Magari ci immaginiamo il mondo delle riviste scientifiche come un ambiente governato dal rigore scientifico e dal più corretto fair-play.
In realtà, complice il fatto che il giro d’affari è monumentale, (le grandi case editrici come Elsevier hanno un fatturato che si misura in miliardi di dollari l’anno, e quelle più piccole sono numerosissime), anche qui si trovano imbrogli, guerre commerciali e, ogni tanto, episodi poco edificanti.
Sul numero 17 di Query abbiamo scritto del modello Open Access delle riviste scientifiche: si paga per la pubblicazione invece di pagare per l’abbonamento, e i paper sono resi liberamente consultabili online. L’idea è che in questo modo gli istituti di ricerca spendano per pubblicare i risultati delle loro ricerche più o meno la stessa cifra che mettevano negli abbonamenti, mentre l’accesso alla letteratura diventa molto più semplice e democratico, avvantaggiando le comunità con meno disponibilità, come per esempio i paesi in via di sviluppo.
Ma abbiamo anche visto subito come qualcuno ha cercato di approfittarsene: sono nate decine di riviste scientifiche che assillano i ricercatori invitandoli a pubblicare sulle loro pagine, a prezzi stracciati, offrendo un servizio di peer review ben al di sotto degli standard correnti, se non completamente fasullo. Il biologo e giornalista scientifico John Bohannon, se ricordate, aveva denunciato l’imbroglio inviando a molte di queste riviste un paper pieno di evidenti errori, che molte avevano accettato per la pubblicazione.
Jeffrey Beall, bibliotecario e professore associato all’Università del Colorado a Denver, è molto critico nei confronti del modello Open Access. Sostiene che i suoi vantaggi sono largamente annullati dalle possibilità di frode e distorsione, e dalla vasta quantità di riviste comunque di qualità inferiore, rispetto a quelle tradizionali, in termini di peer review e attenzione alla conservazione a lungo termine delle pubblicazioni. Per denunciare le riviste e gli editori che definisce “predatori”, Beall curava sul suo blog scholarlyoa.com fino a non molto tempo fa una “lista nera” molto discussa.
Questa era la situazione all’epoca del numero 17 di Query. Tre anni dopo, le riviste farlocche sono sempre lì (chiunque faccia un mestiere scientifico riceve diverse mail di invito a pubblicare alla settimana), mentre qualcosa è cambiato nel campo di chi prova a combatterle.
Intanto, sono comparse almeno altre due liste importanti simili a quella di Beall.
La prima funziona al contrario rispetto a quella originale: è una “whitelist” di editori e riviste considerati onorabili e di qualità. È derivata dalla venerabile Directory of Open Access Journals (doaj.org, fondata nel 2003); in risposta alla proliferazione delle riviste scadenti, nel 2014 il curatore Lars Bjørnshauge e i suoi collaboratori volontari hanno sostanzialmente azzerato la loro lista, chiedendo alle riviste di fare di nuovo domanda per l’inclusione, questa volta rispondendo a un complesso questionario sulle procedure di peer review, sui piani per la conservazione a lungo termine eccetera. La critica immediata è che per l’inclusione nella lista ci si deve fidare delle affermazioni degli editori, e non c’è un modo semplice per garantire che poi terranno fede a quanto dichiarato, ma intanto è un tentativo.
La seconda lista sono in realtà due, una whitelist e una blacklist gestite da Cabells Scholarly Analytics, un’azienda che si occupa anche di servizi redazionali per l’editoria scientifica. La differenza è che si tratta di un servizio commerciale a pagamento; lanciato solo il 15 giugno di quest’anno, è presto per dire se avrà successo.
Infine, Beall è, almeno per il momento, fuori dal gioco.
Senza alcun preavviso, a gennaio di quest’anno ha rimosso dal web la sua lista nera, senza alcun commento; non ha mai detto chiaramente perché, ma ha lasciato capire di aver ricevuto pressioni dalla sua università (che però ha negato il coinvolgimento nella faccenda). Qualche tempo prima della chiusura, era comparso un sito web dal nome quasi identico a quello della lista (scholarlyoa.net), dedicato apparentemente a un’analisi critica del lavoro di Beall. Il sito è curato da un gruppo anonimo chiamato “Friends of Open Access”, che sarebbe formato da bibliotecari di tutto il mondo, a favore della libertà intellettuale e contro la censura. In effetti sono in molti a criticare l’approccio di Beall, principalmente perché i criteri per l’inclusione nella lista erano sostanzialmente arbitrari.
Il contenuto del sito, però, si discosta dall’immagine di pacata erudizione che si potrebbe essere tentati di associare a una fratellanza di bibliotecari.
Nelle pagine del sito, spesso con sintassi e ortografia lontane dalla perfezione, Beall è definito «un terrorista accademico», alcolista e tossicodipendente, un nemico del movimento Open Access che «soffre di un problema psichiatrico non diagnosticato». Secondo loro, «Jeffrey Beall sarà processato negli Stati Uniti per frode, estorsione, corruzione e riciclaggio di denaro». La lista di Beall era magari criticabile, ma qui mancano solo gli atti osceni in luogo pubblico e il furto di bestiame.
Insomma, anche quello dei bibliotecari scientifici (in realtà, più probabilmente, quello degli editori scientifici di pochi scrupoli) è un bell’ambientino.
In realtà, complice il fatto che il giro d’affari è monumentale, (le grandi case editrici come Elsevier hanno un fatturato che si misura in miliardi di dollari l’anno, e quelle più piccole sono numerosissime), anche qui si trovano imbrogli, guerre commerciali e, ogni tanto, episodi poco edificanti.
Sul numero 17 di Query abbiamo scritto del modello Open Access delle riviste scientifiche: si paga per la pubblicazione invece di pagare per l’abbonamento, e i paper sono resi liberamente consultabili online. L’idea è che in questo modo gli istituti di ricerca spendano per pubblicare i risultati delle loro ricerche più o meno la stessa cifra che mettevano negli abbonamenti, mentre l’accesso alla letteratura diventa molto più semplice e democratico, avvantaggiando le comunità con meno disponibilità, come per esempio i paesi in via di sviluppo.
Ma abbiamo anche visto subito come qualcuno ha cercato di approfittarsene: sono nate decine di riviste scientifiche che assillano i ricercatori invitandoli a pubblicare sulle loro pagine, a prezzi stracciati, offrendo un servizio di peer review ben al di sotto degli standard correnti, se non completamente fasullo. Il biologo e giornalista scientifico John Bohannon, se ricordate, aveva denunciato l’imbroglio inviando a molte di queste riviste un paper pieno di evidenti errori, che molte avevano accettato per la pubblicazione.
Jeffrey Beall, bibliotecario e professore associato all’Università del Colorado a Denver, è molto critico nei confronti del modello Open Access. Sostiene che i suoi vantaggi sono largamente annullati dalle possibilità di frode e distorsione, e dalla vasta quantità di riviste comunque di qualità inferiore, rispetto a quelle tradizionali, in termini di peer review e attenzione alla conservazione a lungo termine delle pubblicazioni. Per denunciare le riviste e gli editori che definisce “predatori”, Beall curava sul suo blog scholarlyoa.com fino a non molto tempo fa una “lista nera” molto discussa.
Questa era la situazione all’epoca del numero 17 di Query. Tre anni dopo, le riviste farlocche sono sempre lì (chiunque faccia un mestiere scientifico riceve diverse mail di invito a pubblicare alla settimana), mentre qualcosa è cambiato nel campo di chi prova a combatterle.
Intanto, sono comparse almeno altre due liste importanti simili a quella di Beall.
La prima funziona al contrario rispetto a quella originale: è una “whitelist” di editori e riviste considerati onorabili e di qualità. È derivata dalla venerabile Directory of Open Access Journals (doaj.org, fondata nel 2003); in risposta alla proliferazione delle riviste scadenti, nel 2014 il curatore Lars Bjørnshauge e i suoi collaboratori volontari hanno sostanzialmente azzerato la loro lista, chiedendo alle riviste di fare di nuovo domanda per l’inclusione, questa volta rispondendo a un complesso questionario sulle procedure di peer review, sui piani per la conservazione a lungo termine eccetera. La critica immediata è che per l’inclusione nella lista ci si deve fidare delle affermazioni degli editori, e non c’è un modo semplice per garantire che poi terranno fede a quanto dichiarato, ma intanto è un tentativo.
La seconda lista sono in realtà due, una whitelist e una blacklist gestite da Cabells Scholarly Analytics, un’azienda che si occupa anche di servizi redazionali per l’editoria scientifica. La differenza è che si tratta di un servizio commerciale a pagamento; lanciato solo il 15 giugno di quest’anno, è presto per dire se avrà successo.
Infine, Beall è, almeno per il momento, fuori dal gioco.
Senza alcun preavviso, a gennaio di quest’anno ha rimosso dal web la sua lista nera, senza alcun commento; non ha mai detto chiaramente perché, ma ha lasciato capire di aver ricevuto pressioni dalla sua università (che però ha negato il coinvolgimento nella faccenda). Qualche tempo prima della chiusura, era comparso un sito web dal nome quasi identico a quello della lista (scholarlyoa.net), dedicato apparentemente a un’analisi critica del lavoro di Beall. Il sito è curato da un gruppo anonimo chiamato “Friends of Open Access”, che sarebbe formato da bibliotecari di tutto il mondo, a favore della libertà intellettuale e contro la censura. In effetti sono in molti a criticare l’approccio di Beall, principalmente perché i criteri per l’inclusione nella lista erano sostanzialmente arbitrari.
Il contenuto del sito, però, si discosta dall’immagine di pacata erudizione che si potrebbe essere tentati di associare a una fratellanza di bibliotecari.
Nelle pagine del sito, spesso con sintassi e ortografia lontane dalla perfezione, Beall è definito «un terrorista accademico», alcolista e tossicodipendente, un nemico del movimento Open Access che «soffre di un problema psichiatrico non diagnosticato». Secondo loro, «Jeffrey Beall sarà processato negli Stati Uniti per frode, estorsione, corruzione e riciclaggio di denaro». La lista di Beall era magari criticabile, ma qui mancano solo gli atti osceni in luogo pubblico e il furto di bestiame.
Insomma, anche quello dei bibliotecari scientifici (in realtà, più probabilmente, quello degli editori scientifici di pochi scrupoli) è un bell’ambientino.