Il lettore Fausto De Carlo sollecita il nostro parere sulla tradizione. Scrive di essersi trovato, in una recente discussione fra amici, in disaccordo con la maggioranza di essi, che ritenevano la tradizione in ogni caso e in quanto tale un valore da preservare, anzi da difendere. Anche quando essa comporti pratiche sgradite o sacrifici, quali mangiare cibi che non piacciono, trascorrere determinate giornate diversamente da come vorremmo, oppure quando richieda di digiunare senza alcuna necessità di dieta, di indossare vestiti o copricapi buffi e desueti o in generale di compiere rituali ormai destituiti di significato o legati a eventi remoti, spesso improbabili o discutibili, se non addirittura condannabili.
Naturalmente la tradizione non è solo questo. È anche l'incanto dello scintillio natalizio, il profumo e il calore di certi cenoni familiari, la sospensione magica nell'attesa di un evento che si rinnova, è il riaffiorare di suggestioni infantili; è un'occasione di socializzazione, di auspicato rinforzo di legami affettivi… È un insieme di riti che in qualche modo contribuiscono a definire la nostra identità di individui, ma anche di gruppi sociali; è soprattutto il conforto che deriva dal ribadito senso di appartenenza (a una famiglia, un clan, una minoranza, una nazione) che la tradizione elargisce a chi la rispetta.
Purtroppo accade che chi la rifiuta subisca, quasi inevitabilmente, la critica, più o meno benevola, il ricatto affettivo, se non addirittura l'aperta condanna e l'ostracismo. A questo punto occorre allora soffermarsi e riflettere. Se è vero, infatti, che il senso di appartenenza è indispensabile al costituirsi di una personalità ben fondata e sicura (non amano forse i bambini conoscere le storie della loro famiglia, non ricercano spesso i figli adottati i loro genitori naturali e gli emigrati le radici della loro stirpe?), è altrettanto vero purtroppo che esso si accompagna spesso, nel caso della tradizione, ad atteggiamenti discriminanti nei confronti di chi quella tradizione non possiede.
Perché si è comunque indulgenti anche con la più stupida delle nostre tradizioni, mentre si guarda facilmente a quelle altrui con sospetto, diffidenza o irrisione? Peggio ancora: perché, quanto più si è legati alla propria tradizione, tanto più si è aggressivi nei confronti delle altrui? Perché, ed è sotto gli occhi di tutti, la sua difesa diventa a volte l'alibi morale per legittimare soprusi e violenze nei confronti dei diversi?
Inoltre, importa aver presente che la definizione di identità, quando coincida troppo con l'appartenenza, rischia di appiattire le differenze individuali, e di fatto si traduce spesso in un uso strumentale dell'individuo. È allora che la tradizione può farsi addirittura pericolosa, quando gli elementi affettivi di cui è intessuta vengono utilizzati per veicolare una ideologia.
Basti pensare a certe tradizioni inventate ex novo, ma con pretese di nobilitanti ascendenze storiche (lugubri cerimonie naziste o più caserecci riti alle sorgenti del Po), le cui finalità sono tuttavia ben scoperte. Basti pensare all'ostentazione, anche visiva, della tradizione nei fondamentalismi di ogni colore, per i quali l'individuo è valutato soprattutto in base alla sua maggiore o minore aderenza a essa (e non vale la pena di distinguere qui tra barbe e treccine, zucchetti, palandrane o chador).
Sono casi estremi, naturalmente. E non devono toglierci il piacere di godere, se vogliamo, delle tradizioni che ci sono più care, delle piccole o grandi emozioni che esse possono offrirci. A patto di non abdicare mai all'uso del raziocinio. Cosa non sempre facile ma in particolare in questo caso, essendo la tradizione talmente inculcata in noi fin dalla nascita da obnubilare il giudizio critico nei suoi confronti, fino a renderci talvolta inabili a riconoscerla come tale. Una prova per tutte: l'incapacità di cogliere, persino da parte dei laici, tutta l'assurdità di tante pratiche e credenze della più pervasiva e condizionante delle nostre tradizioni, la religione cattolica.
Usare del raziocinio significa: non farsi schiavi della tradizione e non caricarla di valori inesistenti; essere consapevoli dell'uso strumentale che se ne può fare e diffidare di quelle che si celebrano in circoli ben definiti, operano sull'esclusione o convogliano idee di superiorità razziale, sessuale o religiosa; sapersi servire di quel gran grimaldello dell'intelligenza che è l'ironia, purtroppo sconosciuta ai tradizionalisti, per non dire dei fondamentalisti di ogni epoca e di ogni latitudine (un pizzico appena, che non dissolva l'emozione, ma demistifichi l'evento e lo riconduca al suo nucleo affettivo). Ma soprattutto saper fare dei distinguo senza falsi rispetti, per non finire ad esempio come certi italiani (istruiti) che ben ricordiamo, i quali difendevano in Somalia, ai tempi della cooperazione, il rito barbaro dell'infibulazione delle donne col bell'argomento che apparteneva alla tradizione e come tale andava accettato; …oppure come Aristotele, sì, proprio lui, il più celebrato dei filosofi, il quale nei suoi Problemata finisce coll'accreditare delle vere e proprie sciocchezze per troppa fiducia e troppo rispetto verso credenze tradizionali mai sottoposte a verifica (e poco giova supporre, come taluni commentatori fanno, che il libro sia stato scritto dai suoi epigoni).
E quando ci accorgessimo che nel mondo multietnico di oggi l'osservanza della tradizione costituisce un ostacolo alla comprensione e alla tolleranza fra gli uomini, lasciamola pure andare senza troppi rimpianti. L'essere umano è così complicato, così ricco, così sorprendentemente rinnovabile che vale ben la pena di badare alla sua sostanza, piuttosto che ai panni diversi di cui si ammanta. Non ci sarà neppure troppo difficile il farlo: dopotutto non diciamo, pur appoggiandoci a un detto tradizionale, con un'innegabile punta di sollievo "Natale con i tuoi, ma Pasqua con chi vuoi?".
Mariapiera Marenzana
Docente di lettere, Co-autrice
con A. Frova di Parola di Galileo (BUR, 1998)
Andrea Frova
Professore di Fisica Generale
Università di Roma "La Sapienza"