Perché fidarsi della scienza?
di Naomi Oreskes
(Bollati Boringhieri, 2021)
Recensione di Vincenzo Crupi
Mi è capitato più di una volta di vedere circolare sui social network una divertente “storia in pillole” della fisica che suona così: «Aristotele ha detto un bel po’ di cose sbagliate. Galileo e Newton le hanno sistemate. Poi però Einstein ha messo di nuovo tutto sottosopra. Adesso più o meno siamo a posto, restano da capire solo la roba molto piccola, la roba molto grande, la roba molto calda, la roba molto fredda, la roba molto veloce, la roba molto pesante, la roba oscura, la turbolenza e il concetto di tempo». Ecco, sappiate che esiste una storiella simile a questa anche riguardo alla filosofia della scienza contemporanea, che si può formulare così: “All’inizio c’erano i tempi bui del 'positivismo’. A un certo punto è arrivato Popper e ha spazzato via il positivismo. Poi però Thomas Kuhn ha dimostrato che anche Popper si era sbagliato. Paul Feyerabend ha tratto le conclusioni e aggiunto le battute divertenti. A quel punto si è capito che il 'metodo scientifico’ era un mito, e alla fine tutti si sono iscritti a sociologia”. Ho esagerato un po’, ma non troppo. Di fatto, anche se in una forma più elaborata, si tratta di una ricostruzione abbastanza diffusa dell’analisi filosofica della scienza nel Novecento e dei suoi esiti.
Il nuovo libro di Naomi Oreskes (Perché fidarsi della scienza? Bollati Boringhieri) ha il pregio di parlare della filosofia della scienza contemporanea evitando molti cliché. Per fare un solo esempio, Oreskes sottolinea l’importanza della figura di Pierre Duhem (1861-1916). Quasi nessuno conosce Duhem al di fuori della cerchia degli specialisti. Eppure, il suo contributo per la comprensione della struttura logica della scienza non è per nulla secondario rispetto alle “superstar” della materia come Popper e Kuhn. Su un punto cruciale, però, la discussione di Oreskes non si discosta dalla ricostruzione dominante. Oreskes sostiene che “non esiste un (unico) metodo scientifico identificabile” (p. 44). Ma è davvero così?
Duhem aveva intuito un fatto logico fondamentale, che poi altri (fra cui Kuhn e Feyerabend) hanno ampiamente elaborato. Il fatto è questo: un’ipotesi o teoria può sempre essere deliberatamente ritoccata e puntellata in modo da “spiegare” i dati disponibili. Un esempio estremo è rappresentato dalle teorie del complotto. D’altra parte - e questo è importante - operazioni di accomodamento ad hoc di questo tipo (in forma più o meno sofisticata) sono ben presenti anche all’interno delle scienze. La storia della scienza ne dà ampia documentazione. Tutto vero. Eppure, per parafrasare la famosa citazione apocrifa di Mark Twain, la notizia della morte del “Metodo scientifico” è stata alquanto esagerata. Ecco quindi, in breve, in che cosa consistono i principi fondamentali del Metodo (l’uso della maiuscola è provocatorio e intenzionale). Ci sono due modi in cui un’ipotesi o teoria scientifica si dimostra convincente e prevale. Primo, l’ipotesi o teoria sarà confermata o sostenuta da quei fatti o fenomeni che essa spiega senza essere stata costruita appositamente per “spiegarli”. E secondo, il sostegno empirico dell’ipotesi o teoria in questione dovrà dimostrarsi più ampio di quello ricevuto da ipotesi o teorie alternative plausibili.
Questi principi astratti si concretizzano nelle scienze in molti modi diversi, ma senza perdere la loro rilevanza. Prendiamo un esempio discusso anche da Oreskes, la sperimentazione clinica in medicina. Perché consideriamo importanti le tecniche di campionamento, la randomizzazione e la somministrazione “in doppio cieco”? Perché nel caso che un effetto venga rilevato (una differenza fra gruppo sperimentale e controlli) non potrà essere ragionevolmente ricondotto a fattori interferenti (cioè a ipotesi alternative), e rappresenterà così una forte conferma dell’ipotesi causale di efficacia del trattamento. Uno studio osservativo (non sperimentale) mira a soddisfare esattamente gli stessi principi generali con metodi (plurale minuscolo) parzialmente diversi. Inoltre, lo stesso Metodo rende conto di molti altri casi solo apparentemente incomparabili. Per esempio, Feyerabend (e poi papa Ratzinger) si sbagliavano: la scelta copernicana di Galileo aveva fin dall’inizio una buona base razionale; migliore, tutto considerato, dell’opposizione di Bellarmino. In particolare, il fatto che la Terra non si trovi mai fra i pianeti interni (Mercurio e Venere) e il Sole era una conferma del sistema copernicano e non di quello tolemaico – non perché “falsificasse” quest’ultimo, ma perché solo i copernicani spiegavano quel fenomeno senza ipotesi ad hoc. Questo modo di intendere il Metodo potrà apparire vago proprio a causa della sua generalità, ma non lo è. Con un po’ di logica e di probabilità, infatti, può essere approfondito e ricevere una formulazione abbastanza precisa.
Per quelli che sono disposti a difendere il Metodo (non moltissimi, devo ammetterlo, anche in ambienti intellettuali insospettabili) c’è comunque una buona notizia, soprattutto se — come me — si fidano delle scienze (senza farne un culto) e ammirano il lavoro di Naomi Oreskes. La buona notizia è che i principali contenuti costruttivi di questo libro (e ce ne sono molti) non richiedono davvero che si neghi l’esistenza del Metodo. Anzi. Facciamo qualche esempio. Chi ha una formazione specialistica esprime talvolta una visione restrittiva dell’attività scientifica, sbilanciata verso quelle procedure che gli sono più familiari. Così, spiega Oreskes, “in alcune situazioni, i ricercatori hanno privilegiato un particolare metodo ignorando o sminuendo dati ottenuti in altri modi; dati che invece, se presi in considerazione, avrebbero potuto indurli a cambiare opinione” (p. 139). Oreskes lo chiama, con una formula efficace, “feticismo metodologico”, e discute proprio l’esempio degli studi randomizzati in doppio cieco: trattandoli come un feticcio, alcuni ritengono erroneamente che altre forme di raccolta dati (come uno studio osservativo ben fatto) non possano in alcun modo produrre evidenza scientifica utile. Un’altra forma notevole di feticismo affligge talvolta i fisici quando dicono o presuppongono che non possa esserci scienza in assenza di esperimenti, magari con l’idea di screditare in questo modo l’attività di ricerca di intere discipline come la climatologia, per non parlare delle scienze sociali. A mio parere, Oreskes ha perfettamente ragione a criticare atteggiamenti di questo tipo. Per dirne una, la scienza empirica più antica e gloriosa della storia umana è l’astronomia, nella quale, come è ovvio, non ci è possibile avere un controllo attivo sulle condizioni iniziali dei sistemi che vogliamo osservare e misurare. Ma l’errore del feticista metodologico, potremmo aggiungere, non è credere che il Metodo esista. Il suo errore è quello di fraintendere il Metodo, come uno che dicesse che nulla è musica, se non la Nona di Beethoven. I principi logici generali del Metodo si presentano in forme diverse in ambiti diversi, tenendo conto delle opportunità offerte e delle limitazioni imposte dai vari oggetti di studio che ci interessano, diversissimi fra loro. È sensato quindi dire che la sperimentazione controllata è una forma paradigmatica del Metodo, perché ci permette di realizzare al meglio alcuni suoi aspetti (soprattutto l’esclusione di interpretazioni alternative degli esiti della misurazione), ma non che sia l’unica.
Più che l’inesistenza del Metodo, il lavoro di Oreskes dimostra in modo convincente che il Metodo non basta. Anche se identificare la logica generale dell’impresa scientifica resta possibile e rilevante dal punto di vista filosofico e culturale, ciò non garantisce di per sé né che le scienze continuino a fiorire né che i loro rapporti con la società e con la fiducia dei cittadini siano equilibrati. È qui che si trovano alcune delle osservazioni più importanti del libro, frutto del percorso intellettuale dell’autrice nell’arco di molti anni. I principi metodologici devono infatti essere sostenuti e preservati da un’adeguata struttura sociale e istituzionale che li renda praticabili ed efficaci. In questo senso, è prezioso il contributo dell’agnotologia, lo studio dell’ignoranza e dell’incertezza indotte deliberatamente attraverso la diffusione di informazioni inaccurate, parziali o fuorvianti. Una materia di cui Oreskes è stata pioniera, con il suo lavoro ormai classico (con Erik Conway) Mercanti di dubbi: come un manipolo di scienziati ha nascosto la verità, dal fumo al riscaldamento globale, pubblicato originariamente nel 2010 e ora anch’esso disponibile in italiano (Edizioni Ambiente, 2019). Il punto qui è che nella complessità delle società contemporanee i conflitti di interesse fra industria e ricerca possono produrre una forma degenere di scetticismo. Uno scetticismo ipocrita e strumentale, ma a suo modo sofisticato e quindi insidioso perché si serve opportunisticamente delle stesse procedure e forme comunicative “per sminuire e screditare la scienza, invece che per correggerla e rafforzarla, e per confondere il pubblico invece di informarlo” (p. 63). Si tratta evidentemente di una questione scottante, che richiede vigilanza culturale e istituzionale anche nei tempi dell’attuale crisi pandemica.
Ma l’idea forse più originale è che un contributo costruttivo alla razionalità della scienza sia venuto “da una direzione che la maggior parte degli scienziati non si sarebbe mai aspettata: il femminismo” (p. 44). Nonostante lo scetticismo sul Metodo, infatti, Oreskes riconosce senza esitazioni uno dei suoi corollari, cioè che una ipotesi o teoria deve appunto affermarsi attraverso il confronto critico con alternative rilevanti. La proliferazione delle alternative rilevanti non è però un automatismo. In molti casi, deve anzi essere promossa attivamente con la costituzione di comunità di ricerca “epistemicamente diversificate”. Il passaggio chiave dell’argomento di Oreskes è che “la diversità demografica [etnica, sociale, di genere] è un’approssimazione alla diversità di prospettive, o meglio, è un mezzo per raggiungere quel fine” (p. 146). Storicamente, questo aspetto si è già dimostrato decisivo per elaborazioni teoriche che riguardano più o meno direttamente il genere, la sessualità e l’interculturalità, all’incrocio fra biologia, medicina e scienze sociali. Riprendendo il lavoro di filosofe e sociologhe femministe come Sandra Harding ed Helen Longino, Oreskes difende la tesi generale che la diversità è una “forza epistemica” da mettere a frutto in tutte le istituzioni che elaborano e diffondono contenuti scientifici.
Perché fidarsi della scienza? di Naomi Oreskes è un libro molto bello e fortemente raccomandato a studiosi, professionisti e curiosi interessati alle scienze, al loro funzionamento e alle loro complesse interazioni con la società. La domanda che pone è letteralmente una delle più importanti per il nostro futuro, e la risposta che offre combina ottimismo e ragione: i motivi per fidarsi della scienza non mancano, ma è importante non darli per scontati.