Ricevo da Ivano De Angelis il seguente quesito: "Ho sentito parlare di colori non spettrali come quelli che non sono contenuti nello spettro dell'iride. Come caso emblematico mi è stato citato il viola, ma non sono rimasto persuaso perché mi consta che, se con un prisma scindiamo la luce del sole nelle sue componenti, oppure guardiamo l'arcobaleno, i due colori estremi sono il rosso profondo e, appunto, il violetto. Può darmi dei chiarimenti in proposito?".
La sua perplessità nasce dal considerare sinonimi le parole "viola" e "violetto", come quasi tutti fanno nel comune parlare. Benché alla percezione visiva le due tinte possano effettivamente considerarsi parecchio simili, sul piano fisico esse sono delle entità assai diverse e non confondibili. Il violetto, come ben dice De Angelis, è la percezione a livello psichico della stimolazione prodotta nell'occhio da parte di un'onda elettromagnetica caratterizzata dalla lunghezza d'onda più corta nell'ambito della radiazione visibile, ossia attorno ai 400 nanometri. Più in là c'è l'ultravioletto, che non vediamo ma può avere altri effetti sul nostro organismo. Sul versante delle maggiori lunghezze d'onda della radiazione luminosa, l'estremo è segnato dal rosso - che diventa infrarosso, non visibile, verso gli 800 nanometri - e in mezzo si colloca una gradazione infinita di tinte che passano attraverso tutte le tonalità di blu, verde, giallo e arancione (tra il violetto e il blu Newton volle vederci l'indaco, in modo che le famiglie fossero sette, numero perfetto).
Che cos'è invece il viola? Il viola è la nostra percezione visiva della mescolanza di rosso e blu. Esiste perciò una vasta gamma di viola, a seconda delle relative quantità dei due ingredienti, oltre che delle eventuali aggiunte di bianco o di nero: i tanti bordeaux, le varie porpore, il magenta, il lillà, eccetera, sono tutti componenti della famiglia dei viola. In quanto mescolanza, nessun viola può essere visto nell'ambito dell'iride, che è una scomposizione della luce bianca nelle sue componenti cromatiche "pure". Un'altra famiglia di colori non spettrali è quella degli oliva, non ottenibili senza ricorrere alla mescolanza di più componenti, mentre i marroni, contrariamente a quello che potrebbe sembrare, hanno carattere spettrale, in quanto si tratta in pratica di gialli assai poco luminosi, ottenibili l'aggiunta di nero.
Rimane da chiarire cosa avviene sul piano percettivo perché un dato viola e il violetto possano apparire così simili, da essere spesso identificati, come di fatto avviene nella stampa e nella grafica. Occorre ricordare che il colore non è una proprietà della luce stessa, ma corrisponde alla sensazione visiva che viene evocata a livello cerebrale quando nella retina - e precisamente nei suoi fotosensori, i coni - si producono determinate reazioni fotochimiche. I coni sono di tre tipi: ognuno risponde alla radiazione che cade in un certo intervallo di lunghezze d'onda attorno a valori della stessa dove la sensibilità è massima. Precisamente, nei tre casi: nel rosso, nel verde e nel blu (per l'esattezza blu tendente al violetto). Per questo motivo, i tre colori vengono detti primari della visione: è noto infatti - si pensi alla televisione a colori - che una opportuna mescolanza dei tre fornisce tutte le sensazioni di colore possibili.
Una data luce, sia essa spettrale pura o una mescolanza di componenti, induce una stimolazione fotochimica dei tre tipi di coni, che il nervo ottico si incarica di tradurre in segnali elettrici da convogliare al cervello. Ebbene, ogni particolare sensazione di colore corrisponde a una terna di segnali - diciamo (R, V, B) - determinati dai diversi gradi di stimolazione dei tre tipi di coni. Se mi è permesso coniare dei termini curiosi, i tre segnali danno una misura del grado di "rossezza", "verdezza" e "bluezza" della tinta percepita. Si parla di tristimolo, o codice di identificazione della particolare onda luminosa ricevuta. Se uno dei coni non funziona bene o addirittura manca, si ha il difetto noto come daltonismo, corrispondente a sensazioni di tinta anomale, incapacità di identificare determinati colori e confusione degli stessi (ad esempio il rosso e il verde nel caso più frequente). La somma R+V+B è pari all'intensità totale della luce ricevuta, e viene convenzionalmente normalizzata in modo che risulti sempre eguale all'unità.
Quanto al violetto, esso riesce a stimolare soltanto i coni blu-violetti, quindi la terna di segnali inviati al cervello è del tipo (0,0,1), che è come dire che non viene alcuna informazione dai coni centrati nel rosso e da quelli centrati nel verde. Il viola invece produce un tristimolo del tipo (R,0,B), con R+B=1, ossia soltanto il cono centrale, cioè quello centrato nel verde, rimane inattivo. A seconda dei valori del rapporto R/B si hanno le varie mescolanze possibili di rosso e blu, vale a dire i tanti viola possibili. Nella porpora, ad esempio, R supera di molto B, mentre nel viola bluastro di certi fiori di montagna è vero il contrario. Ebbene, quando il valore del rapporto R/B è circa 1, si ha la tinta che appunto corrisponde alla nostra idea di viola propriamente detto e avviene che la sensazione di colore evocata a livello cerebrale sia molto simile, benché non identica, al tristimolo (0,0,1) proprio del violetto spettrale. Non sono in grado di spiegare la ragione di questo fatto, perché i meccanismi della visione a colori sono più complessi di come, per semplificare, li ho descritti, e in taluni aspetti sottili non ancora del tutto capiti.
Morale: anche qui, come sempre, attenzione agli inganni dei sensi; peggio ancora, attenzione stavolta persino agli inganni delle parole!
Andrea Frova
Professore di Fisica Generale
Università di Roma "La Sapienza"