Sull'idea di natura

Proposta spesso come entità indipendente dalla presenza umana sulla Terra, la “natura” è un’invenzione profondamente culturale, che rappresenta più un ideale che un’idea

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© Polina Bottalova/iStock
Nel 1956, Achille Campanile (1899-1977) divenne padre. Non avendo ancora ottenuto l’annullamento del precedente matrimonio, il figlio, secondo la morale e il diritto dell’epoca, era considerato naturale o illegittimo. Con il caustico umorismo che lo contraddistingueva, Campanile prese spunto dalla sua vicenda personale per costruire un dialogo teatrale intitolato Acqua minerale[1]. In esso un cliente pignolo e pedante e un paziente cameriere intessono un surreale scambio di battute che gioca intorno alle parole naturale, minerale e illegittimo. Lo stralunato ed esilarante colloquio termina con queste due battute. Il cameriere, oramai esausto, afferma: «Voglio dire, suo figlio è naturale e beve acqua minerale, è legittimo e beve acqua naturale, o è legittimo e beve acqua minerale?» E il cliente risponde: «No! No! Mio figlio è minerale e beve acqua legittima!»

La divertente pièce teatrale di Campanile è solo un esempio di come il termine “naturale” possa essere usato assumendo, di volta in volta, significati differenti. L’aggettivo “naturale”, e il sostantivo “natura” da cui esso deriva, vengono abitualmente utilizzati dando per scontato che abbiano un significato ben definito e univoco. In realtà, basta ragionarci un attimo per renderci conto che si tratta di termini piuttosto ambigui.

La parola “natura” deriva dal futuro del verbo latino nasci (nascere). Letteralmente significa quindi “ciò che sta per nascere”. Con questo termine i latini traducevano la parola greca φὑσις (physis). Quest’ultima, derivante a sua volta dalla radice φὑω (phyo) (che significa “genero”, “cresco”), stava a indicare tutto ciò che è generato, ovvero la totalità delle cose esistenti. In questo senso natura sarebbe sinonimo di realtà. Da questo punto di vista non avrebbe alcun senso la distinzione tra naturale e artificiale, comunemente intesa. I sofisti furono i primi a sottolineare una contrapposizione tra uomo e natura. Lo stesso pensiero sofista concepì per primo l’idea di uno stato di natura in cui l’uomo, al pari degli altri esseri viventi, fosse completamente regolato dalle leggi naturali. L’idea verrà ripresa in seguito da altri autori. La contrapposizione tra uomo e natura, tuttavia, è solo apparente. L’uomo stesso, in quanto specie biologica, appartiene alla natura. In senso lato, quindi, anche tutto ciò che fa rientra nell’ordine naturale delle cose.

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D’altra parte l’uomo non è l’unica specie vivente a modificare l’ambiente in cui vive. Si possono fare molti esempi. I castori riescono a costruire dighe di impressionanti dimensioni, alte circa un metro e mezzo e larghe più di tre metri alla base. Nel parco nazionale delle Montagne Rocciose, in Colorado, venne trovata una diga lunga più di 300 metri. Le dighe dei castori creano bacini artificiali che modificano profondamente il territorio; col tempo si riempiono di sedimenti e la zona, abbandonata dai castori, si trasforma in un prato. Le tèrmiti sono in grado di realizzare enormi termitai che possono sfiorare i sette metri di altezza. Sorprendente è anche la loro complessità strutturale che prevede canali interni di aerazione e climatizzazione, stanze adibite a funzioni speciali, “orti” per la coltivazione di funghi. Analogamente, l’uccello tessitore realizza enormi nidi che possono ricoprire interi alberi, veri e propri condomini dove vivono fino a 300 coppie di uccelli.

Forse però l’esempio più eclatante di come alcune specie biologiche non umane possano modificare l’ambiente in profondità è costituito dai cianobatteri e dalle piante verdi. Con la fotosintesi clorofilliana, infatti, essi hanno modificato radicalmente la composizione dell’atmosfera terrestre.

Si ritiene, con elevato grado di attendibilità, che l’atmosfera della Terra primordiale fosse costituita da anidride carbonica (CO2), gas leggeri quali l’idrogeno (H2) e l’elio (He) e da quantità rilevanti di metano (CH4), ammoniaca (NH3) e azoto (N2). Grandi cambiamenti furono poi determinati anche dall’attività vulcanica e dall’impatto con meteoriti. Inizialmente piccole quantità di ossigeno si sarebbero formate in seguito alla decomposizione del vapore acqueo causata dai fulmini e dalla radiazione solare. Dopo la comparsa della vita e dei primi organismi operanti la fotosintesi clorofilliana, l’atmosfera ha subito ulteriori profonde modificazioni. La quantità di anidride carbonica è progressivamente diminuita, mentre quella di ossigeno è aumentata fino ai valori attuali (circa il 20%). Questi cambiamenti hanno determinato profonde mutazioni su tutto il pianeta. La diminuzione della concentrazione di anidride carbonica ha ridotto l’effetto serra, con conseguente abbassamento della temperatura media terrestre. Per molte forme di vita l’elevata concentrazione di ossigeno atmosferico è stata fatale, mentre altre si sono adattate e hanno iniziato a riprodursi e a evolversi biologicamente. Noi stessi siamo figli di queste profonde mutazioni ambientali.

Come dobbiamo considerare le dighe dei castori, i termitai, i nidi dell’uccello tessitore e l’attuale atmosfera terrestre? Naturali o artificiali? È questione di pure definizioni e di convenzioni linguistiche: in genere chiamiamo artificiale ciò che viene fatto volontariamente dall’uomo e naturale tutto ciò che non lo è, compreso però ciò che viene fatto da altre specie non umane. Non bisogna dimenticare che si tratta, appunto, di definizioni cui non corrisponde una vera e propria differenza ontologica. Come mai allora si sente continuamente parlare di natura contrapposta all’uomo, della necessità di proteggerla dalle attività umane, di responsabilità dell’uomo nei suoi confronti e della superiorità di ciò che è naturale rispetto a ciò che è creato dall’uomo?

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L’idea di natura è tutt’altro che chiara e ben definibile. Come è stato correttamente affermato, «Natura è uno dei termini più ambigui della storia della filosofia, e forse dell’intera cultura occidentale. Insieme con l’aggettivo naturale, ha assunto una quantità e diversità di significati impressionante»[2]. È quindi inevitabile che il concetto di natura non sia qualcosa di indipendente ed esterno all’uomo, ma, al contrario, è strettamente legato alla cultura che l’uomo possiede in un determinato periodo storico. Come ha scritto Gilberto Corbellini: «È stato detto, dimostrato e ribadito in quasi tutte le salse che non c’è niente di più culturale dell’idea di natura. Nondimeno ci sono altrettante prove del fatto che non c’è niente di più difficile da sradicare dell’idea che esistano situazioni che sono per definizione naturali o più naturali di altre. Un’idea che in sé non avrebbe nulla di problematico se, per motivi che dipendono anche dalla nostra natura, non viaggiasse sempre in compagnia del pregiudizio, per cui ciò che è considerato “naturale”, in quanto tale viene giudicato più “buono”, più “giusto”, più “sano” e più “sicuro”»[3].

Naturale è sempre buono?


Smentire l’eguaglianza “naturale=buono” è molto facile. È piuttosto evidente che esista un’infinità di cose naturali che non sono affatto buone: i veleni più potenti sono naturali, come pure i virus e i batteri che causano terribili malattie, i terremoti, le alluvioni, gli uragani, eccetera. Un caso di cronaca di qualche anno fa mostra chiaramente quanto sia pericoloso credere nella bontà di ciò che è naturale. Nel settembre 2017, una coppia di coniugi veneziani era in vacanza a Folgaria, in Trentino. Durante un’escursione trovarono dei graziosi fiori rosa-violetto che scambiarono per zafferano selvatico. Raccolti i fiori e tornati a casa, prepararono un gustoso risotto. Entrambi morirono nel giro di pochi giorni. L’autopsia dimostrò al di là di ogni dubbio che responsabili del decesso furono proprio i graziosi fiorellini. Si trattava infatti di colchico autunnale, detto non a caso falso zafferano, i cui fiori contengono la colchicina, un alcaloide fortemente tossico, che viene definito significativamente anche “arsenico vegetale”. Il colchico autunnale è un fiore perfettamente naturale che cresce spontaneamente nei boschi senza alcun intervento umano.

La presenza di sostanze estremamente tossiche in prodotti perfettamente naturali ci permette di analizzare e smontare un altro mito molto diffuso, quello secondo il quale le sostanze naturali sarebbero buone, mentre quelle “chimiche” sarebbero dannose. Mito, tra l’altro, ampiamente utilizzato nel mondo pubblicitario.

Qualche anno fa, per esempio, una nota marca italiana di salumi pubblicizzava la propria mortadella con un buffo spot. Dopo aver dichiarato “via i conservanti, via i coloranti, via gli additivi chimici”, lo spot si concludeva con questo perentorio slogan: “Zero chimica, 100% naturale”. Lo slogan può essere efficace dal punto di vista del marketing, ma è una vera e propria idiozia dal punto di vista scientifico e, soprattutto, dal punto di vista chimico. Già è piuttosto curiosa l’espressione “100% naturale”: forse le mortadelle si trovano già belle e pronte in natura? Non credo. Ma al di là del fatto che la mortadella sia o no naturale, ancor più senza senso è l’affermazione “zero chimica”. Cosa significa? Forse nella mortadella non vi sono sostanze? Non vi sono molecole? Forse gli ingredienti “naturali” presenti nel salume non sono sostanze chimiche? Qualsiasi sostanza, naturale o artificiale, è fatta di molecole e ciò che ne determina le caratteristiche, buone o cattive che siano, è la sua struttura molecolare, del tutto indipendente dalla sua origine.

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Uomo e natura


Per millenni, almeno in Occidente, è prevalsa una concezione antropocentrica che considerava la natura come qualcosa di cui l’uomo poteva disporre a proprio piacimento. La concezione giudaico-cristiana, ben espressa dalla Bibbia, attribuisce all’uomo il ruolo di “signore del creato” e, come tale, gli conferisce la facoltà di disporre di tutto ciò che trova in natura.

La nascita della scienza moderna ha sì esaltato lo studio della natura ma, secondo alcune concezioni, la conoscenza della natura era finalizzata al suo dominio. Francesco Bacone (1561-1626) ha esplicitamente espresso tale concezione.

L’ipotetico stato di natura in cui sarebbero vissuti gli uomini è stato preso in considerazione da vari filosofi, in particolare Thomas Hobbes (1588-1679), John Locke (1632-1704) e Jean-Jacques Rousseau (1712-1778).

Se per Hobbes lo stato di natura è caratterizzato da una continua guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes), Locke sostiene invece che l’uomo possegga, per natura, un’innata predisposizione alla giustizia e alla pace. Esisterebbe cioè una legge naturale che precederebbe quella sociale. Con Rousseau si assiste a una vera e propria esaltazione dello stato di natura. L’uomo primordiale era buono e animato da una naturale predisposizione alla compassione e alla pietà verso i propri simili. Si tratta del celebre mito del buon selvaggio. Il progresso e la civiltà avrebbero corrotto e degenerato l’uomo a livello psicologico e morale. Da qui sarebbero derivate tutte le ingiustizie che caratterizzano le società moderne: dipendenza reciproca degli uomini, creazione di gerarchie, diseguaglianze sociali, sfruttamento dei più deboli da parte dei potenti, eccetera.

Prima di Rousseau già altri autori avevano sostenuto la superiorità dell’uomo non civilizzato rispetto a quello moderno. Questo mito è stato interpretato come una reazione nei confronti dei trattamenti, spesso crudeli, e dello sfruttamento cui venivano sottoposte le popolazioni indigene dei territori (Africa, Asia e Americhe) conquistati dagli Europei a partire dal XV secolo con l’avvento delle grandi esplorazioni geografiche. I conquistatori europei consideravano queste popolazioni inferiori sia intellettualmente che socialmente e questo consentiva loro di difendere la legittimità dello sfruttamento cui venivano sottoposte. Alcuni pensatori, tra cui ricordiamo John Dryden (1631-1700), Anthony Ashley Cooper, conte di Shaftesbury (1671-1713), Richard Steele (1672-1729), che non approvavano questo sfruttamento, iniziarono a sostenere per reazione la superiorità dei cosiddetti selvaggi. Il buon selvaggio sarebbe stato superiore all’uomo moderno perché era in grado di vivere in perfetta armonia con la natura, sarebbe stato caratterizzato da generosità, altruismo, innocenza, sincerità, fedeltà e altre virtù morali, avrebbe posseduto una eccezionale salute fisica, una naturale intelligenza e una grande saggezza innata.

Queste affermazioni, in un’epoca in cui l’antropologia e l’etnologia non erano ancora nate, erano frutto dell’immaginazione degli autori e non avevano alcun riscontro fattuale. Esercitavano però un notevole fascino: pensare di essere naturalmente buoni e di essere degenerati per colpa della civiltà, evidentemente, rappresentava per molti una forma di consolazione e di alleggerimento dei propri sensi di colpa.

Lo sviluppo tecnico-scientifico che ha caratterizzato gli ultimi secoli ha portato a uno sfruttamento indiscriminato della natura da parte dell’uomo. Per reazione a esso sono nate le filosofie di ispirazione ambientalista. Esse hanno in comune la messa in discussione dell’antropocentrismo assoluto che ha caratterizzato la cultura occidentale fino ai nostri giorni. Contrariamente a quanto è successo riguardo alla credenza nella presunta superiorità dell’uomo selvaggio, priva di riscontri oggettivi, le filosofie ambientaliste hanno alcuni fondamenti fattuali. Il progresso della scienza ha infatti messo in evidenza la forte dipendenza che ogni essere vivente ha nei confronti dell’ambiente. Anche l’uomo deve quindi salvaguardare il proprio ambiente poiché da esso dipende la sua stessa sopravvivenza.

La comunità scientifica ha contribuito a diffondere questa consapevolezza a partire dagli anni Settanta. Nel 1972 viene diffuso il celebre rapporto del MIT sui limiti dello sviluppo (Rapporto Meadows), commissionato dal Club di Roma. Esso affermava che la crescita economica non sarebbe potuta continuare indefinitamente a causa della limitata disponibilità di risorse naturali (primo fra tutte il petrolio). Inoltre la capacità del pianeta Terra di assorbire inquinanti era inevitabilmente limitata e questo avrebbe dovuto indurre un profondo ripensamento del modello di sviluppo delle società avanzate.

La crisi energetica degli anni '70, le rivendicazioni studentesche e femministe, il timore dell’inquinamento e della crescita demografica, le diffidenze verso il modello economico capitalista furono i fattori che hanno contribuito al diffondersi di movimenti che lottano per la difesa della natura e dell’ambiente. Qualcuno ha parlato della nascita di un nuovo paradigma ambientale: il cosiddetto NEP (New Ecological Paradigm). Esso avrebbe dovuto sostituire quello tradizionale antropocentrico che fino a quel momento aveva condizionato le scelte politiche e sociali dei diversi paesi. L’ambiente diventa un tema centrale che non può essere ignorato in qualsiasi scelta politica. I rapporti uomo/natura subiscono una vera e propria inversione: la natura non deve più essere dominata, ma occorre imparare a vivere in equilibrio e armonia con essa.

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Le filosofie di ispirazione ambientalista hanno preso sostanzialmente due direzioni. La cosiddetta ecologia di superficie[4], facendo riferimento a ciò che la scienza afferma, sostiene la necessità di modificare le nostre concezioni nei confronti della natura. Se vogliamo sopravvivere, dobbiamo preservare l’ambiente in cui viviamo poiché da esso dipendiamo. In tal senso l’ecologia di superficie mantiene una certa dose di antropocentrismo.

L’ecologia profonda[5] (deep ecology) propone invece un radicale cambiamento nella scala dei nostri valori. Lo slogan che caratterizza questa tendenza è che «il nostro io ecologico non è limitato alla nostra pelle»[6]. La deep ecology propone sostanzialmente un recupero della visione prescientifica della natura e assume inevitabilmente atteggiamenti antiscientifici, giungendo a una sorta di sacralizzazione della natura. In alcuni autori la critica nei confronti della scienza è esplicita. La scienza viene apertamente accusata di essere all’origine della distruzione della natura. La storica Carolyn Merchant (n. 1936) nel suo celebre The Death of Nature del 1979 sostiene che la natura è stata uccisa proprio dalla concezione meccanicistica tipica della scienza: «L’eliminazione dei postulati animisti e organici relativi al cosmo rappresentò la morte della Natura, l’effetto di maggior portata della rivoluzione scientifica. Poiché la Natura era vista come un sistema di particelle morte e inerti mosse da forze esterne, anziché interne, lo stesso schema meccanico poteva legittimare la manipolazione della Natura. Inoltre, come struttura concettuale, l’ordine meccanico era stato associato a un sistema di valori basati sul potere, totalmente compatibile con la direzione che stava prendendo il capitalismo commerciale»[7].

Sacralizzare la natura


Molte posizioni che caratterizzano la deep ecology appaiono estremiste e, in ultima analisi, irrazionali. La sacralizzazione della natura non è dissimile da alcune forme di dogmatismo fondamentalista di carattere religioso.

Molti ambientalisti hanno una visione sostanzialmente manichea e sembrano credere all’idea di una morale assoluta e universale cui ispirare il proprio comportamento. Il concetto di natura incontaminata che segue un percorso ordinato e razionale in linea con una moralità superiore è un’idea mitologica di tipo fideistico e privo di ogni riscontro con il reale. Queste derive fondamentaliste inducono alcuni ambientalisti ad assumere posizioni palesemente antiscientifiche e antiprogressiste.

In certi casi si raggiunge l’eccesso, come in quelle forme estreme chiamate talvolta ecofascismo. Per esempio, l’ecologista profondo finlandese Kaarlo Pentti Linkola (1932-2020) riteneva che la cancellazione del genere umano fosse l’unica soluzione praticabile per la salvaguardia del resto della biosfera e per raggiungere questo obiettivo non esitava a criticare la democrazia e a giustificare le dittature e varie forme di darwinismo sociale. Nel 2007, l’autore della strage nel liceo finlandese di Jokela, che costò la vita a otto studenti, dichiarò di avere tra gli ispiratori anche Pentti Linkola. Indossava inoltre una maglietta con la scritta Humanity is overrated, l’umanità è sopravvalutata. Intervistato, Pentti Linkola affermò che i morti erano stati troppo pochi e che sarebbe stato necessario intraprendere forme più ampie di de-popolazione.

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Natura, morale e tradizione


Senza arrivare a questi eccessi, molte persone si rifanno spesso alla natura credendo di individuare in essa una guida ai propri principi morali. Fin dall’antichità si è creduto alla possibilità di fondare un “diritto naturale” che potesse avere una validità universale. Purtroppo i sostenitori del giusnaturalismo non sono mai riusciti a controbattere efficacemente alle numerose e fondate critiche di cui sono stati oggetto.

Curiosamente, oggi le istanze giusnaturalistiche, anche se hanno perduto molta popolarità, sopravvivono in coloro che, per motivazioni fondamentalmente religiose, cercano nella natura un modello cui ispirare la propria e altrui condotta sessuale. Tuttavia l’idea di naturalità di coloro che credono a un’etica sessuale naturale è ben diversa da quella che emerge dall’esame obiettivo della realtà. Ciò che essi chiamano naturale è, in ultima analisi, solamente ciò che la loro storia personale, la loro educazione, la loro cultura li ha portati a ritenere “normale”.

Essi considerano naturale semplicemente ciò a cui sono abituati. Una cosa diventa automaticamente naturale perché è sempre (un “sempre”, tra l’altro, molto soggettivo) stata fatta e poco importa se essa non avvenga affatto in natura e sia di origine puramente umana. In pratica la natura viene confusa con la tradizione. Prova ne è che coloro che esaltano un ritorno alla natura sono gli stessi che propagandano la necessità di un ritorno a un “sapere nostalgico”[8], a un ipotetico e idealizzato passato in cui tutto era migliore, a cominciare, appunto, dal rapporto armonioso tra uomo e natura, che sarebbe stato rotto dal progresso tecnico-scientifico.

Lo stesso atteggiamento che confonde natura e tradizione lo si ritrova in vari ambiti, per esempio in quello agroalimentare. Nessun prodotto ortofrutticolo che troviamo normalmente sul banco del mercato è mai esistito spontaneamente in natura. Lo stesso dicasi per le specie animali che alleviamo. Esse sono frutto di lunghe selezioni che l’uomo ha attuato da quando, rinunciando al nomadismo e attuando il processo di domesticazione delle piante e degli animali, è diventato agricoltore.

Lo stesso paesaggio agricolo che siamo abituati a vedere e che ci ispira sentimenti di unione con la natura, è in realtà quanto di più artificiale si possa immaginare. Appare quindi piuttosto buffo che questi paesaggi artificiali, modellati dall’uomo con trattori e scavatrici, ricoperti di colture, frutto di millenni di selezione genetica, vengano utilizzati nel campo della comunicazione pubblicitaria come simbolo della natura.

Il problema è che ormai siamo talmente abituati a vedere certe cose in un certo modo che le consideriamo naturali, come se fossero sempre esistite così come noi le vediamo. Ma questa nostra tendenza a una concezione “fissista” della realtà è totalmente illusoria ed è alla base di moltissimi fraintendimenti sul concetto di natura. Si potrebbero fare molti altri esempi di prodotti agricoli che nell’immaginario collettivo hanno oramai acquisito caratteristiche considerate perfettamente naturali, ma che in realtà di naturale non hanno proprio nulla. D’altronde, anche senza l’intervento dell’uomo, la natura si evolve spontaneamente e non è mai uguale a sé stessa. Pretendere quindi un rigoroso rispetto di una natura tanto ipotetica quanto indefinibile appare un obiettivo non solo irrealizzabile ma anche francamente piuttosto privo di senso. Anche molti prodotti che ormai consideriamo tipici delle nostre zone provengono in realtà da luoghi remoti: solo che questo è accaduto molto tempo fa e ce ne siamo semplicemente dimenticati.

È inevitabile quindi che tale concezione, che identifica natura e tradizione, porti ad atteggiamenti conservatori e anti-progressisti. Quello che stupisce è che tale atteggiamento trovi consensi proprio in quelle parti politiche e culturali che, per loro stessa tradizione, dovrebbero essere progressiste. Che questo passato idealizzato venga poi smentito da qualsiasi resoconto storico (che mostra inesorabilmente la misera realtà in cui si viveva un tempo) poco importa. La convinzione secondo la quale “si stava meglio quando si stava peggio” è diventata un’ideologia diffusa.

I bei tempi antichi, i sapori di una volta, i rimedi della nonna, la genuinità di certi prodotti, l’armonia con la natura sono richiami che esercitano un fascino irresistibile su molti individui. È quindi inevitabile che di essi si sia impadronito il marketing. “Ecologico”, “biologico”, “verde”, “naturale”, “genuino”, “tipico”, “di una volta”, “sostenibile”, sono ormai termini che ricorrono costantemente nel linguaggio pubblicitario. È piuttosto paradossale che ciò che è nato come contrapposizione e rifiuto della società consumistica sia oramai utilizzato proprio per aumentare i consumi.

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Conclusioni


La distinzione tra naturale e artificiale non è poi così netta ed evidente come molti ingenuamente ritengono. Molte persone hanno un’idea di natura che si può ricondurre al concetto filosofico e psicologico di essenzialismo. Gli psicologi ci insegnano che noi tendiamo a essere spontaneamente essenzialisti. Tendiamo cioè a pensare che certe categorie di cose posseggano un loro principio interno, un’essenza per l’appunto, che non è direttamente osservabile, ma che ne definisce l’identità e che è responsabile delle somiglianze tra i membri appartenenti alla stessa categoria.

Questa tendenza essenzialista porta molti di noi ad attribuire un particolare significato e valore al concetto di naturalità. Per molte persone, per esempio, una sostanza di origine naturale è intrinsecamente diversa da una di origine artificiale, anche se la chimica ci dice che le due sostanze sono indistinguibili, avendo la stessa struttura molecolare.

Si tratta, in sostanza, dello stesso pregiudizio che, come hanno mostrato curiosi esperimenti psicologici, induce molta gente a rifiutare di indossare un maglione semplicemente perché viene detto loro che è appartenuto a un serial killer. Queste persone ritengono, evidentemente, che l’essenza del serial killer possa essere trasmessa loro attraverso il contatto con il maglione.

Inoltre ciò che viene chiamato naturale, molto spesso non è affatto ciò che non ha subito interventi da parte dell’uomo. Al contrario viene chiamato naturale semplicemente ciò cui molta gente è abituata.

Questa sostanziale confusione tra natura e tradizione è oltretutto abbastanza pericolosa poiché induce molta gente a pretendere di imporre agli altri le proprie opinioni personali, in nome di una presunta, ma del tutto infondata, naturalità. Inoltre porta a una ingiustificata valorizzazione di un sapere nostalgico, completamente smentito dai dati storici. Questo, a sua volta, comporta un arroccamento su posizioni conservatrici e antiprogressiste che spesso sconfinano nell’oscurantismo.

Si possono trovare numerosissimi esempi che dimostrano inequivocabilmente che non è affatto vero che ciò che è naturale sia necessariamente buono. La natura segue il suo corso, totalmente indifferente nei confronti delle esigenze umane.

Ritenere che ciò che è naturale sia necessariamente benefico per l’uomo è un mito tanto diffuso quanto continuamente smentito dai fatti. La natura non è né buona né cattiva: semplicemente non ha senso attribuirle qualità morali.

Le visioni manichee non aiutano certo le nostre decisioni e possono essere molto pericolose. Non dobbiamo ricercare principi guida al di fuori di noi. Dobbiamo fare riferimento unicamente alla nostra intelligenza: purtroppo non abbiamo altri mezzi. Ovviamente dobbiamo utilizzare al meglio il nostro intelletto per cercare di prevedere le conseguenze delle nostre azioni anche su lunghi periodi. In questo senso è sacrosanto preoccuparsi anche delle possibili ripercussioni che le nostre azioni possono avere sull’ambiente e le altre specie, ma occorre farlo su basi razionali, non emotive.

Chi preannuncia gloriose prospettive salvifiche e chi prevede destini catastrofici rende egualmente un pessimo servizio. Come scrisse Primo Levi: «Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà. Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti: è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate»[9].

Note

1) La pièce teatrale, interpretata da Magda Mercatali, Eros Pagni e Camillo Milli, può essere vista a questo link: https://tinyurl.com/2p8jsjxn
2) R. Bondì, A, La Vergata, 2014. Natura, il Mulino
3) G. Corbellini, 2009. Perché gli scienziati non sono pericolosi, Longanesi
4) I principali teorici dell’ecologia di superficie sono John Passmore e Kristin Shrader-Frechette. Si veda, per esempio: J. Passmore, Man’s Responsibility for Nature: Ecological Problems and Western Traditions, Charles Scriber’s Sons, 1974 (trad. it., La nostra responsabilità per la natura, Feltrinelli, 1986); K. Shrader-Frechette, S. Dristen, Environmental Ethics, Boxwood Press, 1981
5) 5 Principali teorici della deep ecology sono Warwick Fox e Arne Naess. Si veda, per esempio, W. Fox, “The Deep Ecology-Ecofeminism Debate and Its Parallels,” in Environmental ethics, n. 11, 1989; A. Naess, Ecology, Community and Lifestyle: Outline of an Ecosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1989 (trad. it., Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita, RED Edizioni, 1994)
6) A. Naess, 1988. “Dall’ecologia all’ecosofia, dalla scienza alla saggezza", in M. Ceruti , E. Laszlo (a cura di), Physis: abitare la terra, Feltrinelli
7) C. Merchant, 1988. La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica. Dalla Natura come organismo alla Natura come macchina, Garzanti
8) A. Pascale, 2012. Pane e pace. Il progresso, il sapere nostalgico, Chiarelettere; A. Pascale, 2008. Scienza e sentimento, Einaudi
9) P. Levi, ed. 2005. Se questo è un uomo (Appendice), Einaudi
accessToken: '2206040148.1677ed0.0fda6df7e8ad4d22abe321c59edeb25f',