Il potere delle aspettative

Per mettersi al sicuro dall'effetto dovuto alle aspettative dei soggetti e da quello dovuto alle aspettative del ricercatore si utilizza un protocollo ''doppio cieco''

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© Cristina Visentin
Nello scorso numero di questa rubrica abbiamo parlato del campione di controllo: volendo verificare l’efficacia di un antibiotico o dell’imposizione delle mani di un sensitivo devo confrontarne gli effetti con quello che succede in assenza del medicinale (o del fluido pranico). Per mettere alla prova la mummificatrice di uova, avevamo confrontato venti uova su cui la signora aveva imposto le mani con venti uova dalle quali la signora era stata tenuta accuratamente lontana.

In molti casi, tuttavia, la situazione è un po’ più complicata. Supponiamo per esempio di voler verificare l’efficacia di un medicinale non in vitro su una coltura di batteri, ma su un campione di pazienti. Le cose sono complicate dall’effetto placebo: è possibile ottenere effetti benefici da una cura che magari non serve a nulla se il paziente si aspetta che funzioni davvero. Ne parleremo più approfonditamente in un prossimo numero; qui ci interessa osservare semplicemente che gli effetti di una terapia sono sempre dovuti in parte alla terapia stessa e in parte all’aspettativa del paziente. Come conseguenza, per mettere alla prova un nuovo farmaco è necessario verificare anche quanto dei benefici sono dovuti all’effetto placebo. Non mi basterà perciò avere un gruppo di controllo, ma dovrò anche trattare i pazienti di questo gruppo nel modo più simile possibile a quelli del gruppo principale. Somministrerò perciò loro, con le stesse modalità degli altri, una pillola priva del principio attivo, ma del tutto indistinguibile da quella vera. I pazienti non sono però batteri o uova da mummificare; se sanno di far parte del gruppo di controllo non si aspetteranno grandi risultati. Dovrò quindi fare in modo che l’aspettativa sia la stessa per i pazienti di entrambi i gruppi: il modo più semplice è non dire di quale gruppo fanno parte. È il primo esempio di uno strumento che prende il nome di protocollo cieco: i pazienti sono “ciechi” alla differenza tra il farmaco vero e il placebo, quindi le loro aspettative saranno le stesse.

L’effetto placebo è una manifestazione di un fenomeno più generale che va sotto il nome di effetto aspettativa: le aspettative di un soggetto possono influenzare in modo inconsapevole il suo comportamento o persino le sue condizioni fisiche. Nelle scienze sperimentali, in particolare, prende il nome di effetto sperimentatore: l’involontaria preferenza di un ricercatore per un particolare risultato della sua ricerca, per esempio perché conferma una precedente misura. Non c’è bisogno di imbrogliare o di sbagliarsi grossolanamente, può essere sufficiente controllare più accuratamente i risultati che ci paiono in contrasto con la nostra teoria per introdurre un subdolo artefatto nei dati. Per esempio, immaginate un esperimento di chimica in cui una reazione debba provocare un cambiamento di colore in una provetta. Facciamo l’esperimento dieci volte, cinque volte il cambiamento avviene e cinque no. Se la mia aspettativa è che la provetta cambi colore, sarò tentato di guardare due volte quelle in cui non cambia. Se, ricontrollandoli più attentamente, trovo che in due dei cinque casi la provetta era sporca, posso scartarli: ecco che il cambiamento di colore avviene cinque volte su otto e la mia teoria è confermata. Ma magari c’erano due casi da scartare anche tra i cinque in cui la reazione avveniva correttamente, e che non avevo ricontrollato perché mi sembravano “giusti”, nel senso che corrispondevano alla mia aspettativa.

Al proposito, il chimico americano Irving Langmuir (premio Nobel nel 1926) racconta un aneddoto interessante[1]. Intorno al 1930 due scienziati della Columbia University, Bergen Davis e Arthur Barnes, stavano eseguendo una serie di esperimenti in cui un fascio di elettroni, emessi da un filamento incandescente e opportunamente accelerati, viaggiavano in un tubo a vuoto raggiungendo poi uno schermo fluorescente su cui producevano un piccolo ma percettibile brillìo. Davis e Barnes contavano il numero di scintillazioni nell’arco di un determinato intervallo di tempo al variare del campo elettrico che accelerava gli elettroni, che poteva essere spento o assumere valori a piacere. L’esperimento era in realtà più complicato, per esempio il fascio di elettroni era sovrapposto a un fascio di particelle alfa, ma i dettagli non sono qui necessari. Per alcuni valori della tensione, che corrispondevano a quelli calcolabili secondo una certa equazione, si osservavano brusche diminuzioni del numero di scintillazioni sullo schermo, cioè degli elettroni che lo raggiungevano. La loro scoperta contraddiceva numerose convinzioni della fisica nucleare dell’epoca, ma era forse possibile trovare un’interpretazione soddisfacente (la cattura degli elettroni da parte delle particelle alfa). Alcuni eminenti fisici teorici contemporanei tentarono di comprendere il fenomeno, avanzando alcune ipotesi di spiegazione. Insomma, un risultato inatteso e sorprendente che metteva in discussione molto, ma non completamente implausibile. Alcuni fatti insospettirono però Langmuir, in visita alla Columbia per osservare un così curioso esperimento. In primo luogo, l’intervallo in cui le scintillazioni venivano contate sarebbe dovuto essere di due minuti ma, come ci si può aspettare, non lo era sempre esattamente. Non solo: anche le misure di tensione elettrica erano apparentemente più precise di quanto, secondo Langmuir, ci si potesse aspettare dalla strumentazione. Niente di male se gli errori si fossero tradotti in equivalenti variabilità nel numero di conteggi, ma questi erano stranamente precisi e ripetibili. Immaginando di avere un centinaio di conteggi al minuto (più o meno quello misurato da Barnes), era come se contando per 50 secondi oppure addirittura per 80 si continuasse a ottenere sempre 100: qualcosa non tornava.

I conteggi venivano eseguiti in una stanza parzialmente oscurata; un assistente regolava la tensione al valore richiesto da Barnes, quindi quest’ultimo iniziava a contare le scintillazioni. Barnes dunque sapeva se aspettarsi un numero alto oppure no di conteggi, perché sapeva a quale valore della tensione era regolato il dispositivo. Langmuir suggerì di cambiare il modo di eseguire le misure: scrisse una sequenza di valori per la tensione, ordinati casualmente, e li passò all’assistente senza comunicarli a Barnes. Quando, di tanto in tanto, era richiesta una misura con la tensione spenta, l’assistente, che in tal caso non doveva regolare niente, si appoggiava allo schienale della sedia. Langmuir gli suggerì di far finta di regolare la tensione, in modo che chi osservava le scintillazioni non avesse alcun modo di distinguere. Da quel momento in poi, il numero di scintillazioni contate da Barnes divenne completamente indipendente dalla tensione applicata: con l’introduzione di un protocollo cieco, il misterioso “effetto Barnes-Davis” era sparito. L’onestà e la buona fede di Barnes non furono mai messe in discussione: Barnes era davvero convinto di misurare un effetto reale.

Per mettersi al sicuro contemporaneamente dall’effetto placebo (dovuto alle aspettative dei soggetti) e dall’effetto sperimentatore (dovuto alle aspettative del medico) si può introdurre un protocollo doppio cieco: né il paziente né il medico sanno se la pillola è un placebo o un vero farmaco. In realtà questo serve anche a far sì che il possibile diverso atteggiamento del medico nei due casi influenzi le aspettative del paziente e, di conseguenza, l’effetto placebo.

Nella sperimentazione sui fenomeni misteriosi e presunti paranormali, il protocollo cieco è uno strumento indispensabile e usato molto spesso. Per fare un solo esempio, un anziano signore si presentò al CICAP sorpreso dalla sua abilità di distinguere i vivi dai morti usando un pendolino su una fotografia: se la persona ritratta era ancora viva, il pendolino cominciava a ruotare, se era morta rimaneva fermo. Grazie all’azione ideomotoria, se ci si aspetta che il pendolino si muova, piccoli movimenti inconsapevoli della mano lo possono fare muovere davvero, e viceversa. Quindi, si trattava di verificare se i movimenti del pendolino non fossero dovuti alla sua aspettativa piuttosto che a un misterioso potere di chiaroveggenza. Quando gli furono sottoposte una quarantina di fotografie di soggetti, tutti a lui sconosciuti, diede la risposta giusta nel 50% dei casi, cioè esattamente come se avesse tirato a indovinare. Osservando sconsolato i risultati dell’esperimento, commentò che «con le fotografie delle persone che conosco funziona sempre...». Come Barnes, era caduto vittima di un protocollo sperimentale mal progettato.

Nota

1) Physics Today nel 1989.

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