Mettere alla prova le teorie

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©Seriykotik1070
Canterton Manor, Inghilterra, fine anni Quaranta. Un uomo dall’aria distinta sta rigirando tra le mani un oggetto scintillante, sotto lo sguardo ammirato della figlia e dei loro ospiti. L’uomo è lo scrittore e avventuriero inglese F. A. Mitchell-Hedges, la donna è sua figlia Anna e l’oggetto è il celebre “Teschio del Destino”, un cranio di cristallo dall’aspetto ricercato e piuttosto sinistro. Secondo Mitchell-Hedges il Teschio del Destino sarebbe stato ritrovato per caso nel 1926 tra le rovine di una città Maya e risalirebbe al 1600 a.C. I Maya lo avrebbero costruito in ben 150 anni di lavoro certosino, di padre in figlio, sfregando a mano il quarzo con la sabbia. Ancora oggi la misteriosa origine del Teschio del Destino è al centro di miti, profezie e perfino film di Indiana Jones.

Fin qui la leggenda. Come spesso accade, la realtà è molto più prosaica. Nel 1988 Joe Nickell è riuscito a dimostrare che Mitchell-Hedges comprò il teschio a un’asta da Sotheby’s nel 1943: molto probabilmente il teschio è di fattura ottocentesca e tutta la storia dei Maya è un’invenzione dello scrittore inglese.

Ma come dovremmo fare se volessimo dimostrare scientificamente, e non solo secondo il buonsenso e il rasoio di Occam, che l’ipotesi giusta è quella del manufatto moderno, non quella dei Maya sabbiatori? Anche se costruissimo con strumenti dell’Ottocento un oggetto in tutto simile al Teschio del Destino, questo non dimostrerebbe con certezza che l’originale è stato fatto con gli stessi strumenti. Il punto non va trascurato perché la sperimentabilità è spesso al centro della discussione su scienze e pseudoscienze. Le affermazioni scientifiche, si dice, possono sempre essere messe alla prova con un esperimento, al contrario delle affermazioni pseudoscientifiche, tanto che l’espressione “metodo sperimentale” è comunemente usata come sinonimo di “metodo scientifico”.

Ma è davvero così? Se ci pensiamo un momento, ci rendiamo conto che neanche nelle discipline scientifiche è sempre possibile “fare un esperimento”, quantomeno non in tutte. Lo è nelle discipline più “dure” come la chimica o la fisica, ma che dire, per esempio, dell’archeologia, della biologia evoluzionistica, della geologia o della stessa astronomia? In genere nessuno mette in dubbio che anche queste siano scienze a pieno titolo, ma non sono “sperimentali” in senso stretto: hanno invece un approccio “storico”. In altre parole, non studiano i fenomeni nel momento stesso in cui accadono (come la fisica o la chimica), ma si occupano di ricostruire le cause che, in un passato più o meno remoto, hanno portato a un determinato fenomeno osservabile oggi, lasciando tracce non sempre evidenti. Riprodurre questi fenomeni in laboratorio è impossibile perché l’intervallo temporale è troppo vasto e le condizioni di contesto sono troppo complesse. Questo implica che lo status scientifico delle “scienze storiche” sia debole quanto quello delle fantasiose affermazioni di Mitchell-Hedges?

Secondo qualche scienziato, sì. Per esempio, Henry Gee, uno degli editor di Nature, ha scritto nel 1999:

(Le ipotesi storiche) non possono mai essere messe alla prova sperimentalmente e sono perciò non scientifiche. [...] Nessuna scienza potrà mai essere storica[1].

In realtà Henry Gee si sbagliava di grosso. Il punto chiave è che fare un esperimento in laboratorio non è l’unica strada per mettere alla prova un’ipotesi: ci sono altre possibilità, che le scienze storiche conoscono bene e che, come vedremo, possono essere utili anche nello studio dei misteri.

Lo spiega bene Carol Cleland, filosofa presso la University of Colorado, in un appassionato articolo sulla rivista della Geological Society of America[2]. Gee ha ragione, osserva la filosofa, quando dice che il modo di procedere degli scienziati sperimentali e degli “scienziati storici” è fondamentalmente diverso. L’attività degli scienziati sperimentali consiste nel riprodurre ripetutamente le condizioni specificate dall’ipotesi e osservare se i risultati coincidono con quelli previsti, controllando i fattori estranei che potrebbero produrre falsi positivi o falsi negativi. Come abbiamo visto, questo è impossibile per gli scienziati storici, che fanno qualcosa di diverso: formulano diverse ipotesi su determinati eventi passati e le mettono a confronto l’una con l’altra. Per loro il grosso del lavoro di verifica consiste nel cercare l’indizio risolutivo per capire quale ipotesi sia più plausibile alla luce dei fatti osservati: gli americani, che amano i gialli, parlano di smoking gun, la “pistola fumante” che permette di incastrare l’assassino.

Un esempio classico viene dalla cosmologia. L’osservazione dello spettro della luce emessa dalle galassie mostra che si stanno allontanando le une dalle altre, cioè che l’universo si sta espandendo. Negli anni Cinquanta due teorie erano in competizione per spiegare questo fenomeno: quella dello stato stazionario e quella del Big Bang.

La prima, sostenuta tra gli altri dall’astronomo britannico Fred Hoyle, prevedeva che l’Universo si espandesse attraverso la creazione continua di materia, secondo qualche meccanismo ancora sconosciuto. La teoria del Big Bang attribuiva invece l’origine dell’universo a uno stato estremamente denso e caldo che, tra i 13 e i 15 miliardi di anni fa, avrebbe cominciato a espandersi in una grande esplosione. Nel 1948 Ralph Alpher e Robert Herman calcolarono che, se le cose stavano davvero così, l’Universo avrebbe dovuto essere permeato da una “radiazione fossile” con determinate caratteristiche, una specie di eco dell’antica esplosione. Dovettero passare quasi vent’anni, ma nel 1965 Arno Penzias e Robert Wilson, che in realtà stavano lavorando ad altro, ottennero un premio Nobel scoprendo la radiazione cosmica di fondo, che corrispondeva esattamente alle previsioni. Avevano trovato la pistola fumante: il “colpevole” era il Big Bang.

Non sempre va così bene, naturalmente. Potrebbe capitare di non trovare mai la pistola fumante, senza sapere mai perché. Potremmo avere formulato un’ipotesi errata; l’indizio fondamentale potrebbe essere scomparso per sempre (una specie cruciale per ricostruire una catena evolutiva di cui, per pura sfortuna, nessun fossile è giunto fino a noi); o magari potremmo avere cercato nel posto sbagliato. Tuttavia, se si guarda con attenzione, si ha un po’ di fortuna e soprattutto si sa che cosa si sta cercando, il più delle volte si riesce a inchiodare il colpevole.

Tutto questo è vero anche in archeologia o, nel caso del Teschio del Destino, in fantarcheologia. Qual è la “pistola fumante” che può permetterci di scegliere tra l’ipotesi di un antico manufatto Maya e quella di un oggetto moderno? Il quarzo è un minerale duro e abbastanza fragile, piuttosto difficile da lavorare anche con le attrezzature di oggi: un artigiano che alla fine dell’Ottocento avesse voluto scolpire un oggetto complesso come un teschio non si sarebbe complicato la vita con strumenti primitivi, ma avrebbe usato attrezzature moderne, che lasciano segni differenti. Questa è stata l’idea dell’antropologa statunitense Jane MacLaren Walsh. La levigatura a mano lascia tracce irregolari e ondulate, come quelle presenti sulle statue precolombiane. Al contrario, l’uso di strumenti moderni come le mole rotative diamantate lascia segni ordinati e paralleli, perché gli abrasivi hanno grana omogenea e durezza elevata. Nel 2008 l’antropologa ha potuto finalmente esaminare il teschio e ha fatto alcuni calchi in silicone nelle zone meno accessibili del teschio, dove è difficile ottenere una levigatura perfetta ed è più probabile trovare tracce degli strumenti usati. Le fotografie al microscopio dei calchi mostrano tracce parallele e regolari, chiari indizi dell’uso di strumenti rotativi. Ecco la pistola fumante: il Teschio del Destino è un oggetto moderno e molto probabilmente di origine europea, così come altri due famosi teschi di cristallo custoditi al British Museum e alla Smithsonian Institution di Washington.

Insomma, le affermazioni scientifiche si possono davvero mettere alla prova, ma non necessariamente con un esperimento in laboratorio, anche gli editor di Nature possono prendere delle cantonate e Mitchell-Hedges era un contafrottole matricolato. Ma non ditelo a Indiana Jones.

Note

1) GEE, Henry, In Search of Deep Time, The Free Press, New York, 1999. Citato in PIGLIUCCI, Massimo, Nonsense on Stilts. How to tell Science from Bunk, The University of Chicago Press, Chicago and London, 2010.
2) CLELAND, Carol, “Historical science, experimental science, and the scientific method” Geology, 29, 2001, pp. 987-990.
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