dunque, l’errore è sempre possibile. Ma, certamente, capita più di rado rispetto ad altri esseri umani.
3) V. Crupi, Cognizione, conoscenza e comunicazione della scienza, in V. Guarnieri (a cura di), Picturing the Communication of Science, 2019, pp. 47-60.
4) Neil deGrasse Tyson Teaches Scientific Thinking and Communication, masterclass.com, 2020.
5) B. Russell, Mortals and Others: Bertrand Russell’s American Essays, 1931-1935, vol. 2, Routledge 1996, p. 28.
6) P. Feynman, Il senso delle cose, Adelphi 1999.
7) C. Crosato, La buona scuola nasce dal pensiero critico, «Educazione&Scuola», 21 aprile 2019.
8) Einstein, Pensieri di un uomo curioso, Mondadori 1999, p. 134.
9) C. Sagan, Il mondo infestato dai demoni, Baldini & Castoldi 1997.