La vicenda comincia nel 1912 ma, per valutarne appieno la portata, occorre fare il punto sulla controversia scientifica che in quel tempo era in pieno svolgimento.
Nel corso del XIX secolo la teoria evoluzionistica formulata da Charles Darwin nel 1859 era stata confermata da numerose forme fossili umanoidi scoperte un po' dappertutto nel mondo. I reperti più significativi erano state rinvenuti nella Valle di Neandertal in Germania, nella grotta di Cro-Magnon in Francia e nell'isola di Giava: ma la comunità scientifica non era riuscita a mettersi d'accordo sul cammino percorso dall'uomo preistorico. Era stato il corpo a evolversi per primo, seguito più tardi dalla crescita del cervello? Oppure era stato lo sviluppo delle capacità intellettuali a spingere verso la nascita dell'Homo Sapiens? Come dire: aveva fatto la sua apparizione prima un corpo di uomo con cervello di scimmia, oppure un corpo ancora scimmiesco ma con un cervello già tendenzialmente umano? Gli scienziati preferivano la seconda ipotesi, che privilegiava l'albeggiare dell'intelligenza come motore dell'evoluzione, ma disgraziatamente sia l'Uomo di Neandertal che quello di Giava sembravano puntare verso la soluzione opposta.
Al dibattito - "ideologico" prima ancora che scientifico - partecipavano anche i paleontologi inglesi, ma non senza un certo imbarazzo nazionalistico, a causa dell'assenza di fossili scoperti nelle isole britanniche a fronte dei reperti che stavano affiorando in tutto il resto del mondo. Era mai possibile che gli antenati della razza umana non fossero vissuti nel paese (in quell'epoca) più potente del mondo?
Eoanthropus dawsoni
È in questo quadro complessivo a carattere scientifico-sciovinistico che nella primavera del 1912 il professor Arthur Smith Woodward direttore del dipartimento di geologia del British Museum riceve la visita di Charles Dawson, avvocato e paleontologo dilettante. Dawson racconta come nel 1908 avesse notato alcuni strani sassi in una cava di ghiaia nei pressi di Piltdown Common (Sussex), che lo avevano indotto a iniziare scavi. A quattro anni di distanza ecco quali erano stati i risultati: frammenti di un cranio fossile di tipo chiaramente umanoide e una mascella scimmiesca ma con caratteristiche del tutto anomale. E questo perché i due molari mostravano una superficie sorprendentemente piatta: cioè a dire proprio quale avrebbe potuto essere prodotta soltanto da una masticazione laterale umana, non ostacolata dai grossi canini tipici dei grandi primati.
La scoperta è così interessante che subito gli scavi vengono ripresi: e ben presto vengono alla luce nuovi fossili - questa volta di animali - che consentono di collocare l'Uomo di Piltdown nel Pleistocene cioè circa mezzo milione di anni fa.
Il 18 dicembre 1912 lo strabiliante ritrovamento è comunicato ufficialmente alla Società geologica e Charles Dawson viene onorato con l'attribuzione del nome di Eoanthropus dawsoni all'ominide fossile da lui scoperto.
Per la paleontologia inglese, sin'allora ironicamente accusata di essere soltanto una "collezionista di sassi", è un vero trionfo: non solo perché l'Uomo di Piltdown è probabilmente il più antico progenitore della razza umana, ma anche - e soprattutto - perché sembra fornire finalmente sia il tanto atteso "anello mancante" fra l'uomo e la scimmia, sia la prima conferma della tesi relativa a uno sviluppo prioritario dell'intelligenza nel quadro dell'evoluzione verso l'Homo Sapiens.
Per la verità nella ricostruzione dell'Uomo di Piltdown c'è un buco nero: alla mascella manca il condilo, che connette la mandibola al cranio. Ma è chiaro - e solo pochi inguaribili scettici osano dubitarne - che i due reperti appartengono allo stesso individuo.
Tanto più che il Sussex continua a fornire altri fossili provvidenziali. Servirebbe un dente per identificare meglio la mascella: ed ecco che salta fuori proprio un canino che risponde perfettamente a questa esigenza. Servirebbero altri fossili dello stesso genere: ed ecco che nel 1916 Dawson scopre addirittura un secondo Eoanthropus a pochi chilometri dalla famosa cava di ghiaia, in un sito che viene battezzato Piltdown II. A questo punto il filone si esaurisce - guarda caso in coincidenza con la morte di Dawson - ma ormai l'Uomo di Piltdown è stato ammesso con tutti gli onori nel Pantheon dei nostri progenitori preistorici.
Nel corso degli anni Trenta un'ondata di nuove scoperte paleontologiche in varie parti del mondo - come quelle del Sinanthropus Pekinensis o Uomo di Pechino e dell'Australopithecus africanus - sopraggiungono a contraddire l'ipotesi di una priorità dello sviluppo cerebrale rispetto a quello corporeo: ma - a dispetto dei dubbi e delle perplessità che cominciano a circolare negli ambienti scientifici - è solo all'inizio degli anni Cinquanta che la frode di Piltdown viene finalmente alle luce.
Messo in sospetto dalla scoperta casuale di bicromato di potassio sul provvidenziale canino, il dottor Kenneth Oakley del British Museum decide infatti di sottoporre i resti dell'Uomo di Piltdown a un esame chimico appena scoperto che misura la quantità di fluorina assorbita dal terreno nel corso dei secoli. I risultati sono sorprendenti.
Tanto per cominciare l'Uomo di Piltdown anziché vecchio di 500 mila anni non può averne più di 50 mila: ma soprattutto cranio e mandibola appartengono a due epoche totalmente diverse (e più tardi, grazie all'introduzione del test al carbonio radioattivo si accerterà che il cranio aveva solo 600 anni e la mandibola addirittura appena 500).
Il sospetto che possa trattarsi di una vera e propria frode comincia però a farsi avanti solo ancora un po' più tardi: e precisamente quando Oakley incontra a una cena un antropologo dell'università di Oxford, il dottor J.S. Weiner che richiama la sua attenzione su quegli strani molari, così incongrui in una mascella scimmiesca.
Il seme è gettato. Oakley e Weiner ottengono dal Museo l'autorizzazione a sottoporre finalmente i resti dell'Uomo di Piltdown a un completo esame anatomico, fisico e chimico.
La verità viene a galla
E la verità viene a galla. Il cranio è quello di un uomo moderno sottoposto a un trattamento chimico per farlo apparire preistorico; mentre la mandibola appartiene a una scimmia (e più precisamente a un orangutan) con i molari limitati ad arte per fingerne l'usura in seguito a una masticazione di tipo umano. Inoltre il condilo è stato spezzato di proposito per impedire di controllare l'articolazione con il cranio. E i reperti provenienti da Piltdown II non sono altro che frammenti dello stesso scheletro usato per la frode di Piltdown I.
Per farla breve, l'Eoanthropus dawsoni è il caso più clamoroso di frode scientifica in tutta la storia della paleontologia.
Chi e perché l'ha fatto?
Ma la storia non finisce qui. Nello studio della letteratura "gialla", i critici anglosassoni usano infatti distinguere fra quattro filoni principali: il Whatdunnit, l'Howdunnit, il Whydunnit e il Whodunnit. Vale dire: "Cosa è accaduto?", "Come è accaduto?", "Perché è accaduto?" e "Chi è il colpevole?"
Nel caso della vicenda di Piltdown il what e l'how sono ormai chiari. Restano invece ancora avvolti nella nebbia sia il why che il who, perché subito comincia a farsi avanti il dubbio che Charles Dawson non sia il vero - o comunque non sia l'unico - autore della frode: e il mistero continua a tutt'oggi, malgrado le investigazioni serrate che nel corso di mezzo secolo hanno finito per fare ipotizzare più di venti "sospetti" (alcuni dei quali veramente clamorosi) cui si è tentato di attribuire motivazioni spesso del tutto diverse. Ed è a questo aspetto affascinante della Piltdown Hoax che dedicheremo la prossima puntata.
Sergio De Santis, giornalista e storico, è direttore della collana "StoricaMente" della casa editrice Avverbi.