Nel settembre del 2002 i Bell Labs, uno dei più importanti centri di ricerca privati nel campo della fisica applicata, licenziarono in tronco Jan Hendrik Schön, un brillante fisico di origine tedesca esperto di fisica dello stato solido. Poco dopo gli vennero revocati anche tre importanti premi e, schiaffo finale, nel 2004 l’Università di Constanza gli revocò il dottorato, sulla base di una norma mai usata prima che permette di farlo se la persona si dimostra indegna.
Nei due anni precedenti Schön aveva prodotto straordinari risultati, principalmente nell’uso di materiali organici come semiconduttori, che erano culminati con l’annuncio della creazione di un transistor di dimensioni confrontabili con quelle di una singola molecola: se confermata, sarebbe stata una rivoluzione. Quando ci si accorse che nessun gruppo di ricerca riusciva a riprodurre i suoi risultati cominciarono a nascere i primi sospetti, che portarono poi a una indagine formale. Almeno 16 articoli di Schön che contenevano dati manipolati o falsificati vennero ritirati da Science, Nature e Physical Review, e Schön cadde rapidamente in disgrazia.
Allo stesso modo nel 2012 l’Università di Tilburg, in Olanda, prima sospese e poi definitivamente licenziò Diderik Stapels, nientemeno che il Preside della propria School of Social and Behavioural Science. Stapels era anche lui uno scienziato di grande successo: professore di psicologia sociale, aveva pubblicato numerosi studi sperimentali su argomenti di grande effetto, tra cui alcuni diventati famosi anche per i non addetti ai lavori. In uno, per esempio, mostrava come essere esposti a un ambiente sporco e disordinato aumenti le tendenze razziste. Da un altro emergeva che chi mangia carne tende a essere più egoista rispetto ai vegetariani.
Alla fine dell’inchiesta, che vedeva coinvolte le Università di Amsterdam, Groningen e Tilburg in cui Stapels aveva lavorato, le conclusioni furono devastanti: almeno 55 paper scientifici pubblicati erano basati su dati manipolati e, forse ancora più grave, le tesi di dottorato di una decina di studenti di Stapels erano basate su dati forniti dal professore, anch’essi falsificati.
Messo alle strette dai colleghi e dalle autorità accademiche, Stapels ammise di aver completamente inventato i dati della maggior parte degli esperimenti, che non erano in realtà neanche mai stati svolti: inclusi quelli famosi dei legami tra razzismo e ambiente e tra il mangiare carne e l’egoismo.
Questi sono due casi estremi, ma leggendo per esempio il recente libro di Enrico Bucci Cattivi scienziati[1], recensito in questo stesso numero, si trovano moltissimi esempi di frode scientifica: da casi clamorosi come questi, relativamente rari, a episodi minori molto più comuni, in cui i ricercatori prendono scorciatoie illecite per dimostrare le loro tesi o pubblicare un articolo in più.
I modi in cui gli scienziati imbrogliano si possono raggruppare in due categorie: la prima è manipolare o addirittura inventare i dati o i risultati di uno studio, la seconda include il plagio nelle sue varie forme e in generale il barare sugli autori di un lavoro.
Nella prima categoria si va dal “cucinare” i dati un po’ più del lecito, per far emergere meglio un fenomeno, a casi estremi come quello di Stapels, in cui i dati stessi erano inventati di sana pianta. Gli aggiustamenti illeciti possono essere di molti tipi: «se si torturano i dati abbastanza a lungo, la natura confessa sempre», secondo la battuta di un famoso economista. Per fare solo un esempio, uno dei trucchi più comuni è l’esclusione arbitraria di dati o valori che, per esempio, deviano troppo dalla media. Quando, durante un esperimento, si fanno una serie di misure può capitare che qualcuna sia molto discordante dalle altre: ne abbiamo parlato più volte. In questi casi, di solito ci si ingegna a capire cosa sia andato storto, per esempio un errore nel dosaggio di un reagente o nella calibrazione di uno strumento. Individuato l’errore, si può serenamente buttare via come “sbagliato” il risultato di quella particolare misura. Ma se non si riesce a capire il problema, escludere il valore anomalo è una manipolazione illegittima dei dati.
Quando si tratta di piccole manipolazioni, questo tipo di frode è quasi impossibile da scoprire, anche perché magari il risultato complessivo dello studio non cambia di molto, ma, per esempio, appare più preciso di quanto sia davvero. Nei casi più macroscopici il primo indizio è spesso la difficoltà, da parte di altri gruppi di ricerca, nel riprodurre i risultati, che porta a guardare con più attenzione il lavoro originale, accorgendosi magari di incongruenze dovute alla manipolazione dei dati. È stata proprio questa difficoltà di replicare i brillanti risultati di Schön sui semiconduttori organici a sollevare i primi sospetti; a guardarli meglio, alcuni grafici negli articoli avevano una precisione troppo difficile da raggiungere con la strumentazione descritta. Qualcun altro si accorse che due misure, fatte a temperature molto diverse, mostravano un “rumore di fondo” identico, che è fisicamente impossibile; da lì in poi cominciarono le vere e proprie indagini che portarono al licenziamento.
Questo è il tipo di frode che ha le conseguenze più dirette sulla costruzione della conoscenza scientifica, per ovvie ragioni: nella migliore delle ipotesi, si sprecano risorse preziose nel cercare di replicare o estendere risultati che non sono mai stati ottenuti, ma (per esempio) nella ricerca biomedica o farmacologica le conseguenze possono anche essere più gravi.
La seconda categoria di frode include tutti quei casi in cui un autore pubblica come suo un lavoro che in realtà è stato fatto da altri, oppure il self-plagiarism, in cui uno stesso lavoro è pubblicato più volte in forma leggermente diversa, per aumentare il numero di pubblicazioni firmate dall’autore. Per quanto l’effetto sulla conoscenza scientifica possa in questo caso sembrare indiretto e tutto sommato minore, il danno comunque c’è: per esempio, uno scienziato mediocre ma disonesto potrebbe ottenere un finanziamento che sarebbe stato meglio utilizzato da un altro ricercatore.
Qualunque sia la frode, un’ulteriore conseguenza è la perdita di fiducia nella scienza: tant’è che molto spesso gli scienziati, commentando queste notizie, affermano che le persone coinvolte «non sono veri scienziati» (lo fa anche Elena Cattaneo nella prefazione al libro di Bucci), come se i “veri scienziati” non potessero essere mossi (anche) da ambizioni di prestigio, potere o denaro.
Quanto sono diffusi questi comportamenti poco edificanti nella comunità scientifica?
Difficile da stimare, non fosse altro perché conosciamo solo quelli che vengono scoperti. Daniele Fanelli, un ricercatore che lavora alla Stanford University e si occupa proprio di studiare la diffusione della frode scientifica, in uno studio del 2009[2] trovava che circa il 2% dei ricercatori intervistati ammetteva di aver almeno una volta manipolato i dati. Bucci, con uno studio statistico sulla manipolazione delle immagini pubblicate in articoli di ambito biomedico, trova che tra il 3% e l’11% degli articoli è in qualche misura “truccato”: un numero oggettivamente sconcertante. Fanelli trova anche, in un altro studio[3], che il numero di ritrattazioni di articoli (ne abbiamo parlato nel numero scorso) dovute a frodi di qualche tipo è in aumento. La ragione, spiega Fanelli, non è però nel fatto che gli scienziati barano sempre di più, ma che la consapevolezza del problema sta aumentando e di conseguenza aumenta la frazione di frodi che vengono scoperte; dunque, come commenta anche Bucci nel capitolo finale del suo libro, il sistema si sta creando gli “anticorpi” per combattere questo tipo di comportamenti.
Nei due anni precedenti Schön aveva prodotto straordinari risultati, principalmente nell’uso di materiali organici come semiconduttori, che erano culminati con l’annuncio della creazione di un transistor di dimensioni confrontabili con quelle di una singola molecola: se confermata, sarebbe stata una rivoluzione. Quando ci si accorse che nessun gruppo di ricerca riusciva a riprodurre i suoi risultati cominciarono a nascere i primi sospetti, che portarono poi a una indagine formale. Almeno 16 articoli di Schön che contenevano dati manipolati o falsificati vennero ritirati da Science, Nature e Physical Review, e Schön cadde rapidamente in disgrazia.
Allo stesso modo nel 2012 l’Università di Tilburg, in Olanda, prima sospese e poi definitivamente licenziò Diderik Stapels, nientemeno che il Preside della propria School of Social and Behavioural Science. Stapels era anche lui uno scienziato di grande successo: professore di psicologia sociale, aveva pubblicato numerosi studi sperimentali su argomenti di grande effetto, tra cui alcuni diventati famosi anche per i non addetti ai lavori. In uno, per esempio, mostrava come essere esposti a un ambiente sporco e disordinato aumenti le tendenze razziste. Da un altro emergeva che chi mangia carne tende a essere più egoista rispetto ai vegetariani.
Alla fine dell’inchiesta, che vedeva coinvolte le Università di Amsterdam, Groningen e Tilburg in cui Stapels aveva lavorato, le conclusioni furono devastanti: almeno 55 paper scientifici pubblicati erano basati su dati manipolati e, forse ancora più grave, le tesi di dottorato di una decina di studenti di Stapels erano basate su dati forniti dal professore, anch’essi falsificati.
Messo alle strette dai colleghi e dalle autorità accademiche, Stapels ammise di aver completamente inventato i dati della maggior parte degli esperimenti, che non erano in realtà neanche mai stati svolti: inclusi quelli famosi dei legami tra razzismo e ambiente e tra il mangiare carne e l’egoismo.
Questi sono due casi estremi, ma leggendo per esempio il recente libro di Enrico Bucci Cattivi scienziati[1], recensito in questo stesso numero, si trovano moltissimi esempi di frode scientifica: da casi clamorosi come questi, relativamente rari, a episodi minori molto più comuni, in cui i ricercatori prendono scorciatoie illecite per dimostrare le loro tesi o pubblicare un articolo in più.
I modi in cui gli scienziati imbrogliano si possono raggruppare in due categorie: la prima è manipolare o addirittura inventare i dati o i risultati di uno studio, la seconda include il plagio nelle sue varie forme e in generale il barare sugli autori di un lavoro.
Nella prima categoria si va dal “cucinare” i dati un po’ più del lecito, per far emergere meglio un fenomeno, a casi estremi come quello di Stapels, in cui i dati stessi erano inventati di sana pianta. Gli aggiustamenti illeciti possono essere di molti tipi: «se si torturano i dati abbastanza a lungo, la natura confessa sempre», secondo la battuta di un famoso economista. Per fare solo un esempio, uno dei trucchi più comuni è l’esclusione arbitraria di dati o valori che, per esempio, deviano troppo dalla media. Quando, durante un esperimento, si fanno una serie di misure può capitare che qualcuna sia molto discordante dalle altre: ne abbiamo parlato più volte. In questi casi, di solito ci si ingegna a capire cosa sia andato storto, per esempio un errore nel dosaggio di un reagente o nella calibrazione di uno strumento. Individuato l’errore, si può serenamente buttare via come “sbagliato” il risultato di quella particolare misura. Ma se non si riesce a capire il problema, escludere il valore anomalo è una manipolazione illegittima dei dati.
Quando si tratta di piccole manipolazioni, questo tipo di frode è quasi impossibile da scoprire, anche perché magari il risultato complessivo dello studio non cambia di molto, ma, per esempio, appare più preciso di quanto sia davvero. Nei casi più macroscopici il primo indizio è spesso la difficoltà, da parte di altri gruppi di ricerca, nel riprodurre i risultati, che porta a guardare con più attenzione il lavoro originale, accorgendosi magari di incongruenze dovute alla manipolazione dei dati. È stata proprio questa difficoltà di replicare i brillanti risultati di Schön sui semiconduttori organici a sollevare i primi sospetti; a guardarli meglio, alcuni grafici negli articoli avevano una precisione troppo difficile da raggiungere con la strumentazione descritta. Qualcun altro si accorse che due misure, fatte a temperature molto diverse, mostravano un “rumore di fondo” identico, che è fisicamente impossibile; da lì in poi cominciarono le vere e proprie indagini che portarono al licenziamento.
Questo è il tipo di frode che ha le conseguenze più dirette sulla costruzione della conoscenza scientifica, per ovvie ragioni: nella migliore delle ipotesi, si sprecano risorse preziose nel cercare di replicare o estendere risultati che non sono mai stati ottenuti, ma (per esempio) nella ricerca biomedica o farmacologica le conseguenze possono anche essere più gravi.
La seconda categoria di frode include tutti quei casi in cui un autore pubblica come suo un lavoro che in realtà è stato fatto da altri, oppure il self-plagiarism, in cui uno stesso lavoro è pubblicato più volte in forma leggermente diversa, per aumentare il numero di pubblicazioni firmate dall’autore. Per quanto l’effetto sulla conoscenza scientifica possa in questo caso sembrare indiretto e tutto sommato minore, il danno comunque c’è: per esempio, uno scienziato mediocre ma disonesto potrebbe ottenere un finanziamento che sarebbe stato meglio utilizzato da un altro ricercatore.
Qualunque sia la frode, un’ulteriore conseguenza è la perdita di fiducia nella scienza: tant’è che molto spesso gli scienziati, commentando queste notizie, affermano che le persone coinvolte «non sono veri scienziati» (lo fa anche Elena Cattaneo nella prefazione al libro di Bucci), come se i “veri scienziati” non potessero essere mossi (anche) da ambizioni di prestigio, potere o denaro.
Quanto sono diffusi questi comportamenti poco edificanti nella comunità scientifica?
Difficile da stimare, non fosse altro perché conosciamo solo quelli che vengono scoperti. Daniele Fanelli, un ricercatore che lavora alla Stanford University e si occupa proprio di studiare la diffusione della frode scientifica, in uno studio del 2009[2] trovava che circa il 2% dei ricercatori intervistati ammetteva di aver almeno una volta manipolato i dati. Bucci, con uno studio statistico sulla manipolazione delle immagini pubblicate in articoli di ambito biomedico, trova che tra il 3% e l’11% degli articoli è in qualche misura “truccato”: un numero oggettivamente sconcertante. Fanelli trova anche, in un altro studio[3], che il numero di ritrattazioni di articoli (ne abbiamo parlato nel numero scorso) dovute a frodi di qualche tipo è in aumento. La ragione, spiega Fanelli, non è però nel fatto che gli scienziati barano sempre di più, ma che la consapevolezza del problema sta aumentando e di conseguenza aumenta la frazione di frodi che vengono scoperte; dunque, come commenta anche Bucci nel capitolo finale del suo libro, il sistema si sta creando gli “anticorpi” per combattere questo tipo di comportamenti.
Note
1) E. Bucci, Cattivi Scienziati. La frode nella ricerca scientifica. Torino: Add Editore (2015)
2) D. Fanelli, “How Many Scientists Fabricate and Falsify Research? A Systematic Review and Meta-Analysis of Survey Data”, PLoS ONE 4(5):e5738 (2009)
3) D. Fanelli, “Why Growing Retractions Are (Mostly) a Good Sign” PLoS Med 10(12):e1001563 (2013)