Sciamani del terzo millennio

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  • 28-03-2015
  • di Maurizio Alì

Cos'è lo sciamanismo?


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Mauro non ha mai letto la Bibbia. Preferisce l’I Ching, il testo classico della mistica cinese, e l'interpretazione dei tarocchi. Comunque, sul suo altare, trovano posto un paio di santini (con san Giorgio e la Vergine di Guadalupe) e un crocefisso di legno. Mauro invoca gli spiriti e afferma di curare i malati. Mauro prepara pozioni magiche e le condivide con i suoi discepoli. Mauro è uno sciamano: uno sciamano italiano in Colombia. Per quanto l’affermazione possa apparire incoerente, è così che Mauro si definisce, ed è così che i suoi adepti lo considerano: uno sciamano dotato di energie e poteri sovrannaturali. Nel corso degli ultimi dieci anni ho conosciuto tanti sciamani come Mauro: italiani, colombiani, statunitensi, spagnoli. Vivono in comodi appartamenti di città, guidano la macchina, guardano la televisione e acquistano al supermercato: etnicamente occidentali e culturalmente moderni (anzi, postmoderni), questi neosciamani urbani fanno ormai parte del panorama sociale che siamo soliti inquadrare all’interno della cosiddetta cultura New Age. Si tratta di un fenomeno emergente che attira un numero sempre crescente di adepti e che si basa sulla rielaborazione di pratiche ancestrali.
Cerchiamo allora di fare un passo indietro per capire quali siano le sue origini. Certo è che definire lo sciamanismo non è impresa facile: per alcuni è una religione, per altri una forma di organizzazione sociale che ha permesso lo sviluppo e l’azione politica di numerose comunità autoctone. Ciò che è sicuro è che lo sciamanismo ha catturato l'attenzione di generazioni di studiosi provenienti da varie discipline affascinati da questa forma ancestrale di gestire le relazioni con il mondo ultraterreno attraverso la performance di un officiante - lo sciamano - dotato di poteri soprannaturali stimolati, generalmente, grazie all'uso di sostanze capaci di alterare lo stato di coscienza: gli enteogeni.
L’animismo preistorico - quello dei primi Homo Sapiens, per intenderci - è stato un precursore dello sciamanismo che, con l’avvento delle grandi civilizzazioni, ha lasciato il posto alle forme religiose moderne: i politeismi e i monoteismi. Eppure, in quelle regioni del pianeta in cui non si assistette allo sviluppo di civiltà complesse e stratificate, lo sciamanismo sopravvisse. A partire dal XV secolo, gli esploratori occidentali che viaggiavano alla ricerca di contrade inesplorate incontrarono persone che dichiaravano di comunicare con gli spiriti e di interagire con loro, soprattutto con finalità terapeutiche o divinatorie.
Nelle lingue native ricevevano i nomi di pagé, angakkut, arendiouannens, piayé o shaman, e i viaggiatori - non sapendo come tradurre tali termini - mantennero nei loro resoconti di viaggio le denominazioni originali. Il che non impedì loro di considerarli come impostori che bisognava smascherare o, peggio, come adoratori del demonio da sterminare.
I primi antropologi non furono certo migliori e li compararono a una versione esotica dei malati mentali.
Li considerarono schizofrenici, capaci di credere nella tangibilità delle allucinazioni di cui soffrivano, convinti di dialogare con gli spiriti ed esperti nel riprodurre voci che non gli appartenevano. Il celebre etnopsichiatra francese George Devereux, per esempio, adottò una posizione freudiana arrivando a definire gli sciamani come «perturbatori sociali culturalmente distonici». Fu così che, durante decenni, gli antropologi si limitarono a discutere della salute mentale degli sciamani, fino a che Claude Lévi-Strauss rivoluzionò la questione e concluse che gli sciamani dovevano esser comparati agli psicoanalisti piuttosto che agli psicopatici[1]. Fu proprio Lévi-Strauss che segnalò per primo l'esistenza di un punto di contatto tra l'universo sciamanico e il campo psicoanalitico. Nella sua analisi stabilì la differenza esistente tra il simbolista pratico (lo sciamano) e il terapeuta strutturale (lo psicoanalista), distinguendoli chiaramente a partire dai rispettivi modus operandi: lo sciamano parla, lo psicoanalista ascolta.
Lévi-Strauss, oltretutto, sottolineò il ruolo dell'incanto e della fascinazione per spiegare l’efficacia simbolica delle sessioni sciamaniche. Secondo lui: «Lo sciamano non si limita a proferire l'incantesimo: ne è l'eroe, perché è proprio lui che penetra negli organi minacciati male alla testa del battaglione soprannaturale degli spiriti ed è lui che libera l'anima prigioniera»[2].
Sebbene il termine sciamanismo abbia un'origine asiatica (siberiana, per l'esattezza), l'etnografia delle origini considerò che esistesse un fil rouge che collegava forme e contenuti della terapeutica asiatica e americana (ragion per cui, oggigiorno, si è imposto nel linguaggio corrente l'uso del termine sciamano con riferimento al continente americano) e che la distingueva dai modelli e dalle strutture religiose tipiche di altri territori coloniali, come l'Africa, e beninteso dalle credenze diffuse nella madrepatria e in Europa.
In effetti, i culti di possessione africani (e le varianti sincretiche che sono apparse ai tempi della tratta negriera, come il vudù o il candomblé) si basano su di un complesso sistema di credenze e su di uno schema rituale in cui si concede un elevato livello di azione ai partecipanti, i quali sono invitati a suonare uno strumento, danzare e gridare fino a cadere in trance, di modo che la figura del cerimoniere mantiene un ruolo più limitato e meno protagonico.
D’altro canto, le religioni monoteiste diffuse nel mondo mediterraneo e nei paesi industriali (il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam, nonché le loro varianti eterodosse) non prevedevano l’esistenza di figure comparabili a quella dello sciamano, inteso come ministro di un culto capace di curare dai mali fisici grazie a un ampio bagaglio di conoscenze botaniche. Ancor meno comparabili, poi, sono quei culti di dissociazione - eredi di certe pratiche esorcistiche proprie della cristianità - che fiorirono in Italia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
I medium e gli spiritisti (professionisti della comunicazione con l'aldilà pagati per agire come intermediari tra il mondo dei viventi e il mondo degli spiriti) si basavano in effetti su sistemi di credenze che non facevano riferimento a un apparato cosmologico ancestrale ma si accontentavano di abbindolare i loro clienti grazie a parafernalia composti da amuleti, specchi e qualche reliquia di dubbia origine.

L’estasi sciamanica


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Sciamani argentini
Mircea Eliade, il celebre storico delle religioni rumeno, nel suo Sciamanismo e le tecniche arcaiche dell'estasi documentò una serie di corrispondenze e di sorprendenti equivalenze le cosmologie e le condotte rituali di tipo sciamanico presso centinaia di società differenti. Sebbene il suo lavoro non contemplasse la possibilità che personaggi come Mauro - il nostro sciamano italiano - potessero esistere, Eliade aveva intuito il motivo per cui lo sciamano si sarebbe convertito in una figura così rilevante a partire dalla seconda metà del XX secolo, in un epoca di insoddisfazione nei confronti dei culti tradizionali, scrivendo che lo sciamanismo è «la tecnica religiosa per eccellenza» e che «lo sciamano, e solo lui, è il gran maestro dell'estasi»[3].
Il presagio di Eliade riguardo alla crisi spirituale postmoderna si sarebbe confermato con l'avvento di quel ritorno alle origini che si è materializzato nei culti di rinascita: dal neodruidismo al neosatanismo, passando per il il neosciamanismo, il neopaganismo e la New Age, tutto un fiorire di “nuove” pratiche devozionali che, in fondo, non sono altro che richiami a una leggendaria età dell'oro in cui religione rimava con equilibrio fisico ed esperienza mistica.
Nei culti di rinascita la figura del leader carismatico riveste un ruolo chiave: non solo quello di officiante e terapeuta ma soprattutto quello di consigliere e guida, punto di riferimento stabile, degno di autorità e dotato di un qualche potere (o energia, per utilizzare il termine oggigiorno più in voga) ritenuto di origine ultramondana. Sebbene l’analisi di Eliade possa esser considerata ancora oggi di grande attualità, bisogna notare che la sua posizione era, per certi versi, idealistica. Secondo lui le competenze specifiche degli sciamani si limitano alla gestione dei poteri terapeutici e spirituali, ma la sua ipotesi non ci spiega per quale ragione nella maggior parte delle società animiste fossero loro assegnate responsabilità politiche di alto livello.
Una spiegazione plausibile sembra essere allora quella proposta da Gerardo Reichel-Dolmatoff, il quale sottolineò il ruolo degli sciamani come terapeuti dotati di profonde conoscenze botaniche, capaci di produrre sostanze medicinali a partire dall’elaborazione di piante. In particolare, Reichel-Dolmatoff mise l’accento sulle loro competenze nella produzione di preparati di origine vegetale capaci di generare allucinazioni dal carattere divinatorio e profetico la cui interpretazione serviva a definire le strategie di organizzazione sociale e politica delle comunità native[4].

Le origini del fenomeno neosciamanico


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Sin dal XIX secolo i resoconti di etnografi ed esploratori ci hanno descritto l'uso da parte di sciamani e terapeuti indigeni di innumerevoli preparati botanici modificatori della coscienza. Se, in un primo momento, tali pratiche vennero osservate come il prodotto di culture pagane e selvagge, a partire dall'immediato secondo dopoguerra si cominciò a considerarle a partire da una prospettiva differente. Come effetto della crisi culturale e della disillusione nei confronti della cultura occidentale generate dalla violenza del conflitto, tanti scrittori, ricercatori e viaggiatori decisero di partire alla ricerca di “un'altra dimensione”: qualcosa di assolutamente diverso rispetto alle esperienze ottenibili con le droghe già disponibili sul mercato europeo (i derivati dell’oppio, della coca o della cannabis), le quali erano generalmente associate a funzioni terapeutiche specifiche, soprattutto nel campo della terapia del dolore. Fu così che i primi psiconauti occidentali, motivati dalla lettura dei resoconti etnologici disponibili nelle biblioteche universitarie, scoprirono gli effetti di enteogeni come il peyote messicano (Lophophora williamsii), l'iboga africana (Tabernanthe iboga) o l'amanita siberiana (Amanita muscaria), rendendosi conto che potevano modificare radicalmente la coscienza umana nei confronti della realtà circostante. Si trattava di un'intuizione fondamentale, dato che dimostrava come tali allucinogeni agissero attraverso l'alterazione chimica delle strutture neurologiche e non come effetto della suggestione: le loro esperienze visionarie dimostravano come tali piante causassero effetti simili sia ai consumatori indigeni sia ai consumatori occidentali e “moderni” (non soggetti, teoricamente, al potere della superstizione). Tali osservatori, invitati ad assistere e a partecipare alle sessioni curative, si resero conto che potevano provare esperienze, sensazioni e visioni simili a quelle descritte dagli sciamani: l'unica, enorme, differenza risiedeva nel fatto che, mentre gli sciamani si preparavano ai rituali facendo prove di resistenza, digiuno, astinenza sessuale e meditazione, i nostri esploratori europei mostrarono in generale un approccio meno mistico e un'attenzione rivolta esclusivamente alla droga, di modo che gli atti di contrizione previ alle sessioni rituali venivano accuratamente evitati e le prescrizioni alimentari regolarmente infrante. La dimensione sacrificale del rito allucinogeno si limitava dunque, per questi primi psiconauti, al momento dell'assunzione della sostanza e delle eventuali crisi emetiche o lassative che, spesso, accompagnavano queste esperienze.
Si pensi al caso di Gordon Wasson, un ricco banchiere statunitense e appassionato micologo, che nel 1955, durante un viaggio Messico, ebbe l'occasione di partecipare a una cerimonia che prevedeva l'ingestione di funghi contenenti psilocibina (un altro principio attivo allucinogeno), sotto la direzione della sciamana mazateca Maria Sabina. Due anni dopo, nel 1957, Wasson riuscì a far pubblicare un lungo reportage sulla rivista Life nel quale descriveva la sua esperienza sciamanica e il suo volo extracorporeo. Nel suo articolo, Wasson scriveva che l'effetto dei funghi: «Consiste nel produrre una fissione dello spirito, una scissione della persona, una specie di schizofrenia, con il lato razionale che continua a ragionare e che osserva le sensazioni che sperimenta l'altro lato: proprio come se la mia mente dondolasse all'estremità di una corda elastica, quella dei miei sensi in festa»[5]. Con il suo reportage, la rivista Life mise a conoscenza di centinaia di migliaia di lettori i dettagli di un'esperienza realizzata in uno stato alterato di coscienza: questione che, fino a quel momento, era stata riservata alla letteratura specializzata e a una ristretta, ristrettissima cerchia di studiosi. Ovviamente, un certo numero di lettori volle seguire l'esempio di Wasson, cosa che causò non pochi problemi alla saggia Maria Sabina. La prima ondata di turismo psichedelico alla ricerca della leggendaria sciamana mazateca condusse migliaia di stranieri nei villaggi del Messico meridionale, alla ricerca dei funghi allucinogeni. Maria Sabina, nella sua autobiografia, scrisse: «Senza dubbio, Wasson e i suoi amici sono stati i primi stranieri a venire nel nostro villaggio in cerca dei funghi. Non che soffrissero di qualche malattia. La ragione era che li mangiavano per trovare Dio. Prima di Wasson nessuno mangiava i funghi semplicemente per incontrare Dio. Si mangiavano affinché gli infermi sanassero»[6].
Se l'esperienza di Wasson contribuì a rendere mediatica la questione sciamanica, fu solo verso la fine degli anni sessanta, in corrispondenza con le manifestazioni studentesche del 1968, che una certa cultura psichedelica cominciò a prendere piede, soprattutto negli Stati Uniti (e, più limitatamente, in Gran Bretagna e in Francia). Fu proprio nel 1968 che apparve un certo Carlos Castaneda, antropologo peruviano che affermava di aver studiato con uno sciamano yaqui in Arizona e in Messico e di essersi convertito in un “apprendista stregone”[7]. I lavori di Castaneda hanno generato un infinità di polemiche riguardo alla loro validità scientifica e al giorno d'oggi sono considerati dei prodotti letterari piuttosto che delle monografie etnografiche. Ciononostante, i suoi libri sono stati tradotti in decine di lingue e hanno ottenuto un notevole successo editoriale, contribuendo, sulla scia di Wasson, a rendere ancor più popolare la questione sciamanica. Castaneda chiamava stregone il suo saggio yaqui con l'intenzione di sottolineare i suoi poteri divinatori ricevuti da potenze inframondane, considerando che il suo maestro fosse, più che un terapeuta (nel senso di Lévi-Strauss), un uomo di conoscenze che voleva acquisire un potere anzi, più esattamente, un “punto di potere”. E fu proprio la ricerca di questo punto di potere - combinata con la descrizione di tecniche che il lettore poteva riprodurre comodamente a casa sua - che stimolò l'immaginazione dei lettori di Castaneda. Elementi come l'uso della visione periferica o l'ingestione di funghi allucinogeni davano ai suoi seguaci l'eccitante impressione che anche loro potessero essere dei veri e propri apprendisti stregoni e godere di un'esperienza sciamanica fatta in casa. Bisogna considerare che l'impatto di Castaneda va misurato non certo sulla base della veridicità dei suoi resoconti, che è stata più volte messa in dubbio, ma sulla base della fascinazione collettiva che ha rafforzato quella cultura periferica emergente che è il neosciamanismo. Il fatto che i libri di Castaneda continuino a essere considerati come l'abbecedario del movimento New Age e che io li abbia ritrovati nella biblioteca personale di Mauro e in quelle dei suoi discepoli non è di certo casuale.

Il caso dell’ayahuasca


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Preparazione dell'ayahuasca
L’ayahuasca o yajé (Banisteriopsis caapi) è una liana endemica della foresta tropicale amazzonica. É stata identificata in tempi relativamente recenti e la sua prima classificazione botanica, nel 1852, si deve all'esploratore inglese Richard Spruce. Gli sciamani di numerose comunità indigene ne estraggono un decotto che viene consumato nel corso di sessioni terapeutiche individuali o di gruppo. L'estratto del Banisteripsis caapi ha proprietà emetiche e lassative e di per sé non provoca allucinazioni né alterazioni della coscienza. Gli sciamani amazzonici sono soliti cucinarlo con alcune foglie di Psychotria viridis o di Diplopterys cabrerana, due piante conosciute con il nome di chacruna, dotate di un alto tenore in dimetiltriptamina (DMT), principio attivo con proprietà allucinogene. Banisteripsis caapi si limita ad agire come un inibitore della mono-amino-ossidasi (IMAO), permettendo al corpo umano il corretto assorbimento delle triptamine contenute nella chacruna e permettendo loro di agire a livello neurofisiologico e, finalmente, di generare le visioni. Di fatto, nell'uso corrente si tende a parlare di ayahuasca facendo riferimento al composto ottenuto dalle due piante. Vari studiosi, tra cui, Gerardo Reichel-Dolmatoff[8], la considerano come la più visionaria delle droghe sciamaniche, capace di generare allucinazioni complesse e di stimolare la percezione sensoriale.
Nel 1953 William Burroughs, uno dei profeti della beat generation, partì alla volta dell’Amazzonia con l’obiettivo di sperimentare gli effetti di questa preparazione. Sette anni dopo, il suo amico Allen Ginsberg ripercorse lo stesso cammino, provando a sua volta la pozione sciamanica. Da questa duplice esperienza nacque uno dei testi più visionari di quell’epoca, le Lettere dello yajé[9], la cui pubblicazione ha contributo a far conoscere l’ayahuasca ai lettori nordamericani ed europei. A partire dalla seconda metà degli anni settanta un numero sempre crescente di curiosi ha voluto provare quest’esperienza visionaria, generando un vero e proprio turismo sciamanico nelle regioni i cui la pianta è endemica. L’antropologa e psicoterapeuta Marlene Dobkin de Rios, che ne ha studiato i caratteri etnobotanici durante più di trent'anni, nota che a partire dai primi anni novanta il flusso di viaggiatori stranieri in cerca di sciamani amazzonici è aumentato vertiginosamente[10].
In Perù, per esempio, esiste un’amplia offerta turistica incentrata sul consumo di ayahuasca, così come in Brasile, anche se il caso brasiliano andrebbe considerato a parte, dato che il consumo di yajé è associato soprattutto con i culti sincretici neoprotestanti (come la Chiesa del Santo Daime, la Barquinha o la União do Vegetal), nei quali la figura dello sciamano è sostituita da quella del pastore psichedelico. In Colombia esiste ancora un buon numero di sciamani indigeni, soprattutto nelle regioni meridionali e occidentali del paese (Amazonas e Putumayo). Ciononostante, l'offerta maggiore si trova nella capitale e in qualche città secondaria (Medellin, Cali, Cartagena, Santa Marta), dove esercitano innumerevoli sciamani che di autoctono hanno davvero poco. Molti sono mestizos, meticci, altri sono discendenti della diaspora africana, pochi sono quelli con vere e proprie credenziali indigene ma quasi tutti sono figli della stessa cultura rurale rifugiatasi nelle periferie urbane come effetto delle migrazioni interne indotte dal conflitto armato e dalla criminalità colombiana. Neanche il loro pubblico è indigeno: lo sciamanismo urbano attrae popolazione urbana.
I pochi sciamani indigeni della capitale godono, in generale, di grande prestigio sociale e sono assai presenti sui mezzi di informazione, come nel caso di Don Antonio Jacanamijoy e suo figlio Benjamin, Taita Oscar Román, Taita Diomedes Díaz o Taita Querubín. Mauro li chiama los abuelitos (i nonni), li conosce tutti personalmente e di tutti tiene un ricordo: «Questa piuma di ara me l'ha regalata nonno Diomedes, questo dente di puma me l'ha portato Oscar dal Putumayo e questo è lo yajé che mi ha offerto il vecchio Querubín affinché lo degustassi con i miei discepoli».
Nel quartiere di San Victorino, dalle parti del centro storico di Bogotà, esistono numerose erboristerie gestite da indigeni dell'etnia inga - anche loro in fuga dal conflitto - che offrono rituali dello yajé nei loro retrobottega per un prezzo assai modico (15.000 pesos la sessione, circa 6 Euro). Si tratta di persone comuni che si sono riconvertite allo sciamanismo senza avere la benché minima competenza botanica. I loro clienti provengono sono operai, piccoli commercianti e persone con un reddito medio-basso che, dopo la prima sessione, tendono a non ripetere l'esperienza. Consigliati da amici e conoscenti, provano l’ayahuasca per sanare (soprattutto, ma non solo) dolori di lunga data o crisi sentimentali. I giovani professionisti della capitale, così come le classi medie e i curiosi con una sufficiente disponibilità economica preferiscono un altro tipo di stabilimenti, di carattere meno artigianale. Si tratta dei templi, come il celeberrimo Templo del Indio Amazonico (che fu il precursore nel suo genere, con più di trent'anni di attività): veri e propri supermercati del soprannaturale, decorati con cura - e con un certo gusto kitsch -, che offrono all'acquirente e al turista di passaggio accessori e parature per sciamani, apprendisti stregoni, maghi, cultori dell'occulto, consumatori di yajé e altre piante allucinogene. I prezzi non sono modici e una sessione (con uno sciamano che di amazzonico ha davvero poco) può costare mezzo milione di pesos (200 Euro, l'equivalente del salario medio).
Artisti, giornalisti, politici e membri dello showbiz non frequentano questi luoghi. Nel loro caso, la pratica più comune è quella di organizzarsi in gruppi e di realizzare le cerimonie a casa di uno dei membri della comunità. Le sedute hanno luogo, solitamente, nei quartieri “alternativi” della capitale - Teusaquillo, La Macarena e La Candelaria - o, come nel caso della comunità di Mauro, in qualche comune dell'hinterland capitolino (Neusa, La Calera, Sesquilé, Funza, Silvana, Anapoima). Gli appuntamenti si danno per telefono, con poco anticipo, facendo uso di un linguaggio codificato e senza mai pronunciare le parole yajé o ayahuasca. Il costo? Tra i 25.000 e i 50.000 pesos (7-10 Euro), che finiscono tutti nelle tasche del neosciamano di turno. Il quale, ovviamente, si guarderà bene dal dichiararli all’efficientissimo fisco colombiano.

Una comunità neosciamanica in Colombia


Ho conosciuto la comunità di Mauro dieci anni fa. Ricordo che era sabato, a mezzogiorno, quando ricevetti una chiamata: «C'è una cerimonia speciale questa notte: ti vogliono conoscere». E così, senza aver realizzato quel digiuno rituale che in teoria dovrebbe precedere l'assunzione della pianta sacra, mi ritrovai a prendere uno di quegli autobus malmessi e barcollanti, le busetas, che fanno il folklore dei trasporti pubblici colombiani. Strano contesto per un viaggio verso il leggendario purgatorio degli sciamani amazzonici: la megalopoli scorreva dietro i finestrini della buseta, l'autoradio lanciava un merengue ad altissimo volume, l'autista discuteva con un passeggero di calcio e politica, mentre il mio vicino, stanco dopo una giornata di lavoro, leggeva il giornale. L'incontro con lo sciamano non era previsto in un angolo sperduto della foresta tropicale, ma a casa di un conoscente, in un paesino andino nei dintorni di Bogotà: per inciso, a più di 2.000 metri sul livello del mare e con una temperatura esterna di 10 gradi centigradi. Altro che jungla! Quando bussai alla porta mi venne ad aprire Julio, padrone di casa e anfitrione dei miei primi contatti con l’ayahuasca. Dopo qualche convenevole informale, Julio mi informò che la cerimonia alla quale stavo per partecipare era «un'occasione speciale, con poca gente, solo gli intimi». Eravamo una decina: io, Julio e sua moglie, Mauro (lo sciamano) accompagnato dalla sua compagna, da sua figlia, dai suoi due assistenti, Carlos e Juan “el Pibe”, e da un apprendista, Alfonso. Non potrò dimenticare la sensazione di incredulità che ho sperimentato quando lo sciamano che avevo di fronte - con la sua tunica da santone, le sua corona di piume e i suoi collari di denti di squalo - incuriosito dal mio accento, mi ha chiamato “paisà”. Uno sciamano italiano a Bogotà? Strano incontro, il nostro: uniti da una stessa origine geografica, ci ritrovavamo su due fronti opposti. Io antropologo scettico, lui sciamano convinto. E, tra di noi, quella rassegna di umanità varia che rappresentavano i membri della sua comunità.
Carlos, Juan e Alfonso si sono avvicinati al mondo sciamanico grazie alla letteratura disponibile sul web ed è così che sono entrati in contatto con Mauro. La maggior parte dei membri del gruppo ha utilizzato la stessa strategia. Come mi spiegava Alfonso: «Vai su Google, digiti yajé, ayahuasca, Bogotà e vedrai quanti sciamani ci sono da noi!». Carlos mi ha raccontato che hanno imparato così a preparare l’ayahuasca, «proprio come la cucinano gli sciamani della selva». Effettivamente, la massa di informazioni su Banisteriopsis caapi reperibile sulla rete è accessibile a tutti, senza discriminazioni di usuario, cosicché chiunque può imparare a preparare il decotto allucinogeno senza aver mai conosciuto uno sciamano né aver dovuto soffrire le scomodità della selva. Ormai lo psiconauta postmoderno non ha più bisogno di temere zanzare o sanguisughe amazzoniche: è sufficiente che colleghi il suo terminale, la sua tablet o il suo smartphone di ultima generazione alla rete telematica globale, che si connetta a un sito di commercio elettronico dedicato all'offerta di enteogeni e che concluda la transazione con la sua carta di credito. Qualche giorno dopo riceverà a domicilio un pacco sobrio e anonimo il cui contenuto gli permetterà di spalancare le porte della coscienza: et voilà, mesdames et messieurs, lo sciamanismo postmoderno della sua versione più rapida e asettica.
Dato il contesto, il caso di Mauro risulta significativo nella sua eccezionalità. In primo luogo per il suo background, che lo stesso Mauro sintetizza così: «Origini agiate, infanzia tranquilla, adolescenza ribelle» e una giovinezza dedicata a sperimentare «tutto quello che fosse disponibile sul mercato [facendo relazione allo sostanze stupefacenti]». In secondo luogo per la composizione della sua comunità, la cui maggior parte dei membri fa parte di quel gruppo di leader, generatori di opinione e influencers che alimentano i mezzi di comunicazione e di informazione colombiani.
Mauro non si percepisce in termini religiosi, nonostante le sue performance presentino certe somiglianza con il sacerdozio. La sua vocazione consiste nell'offrire la vita per l’ayahuasca - che definisce «una pianta spirituale, perché è fatta di spirito ed emana energie spirituali» - e per la salvezza della sua comunità, mentre la sua missione è tesa prioritariamente alla terapia dello spirito piuttosto che alla risoluzione di eventuali squilibri fisici o psichici. Mauro mi fa pensare a quanto diceva l'antropologa statunitense Eleanor Ott, che già una ventina d'anni fa faceva presente che:
«Nell'attualità molti di coloro che si autodefiniscono sciamani non appartengono sicuramente a culture o comunità integrate da una reale prospettiva sciamanica. Sarebbe più corretto parlare di persone comuni, della generazione presente, che, alla fine dei conti, cercano sé stessi. Ragion per cui molti neosciamani sono poco preparati per esercitare con clienti che fanno affidamento ai loro poteri per sanare una varietà di mali fisici, psichici e spirituali. Lo sciamano indigeno, quello tradizionale, può contare sulla sua esperienza e sulle conoscenze accumulate da generazioni di terapeuti collegati a una stessa tradizione cosmologica: è questo ciò che permette di dare un senso sia alla malattia sia al processo curativo diretto dallo sciamano»[11].
Le sedute sciamaniche officiate da Mauro si concludono sempre con un momento dedicato alla lettura e all'interpretazione dei Tarocchi. Per i membri della comunità si tratta di un momento speciale, grazie a cui il nostro sciamano riesce a interpretare le visioni dei suoi compagni psiconauti, offrendo spiegazioni, riflessioni e consigli. Durante queste sessioni, i partecipanti si ritrovano in circolo, di modo che non solo i contenuti discorsivi, ma anche le forme a cui sono assoggettati i corpi degli adepti ricordano, inequivocabilmente, quelli delle terapie di gruppo. Mauro è terribilmente dotato per l'osservazione psicoanalitica e, pur non avendo mai letto Freud, sa riconoscere quel sottile velo di psicopatologia che permea la vita quotidiana dei membri della sua comunità. Mauro ascolta e offre le sue conclusioni, identifica l'origine e la soluzione dei problemi e, soprattutto, usa le parole più appropriate per ciascuno dei suoi discepoli. In fin dei conti, la sua origine culturale e la sua esperienza sociale costituiscono un bagaglio di competenze che permettono al nostro sciamano metropolitano di avere sempre qualcosa di interessante da dire.
Il che ci conferma, una volta ancora, che la personalità del terapeuta sciamanico o neosciamanico non può esser ridotta a un ipotetico fattore innato o soprannaturale, ma va pensata in termini sociali e culturali, come prodotto di una determinata organizzazione sociale, di una formazione culturale e di una serie di valori che ne determinano le azioni. Per rafforzare la loro personalità, gli sciamani indigeni si sottoponevano tradizionalmente a lunghi periodi di formazione con l’obiettivo di sviluppare sia le loro conoscenze botaniche sia le loro competenze psicoanalitiche, senza dimenticare la capacità di interpretare le visioni ricevute durante le cerimonie. In effetti, si trattava di formare dei leader spirituali e politici dotati di responsabilità e di una grande potere di persuasione. Gerardo Reichel-Dolmatoff considerava altamente plausibile l'ipotesi secondo cui la fonte di violenza e di distruzione tipica di molti capitanati in epoca precolombiana dovesse essere ricercata nelle esperienze allucinatorie degli sciamani[12]. Si può non esser d'accordo con l'ipotesi appena menzionata, però il caso di Mauro ci dimostra che, ancora oggi, gli sciamani possono influenzare le persone influenti.

Estasi e terrore


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Banisteriopsis caapi rappresenta uno degli elementi più misteriosi e imperscrutabili dell'immaginario colombiano. La sua capacità di sanare, così come i poteri soprannaturali dello sciamano che la prepara e la somministra, hanno un senso solo all’interno dal contesto di credenze che è proprio delle comunità dei seguaci. L’ayahuasca funziona, o per lo meno così lo confermano non solo gli adepti di Mauro ma i tanti studi di carattere scientifico realizzati da studiosi come Josep Fericgla[13] o Benny Shanon[14]. Né allopatica, né omeopatica, l’ayahuasca sembra dare gli effetti sperati sin dalle prime sedute. «È una terapia d'urto, e funziona solo se tu ci credi e se sei accompagnato da un vero sciamano» mi conferma Mauro, lasciandomi intendere che, ovviamente, lui si considera membro di quella ristretta élite di “veri” sciamani. Le neuroscienze si sono interrogate durante gli ultimi due decenni con riguardo alle capacità psicoterapeutiche degli sciamani e alle loro interazioni con il nostro corpo umano. I risultati ottenuti dimostrano che l’uso di ayahuasca - e la sua capacità di stimolazione neuroendocrina - può giocare un ruolo importante nella terapia psichiatrica e nella gestione di patologie come l’ansietà, la sindrome da stress postraumatico (PTSD) o il morbo di Parkinson, come lo confermano le ricerche condotte da Rafael Guimarães dos Santos[15], tossicologo presso la Scuola di Medicina dell’Università di São Paulo, e da Volodymyr Samoylenko e i suoi colleghi[16] dell’Università del Mississippi.
Comunque, se nella terapia tradizionale il taumaturgo indigeno era solito affrontare mali di carattere prevalentemente fisico, nel caso del neosciamanismo la sfida si libra contro i malesseri e gli squilibri prevalentemente psicosociali a cui ci inducono la nostra civiltà occidentale e la nostra modernità. L'etnologo australiano Michael Taussig[17] ha analizzato questo tema, arrivando a considerare lo sciamanismo contemporaneo come il prodotto della violenza coloniale: una risposta “selvaggia” all'orrore e all’inumanità del Conquistador, che ha trasformato il saggio terapeuta delle origini in un guerriero - assolutamente moderno - del soprannaturale. Talmente moderno che, prosegue Taussig, la sua magia si è convertita in un feticcio: un bene a cui si attribuisce un alto valore simbolico e mercantile nonostante il suo scarso livello di efficacia o di utilità pratica. Secondo Taussig, la magia neosciamanica non è altro che una forma di quella resistenza subalterna, frutto della creatività popolare, che oppone le forze identitarie locali ai processi egemonici globali: la modernità, lo sviluppo tecnologico e la scienza positivista. Si tratta di una riflessione che è possibile applicare non solo alla Colombia, ma anche a tutti i paesi che hanno sofferto la pressione coloniale e che si può estendere a tutte le realtà subalterne che ha generato la modernità. In Italia, questa dinamica è stata profondamente analizzata da autori come Alfonso Di Nola[18] ed Ernesto de Martino[19]: il primo studiando il satanismo nostrano e il secondo osservando il magismo delle comunità rurali del Mezzogiorno. Nonostante le differenze concettuali, entrambi gli autori giunsero a considerazioni similari: l’esistenza di superstizioni e di credenze irrazionali profondamente ancorate in certi settori della società italiana si spiega a partire dal processo di spoliazione a cui sono stati sottoposti gli elementi più marginalizzati del nostro paese. Non è un caso, allora, che in un contesto di povertà e ingiustizia come quello colombiano siano assai diffuse quelle sindromi di affiliazione culturale - il cui statuto che sfugge alla medicina occidentale e la cui semeiotica fa riferimento ad elementi soprannaturali come il malocchio, la iettatura, la sfortuna o il furto dell'anima - che sono ancor oggi assai diffuse in buona parte del Belpaese.
Di fatto, la “scienza autoctona” e i cosiddetti saperi tradizionali sono ormai considerati come una soluzione sufficientemente razionale ai mali causati dal progresso tecnologico. Le ragioni sono molteplici: la disillusione di tanti cittadini urbani nei confronti dell'efficacia della medicina allopatica, l’assenza di uno schema giuridico chiaro che regoli l’accesso alle cure mediche, la vigenza di politiche di ricerca che hanno limitato lo studio di certe sostanze sulla base di considerazioni più politiche che scientifiche, per finire poi con il comportamento irresponsabile di certi giornalisti e uomini politici disposti a mediatizzate i fenomeni e le bufale di turno: basti pensare alla visibilità che sono riusciti a ottenere personaggi come il conte Cesare Mattei con la sua elettromeopatia, Ryke Geerd Hamer con la sua Nuova Medicina Germanica, o John Hoxsey, Luigi Di Bella e Tullio Simoncini con le loro terapie antitumorali. Purtroppo, a causa di tutta questa confusione informativa, la persona che si considera affetta da una di quelle sindromi precedentemente citate si ritrova di fronte a un'offerta di soluzioni che varia dalle terapie alternative con base energetica fino ad arrivare alla ciarlataneria senza scrupoli e la circonvenzione d'incapace. Nel caso della proposta neosciamanica, per esempio, il “paziente” non riceverà nessuna formazione previa e i preliminari fisici che tradizionalmente precedono l'ingestione delle medicine tradizionali si limiteranno a un digiuno minimo e a qualche minuto di meditazione: ricordo che Mauro, sciamano del villaggio globale, proponeva una versione personale della Padmasana, la posizione del loto della tradizione yoga.
Proprio durante una delle cerimonie presiedute da lui ho assistito a una scena che mi è rimasta impressa e che può aiutare a comprendere certe complessità della spiritualità neosciamanica e della sua strategia terapeutica. Ricordo che Mauro e Julio strimpellavano alla chitarra una delle tante canzoni composte da loro. Si intitolava Gesù Cristo mostrami il cammino dello yajé. Il testo era facile: si ripeteva il titolo una decina di volte, alternandolo con un breve ritornello in cui si invocava il Grande Spirito della Selva, affinché ci offrisse la giusta dose di visioni, ad libitum. Nel frattempo, il pubblico si limitava a pronunciare qualche «Heeeee! Hoooo!» di sostegno. Avevamo già bevuto le prime tazze di yajé e molti di noi (tra cui il sottoscritto) avevano già ricevuto le prime visioni. Catatonico, il mio sguardo si era depositato sull'altare di Mauro, su cui troneggiavano i soliti santini (quella volta aveva aggiunto un'Ultima Cena e un Sacro Cuore), qualche cristallo di quarzo, ametista e fluorite, i tarocchi, una corona di piume e un flauto yanomami. Devo aver pensato che si trattava di un cocktail creolo di cattolicità, animismo, alchimia, magia e stregoneria, o forse l'espressione variegata di uno stesso fenomeno. Stavo quasi cominciando a “volare” quando un grido proveniente dal giardino di Julio ha interrotto la mia estasi: «Cristo benedetto! Vergine santissima!». Le grida si ripetevano, sempre più forti. Con calma, Mauro si è alzato per andare a controllare cosa stesse succedendo. Era Alfonso l’apprendista che gridava, si rotolava per terra e si dimenava. Mauro si è seduto al suo lato e ha cominciato a cantare un icaro, un canto sciamanico lento e ripetitivo che nell'interpretazione di Mauro era diventato una lenta successione di bisillabi: «Maaaaa, moooo, beeee, baaaa, noooo, nuuuu...» Mauro ha impiegato più di un'ora per calmarlo, senza mai smettere di cantare. Julio gli sedeva accanto e con un ventaglio rinfrescava il volto di Alfonso. Gli altri discepoli, nel frattempo, erano rimasti in casa, in preda alle loro allucinazioni. Una volta che Alfonso si è riaddormentato ne ho approfittato per andare a fumare una sigaretta con Mauro il quale mi ha spiegato che: «L’ayahuasca può condurre a tali stati di disturbo quando l'anima del discepolo non è limpida e quando il suo spirito non è in equilibrio». Il giorno dopo ho avuto l’opportunità di parlare un po’ con Alfonso, che si era ripreso egregiamente dalle sue crisi notturne. Mi ha raccontato che la sera precedente aveva visto l'immagine della morte nera, del Cristo bianco e della Vergine azzurra. Quando gli ho chiesto se fosse cattolico mi ha risposto di no, che i suoi genitori erano ebrei e che lui non aveva mai assistito a una messa...
L'antropologo nordamericano Michael Brown scriveva che: «Lo sciamanismo afferma la vita ma al contempo genera violenza e morte»[20]. E l'isteria di Alfonso, placata dal potere ipnotico di Mauro, ci riporta al punto di partenza, a quelle testimonianze dei primi osservatori europei, che vedevano negli sciamani i rappresentanti del diavolo: anche loro, come Mauro, sapevano parlare inter pares con le forze demoniache che si erano impossessate degli infermi. Grazie al loro potere potevano immedesimarsi nel malato stesso, acquisendone la possessione e liberandolo attraverso un processo assai brutale di “trasferimento della possessione”. Ma Mauro, prodotto della Generazione X, ha imparato a liberarsi dalla possessione di Alfonso grazie allo Zen e con una Marlboro tra le labbra.
Il caso di Alfonso ci aiuta a comprendere per quale motivo i poteri di una pianta sciamanica come l’ayahuasca affascinino così tanto i seguaci di Mauro. Ci sono almeno tre ragioni che spingono le persone a testare il suo potere visionario: (1) la necessità terapeutica, (2) la ricerca spirituale, (3) il desiderio di provare nuove esperienze ed “emozioni forti”. Senza dimenticare che esistono anche tanti antropologi, medici, giornalisti e altri ficcanaso di professione (come il sottoscritto) che partecipano alle sedute sciamaniche a titolo di osservatori partecipanti con l'obiettivo di approfondire questioni relative alla cultura sciamanica, agli stati modificati di coscienza o al consumo di enteogeni.

Spirito di gruppo e deindividuazione


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Sciamano amazzonico
Il teologo e filosofo Johann Gotfried Herder, nel 1785, menzionava gli sciamani nella sua opera Idee per la filosofia della storia dell'umanità[21]. Il suo sguardo fu certamente più indulgente di quello della maggior parte dei suoi contemporanei: Herder notò che lo sciamano necessitava di una comunità di fedeli e comprese l'importanza dell'immaginazione collettiva negli ambiti rituali propri dello sciamanismo. L'esperienza con Mauro e la sua comunità mi ha confermato che le anticipazioni di Herder rimangono valide ancor oggi, nel terzo millennio. Sebbene Mauro e lo yajé si spartiscano più o meno equamente il ruolo di protagonisti sulla scena, di fatto è la comunità stessa che agisce come polo d'attrazione per i suoi membri. Julio, Alfonso, Carlos ed “el Pibe” me lo confermano: «La nostra comunità è una vera comunione di sentimenti ed emozioni. Ci sentiamo come compagni di un viaggio astrale: non siamo semplicemente amici». E, in fondo, nessuno di loro se la sentirebbe di affrontare in solitaria i livelli più alti (e più difficili) del cammino dell’ayahuasca, senza la guida di un “vero” sciamano e l'appoggio di un gruppo. L'agape di Mauro è la manifestazione di un'ecumene globale, che riunisce, con forme differenti, espressioni di una stessa dinamica: la ricerca spirituale in un contesto di gruppo, sotto la responsabilità di una guida e con l'aiuto di sostanze psicoattive. Dal punto di vista della psicologia sociale, la coesione ecumenica di questo gruppo neosciamanico, potenziata da un ritualismo sincretico e di facile accesso, è la condizione ideale per lo sviluppo di comportamenti deindividuati. Tale concetto descrive la perdita del senso di individualità e di responsabilità personale che può verificarsi quando qualcuno agisce come parte di un gruppo e, di solito, si associa ai comportamenti estremamente antinormativi di chi sa di potersi nascondere o confondere con la massa. In realtà, i discepoli di Mauro mi hanno ammesso candidamente la loro volontà esplicita di perdere il senso di individualità per far posto alla schiacciante identità del gruppo. Proprio a causa della riduzione del sentimento di responsabilità e come effetto della priorità assegnata alla coesione del gruppo i nostri psiconauti urbani hanno la tendenza ad agire in modo disinibito quando sono all’interno della loro comunità, accettando comportamenti non normativi - come l'uso di sostanze illecite - e formalizzando in maniera più rigida i confini che separano i membri del gruppo dagli "altri": un atteggiamento che, in fondo, corrisponde allo spirito gregario che si respira all’interno delle sette. Il prezzo pagato per poter godere dei favori del gruppo è particolarmente elevato e corrisponde con la costruzione sociale di un'identità ibrida che obbliga gli adepti a oscillare in maniera acrobatica tra la routine imposta dalla loro vita mondana e l’hic et nunc mistico della loro comunità, con risultati che, per quanto ne so, non sono mai stati analizzati dalla ricerca psicologica.
Se lo sciamanismo tradizionale, quello praticato dalle comunità indigene, faceva parte di una struttura sociale, appoggiandosi a una cosmologia condivisa dai membri del clan o della tribù e a cui era assegnato un obiettivo ben definito (il mantenimento dell'equilibrio omeostatico all'interno della comunità, delle relazioni pacifiche con i gruppi vicini e della gestione sostenibile dell’ambiente naturale), le comunità neosciamaniche, al contrario, subiscono gli effetti di un’asimmetria inconciliabile che separa l'ambizione al benessere spirituale e il modo di vita capitalista dei loro membri. In termini sociologici, potrebbe essere considerato come l’ennesima manifestazione di un feticismo capitalista imbellettato da un discorso controculturale che cerca di nascondere una scomoda realtà: il neosciamanismo, in fondo, non è altro che un prestazione mercantile che attribuisce qualità spirituali a un servizio commerciale e che richiede un investimento economico per poter beneficiare dell’accompagnamento spirituale di un terapeuta autodidatta all’interno di un contesto comunitario. Di modo che se un utente non disporre di risorse economiche sufficienti (i 35.000 pesos che ho pagato a Mauro o i 500.000 pesos richiesti dal Templo del Indio Amazonico) e se non è disposto ad accettare l’irresistibile identità del gruppo, allora non potrà mai godere del conforto spirituale offerta dalla comunità neosciamanica. Non è una faccenda di olismo, di magnetismo o di energia: si tratta di una semplice questione economica.

Ritorno alle origini


Nel marzo del 2007 venni invitato a una cerimonia di cui Mauro non era l'officiante principale. Con grande giubilo di tutti i partecipanti, Mauro aveva invitato solo per noi il suo amico Taita Oscar, un simpatico cinquantenne di etnia inga, nato e cresciuto a Puerto Leguizamo, in piena Amazzonia. Pensai che, finalmente, stavo per conoscere un vero sciamano indigeno. Non dovevo esser l'unico a pensarlo, dato che quella sera ci ritrovammo in sessanta ad accogliere il saggio amazzonico. Taita Oscar godeva di una certa fama di taumaturgo, soprattutto nei casi di emicranie, calcoli renali, licenziamenti senza giusta causa e infedeltà matrimoniali. Tra i suoi clienti più fedeli vi erano ministri, imprenditori, intellettuali di ogni credo politico e personaggi del mondo dello spettacolo.
Ricordo che la cerimonia cominciò con la recita, lo sguardo rivolto al cielo, del Padre Nostro e dell'Ave Maria. La distribuzione delle tazze di yajé era preceduta dal segno della croce, mentre Oscar baciava l'immaginetta del Sacro Cuore che teneva appesa al collo. Come Mauro, Oscar ha cantato, ha parlato, ha ascoltato e ci ha asperso con balsami e unguenti. Durante tutta la notte si è occupato di tutti i partecipanti, cercando e trovando le occasioni giuste per parlare con ciascuno di noi. Ogni tanto ha risposto al cellulare e ha scritto qualche SMS. Quando necessario, ha gridato contro qualche spirito intruso e qualche visione negativa. Ha ballato e si è dimenato, mentre volavo sotto gli effetti della DMT. Non ci ha letto i tarocchi, ma ci ha invitato a discutere delle nostre visioni con un caffè tra le mani e con digressioni varie sulla politica colombiana, il rispetto dell'ambiente, il valore della solidarietà o della giustizia. La mattina dopo è ripartito a bordo del suo SUV.
Ripensando a quella serata, mi sono reso conto di come gli sciamani - e i neosciamani - dovrebbero essere osservati non solo sulla base della loro funzione terapeutica, ma in quanto persone capaci di elaborare significati complessi, abili nell'influenzare così come nel generare attitudini e comportamenti rilevanti per la struttura sociale di riferimento. Nel caso dello sciamanismo postcoloniale (e moderno), il cerimoniale di questi taumaturghi va interpretato come un vero e proprio sforzo terapeutico, che manifesta epicamente la lotta che oppone una volontà umana (più o meno ordinata) e una realtà entropica e sfuggente: una lotta che si combatterà con le armi del terrore e con l'obiettivo di ottenere il controllo dell'ordine sociale (o, più esattamente, ecosistemico).
Osservando durante più di dieci anni Mauro, Oscar e tanti altri sciamani postmoderni, ho imparato a considerare questi personaggi come degli illusionisti cronici, capaci controllare differenti livelli di coscienza al contempo e ad agire in maniera performante (spesso introducendo innovazioni ed elementi esotici) per confermare la propria autorità. Grazie a queste illusioni, gli “sciamani della selva” come Taita Oscar sono sopravvissuti all'oblio, hanno traslocato verso le metropoli, hanno imparato lo spagnolo, il portoghese, l'inglese o il francese, hanno raccontato le loro storie ai giornalisti e si sono fatti invitare nei fori più prestigiosi del consesso internazionale (le organizzazioni internazionali governative e non governative, i forum terzomondisti, i centri di ricerca e le fondazioni caritative), mantenendo non solo la propria identità etnica di indigeni DOC ma la propria funzione di mediatori tra realtà di ordine diverso. Lo sciamanismo, inteso dunque come una visione del mondo antimoderna (ma che sa far uso degli strumenti della modernità), ci conferma ancora una volta la sua capacità di muoversi da un universo all'altro e nulla ci fa credere che possieda meno armi che altri sistemi di credenze per affrontare, da una prospettiva alternativa, le complessità di una modernità inquieta. Lo sciamano, istrionicamente, sa indossare l'abito giusto per ogni occasione.
Quando vivevo in Colombia, mi sono perso innumerevoli volte tra i corridoi dell'immensa collezione di manufatti di epoca preispanica del Museo dell’Oro di Bogotà, rifugio perfetto per chi, come me, ama riflettere in pace e all'ombra della storia. La visita della sua interminabile esposizione di oggetti dedicati al volo sciamanico e alla figura dello sciamano nell'epoca che precede la Conquista mi impressionava perché mostrava il livello di importanza che avevano assunto questi equilibristi del soprannaturale nelle differenti culture che hanno abitato lo spazio andino e amazzonico. Al giorno d'oggi le attribuzioni degli sciamani sono sicuramente percepite in maniera differente, soprattutto se teniamo in conto che in un contesto premoderno erano considerati dai membri delle loro comunità come il centro del mondo, il che sarebbe impensabile nel discorso neosciamanico, che si contraddistingue per il suo accento sulla comunità. La performance sciamanica si è modificata in funzione del differente registro e capitale culturale dei nuovi consumatori: in un processo di selezione per eliminazione, le conoscenze botaniche hanno lasciato il posto alle capacità di far uso di strumenti avanzati di comunicazione e de gestire relazioni economiche efficaci in un sistema di mercato aperto ma soggetto ai limiti imposti dalle strutture neoliberali di potere. Non aveva torto, in fondo, l'antropologo britannico Piers Vitebsky[22] che qualche anno fa scrisse che lo sciamanismo era un fenomeno camaleontico ed elusivo, intrappolato in un continuo processo di adattamento e di ricerca di una posizione stabile all'interno dei margini offerti dal sistema capitalista e dal villaggio globale. L'intenzione di questo saggio era proprio quella di confermare che, in fin dei conti, lo sciamanismo ha saputo adattarsi opportunamente, sopravvivendo all'urto della modernità e della postmodernità, e che per farlo ha saputo cambiare d'abito con una certa abilità, magari mettendo da parte le conoscenze botaniche tradizionali e preferendo le competenze informatiche e manageriali richieste dal villaggio globale. Quel che è certo è che, trattandosi di un fenomeno tremendamente coinvolgente, può avere effetti assai deleteri quando la mala fede dello sciamano di turno o la fragilità psicologica di qualche adepto non sono correttamente canalizzati.

Note


1) Devereux, George. 1961. “Shamans as Neurotics”. American Anthropologist, New Series (63) 5: pp. 1088–90.
2) Lévi-Strauss, Claude. 1963 [1958]. Structural Anthropology, New York, N.Y.: Basic Books.
3) Eliade, Mircea. 1964. Shamanism: Archaic Techniques of Ecstasy, New York: Pantheon.
4) Reichel-Dolmatoff, Gerardo. 2005. Goldwork and shamanism: an iconographic study of the Gold Museum of the Banco de la República, Colombia, Bogotá: Villegas.
5) Wasson, R. Gordon. 1957. “Seeking the Magic Mushroom”. Life, 13.5.1957, pp. 100–20.
6) Estrada, Alvaro. 2003 [1989]. Vida de María Sabina, la sabia de los hongos, México DF: Siglo XXI.
7) Castaneda, Carlos. 1968. The Teachings of Don Juan: A Yaqui Way of Knowledge, Oakland, CA: University of California Press.
8) Reichel-Dolmatoff, Gerardo. 1975. The Shaman and the Jaguar: a Study of Narcotic Drugs among the Indians of Colombia, Philadelphia: Temple University Press.
9) Burroughs, William S. e Ginsberg, Allen. 1963. The Yage Letters, San Francisco, CA: City Lights.
10) Dobkin de Rios, Marlene. 1994. “Drug Tourism in the Amazon”. Newsletter of the Society for the Anthropology of Consciouness (5) 1: pp. 16–19.
11) Ott, Eleanor. 1995. “Ethics and the Neo-shaman.” In Tae-gon Kim and Mihály Hoppál (ed.) Shamanism in Performing Arts. Bibliotheca Shamanistica 1, Budapest: Akadémiai Kiadó, pp. 243–52.
12) 12Reichel-Dolmatoff, Gerardo. 2005. Goldwork and shamanism: an iconographic study of the Gold Museum of the Banco de la República, Colombia, Bogotá: Villegas.
13) Fericgla, Josep M. 1997. Al trasluz de la ayahuasca. Antropología cognitiva, oniromancia y consciencias alternativas, Barcelona: Los libros de la liebre de marzo.
14) Shanon, Benny. 2002. The Antipodes of the Mind: Charting the Phenomenology of the Ayahuasca Experience, New York, N.Y.: Oxford University Press.
15) dos Santos, Rafael Guimarães. 2007. "Ayahuasca: neuroquímica e farmacologia". SMAD - Revista eletrônica saúde mental álcool e drogas (3) 1.
16) Samoylenko, Volodymyr; Md. Mostafizur Rahman; Babu L. Tekwani; Lalit M. Tripathi; Yan-Hong Wang; Shabana I. Khan; Ikhlas A. Khan; Loren S. Miller; Vaishali C. Joshi & Ilias Muhammad. 2010. “Banisteriopsis caapi, a unique combination of MAO inhibitory and antioxidative constituents for the activities relevant to neurodegenerative disorders and Parkinson's disease”. Journal of Ethnopharmacology (127) 2/3: pp. 357-367.
17) Taussig, Michael. 1987. Shamanism, Colonialism, and the Wild Man: A Study in Terror and Healing, Chicago: University of Chicago Press.
18) Di Nola, Alfonso M. 1976. Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino: Boringhieri.
19) De Martino, Ernesto. 1959. Sud e magia, Milano: Feltrinelli.
20) Brown, Michael F. 1989. “Dark Side of the Shaman”. Natural History (98) 11: pp. 8–10.
21) Herder, Johann Gotfried. 1992. Idee per la filosofia della storia dell'umanità, Bari: Laterza.
22) Vitebsky, Piers 1995. “From Cosmology to Environmentalism: Shamanism as Local Knowledge in a Global Setting.” In Fardon Richard (ed.) Counterworks: Managing the Diversity of Knowledge, Londra-New York: Routledge, pp. 182–203.

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