«Trova uno spazio tranquillo.
Usando un cuscino o una sedia,siediti dritto ma non rigidamente; lascia la testa e le spalle riposare comodamente;
metti le mani sopra le gambe con la parte superiore delle braccia lungo i fianchi.
Adesso respira. Chiudi gli occhi, fai un respiro profondo e rilassati. Senti l'abbassamento ed il sollevamento del tuo petto e l'espansione e la contrazione del tuo ventre. Ad ogni respiro nota l'aria fresca quando entra ed il calore quando esce. Non controllare il respiro ma segui il suo flusso naturale.
Rimani concentrato. I pensieri cercheranno di distogliere la tua attenzione dal respiro. Notali, ma non giudicare. Riporta con gentilezza la concentrazione sul respiro. Alcune persone contano i loro respiri per rimanere concentrati. Una pratica quotidiana fornirà i maggiori vantaggi. Può essere di dieci minuti al giorno; tuttavia, venti minuti due volte al giorno sono spesso raccomandati per il massimo beneficio».
(Istruzioni di un esercizio di mindfulness tratto da: The Harvard Gazzette, 2018)[1]
Sempre più spesso si sente parlare di “mindfulness”, un termine con cui generalmente si indica un’ampia varietà di pratiche, attività ed esercizi incentrati sui concetti di attenzione, accettazione e consapevolezza (Van Dam et al., 2017)[2]. Sebbene non vi siano definizioni univoche del termine, di solito si parla di tecniche finalizzate all’esercizio della consapevolezza nel momento presente e della capacità di coltivare un approccio flessibile e compassionevole verso sé stessi, gli altri e il mondo circostante (Crane, 2017)[3]. Questi propositi vengono solitamente perseguiti attraverso pratiche di attenzione sostenuta su specifici stimoli-target, come il proprio respiro, le sensazioni corporee, gli stimoli sensoriali esterni e attraverso esercizi che promuovano la sospensione del giudizio e l’accettazione di sé e degli altri. Negli ultimi vent’anni, il tema della mindfulness ha acquisito una crescente popolarità a livello mediatico, scientifico e di intervento (Van Dam et al., 2017)[2].
Nel tempo è stata proposta una vasta serie di interventi basati sulla mindfulness e aventi molteplici scopi, come ad esempio: la riduzione dello stress e la promozione del benessere (Kabat-Zinn, 2003)[4]; lo sviluppo della resilienza (Christopher et al., 2020)[5], intesa come l’abilità di mantenere o riacquisire un equilibrio mentale nonostante le avversità (Herrman et al., 2011)[6]; il potenziamento delle capacità cognitive, come l’attenzione (Tabak & Granholm, 2014)[7]; il miglioramento del rapporto con il cibo, ad esempio affinando le capacità di riconoscere i segnali di fame e di sazietà, di discernere tra fame fisica ed emotiva e di coltivare abitudini alimentari equilibrate (Kristeller & Wolever, 2010)[8]; il sostegno alla fertilità (Li et al., 2016)[9] e molti altri.
Percorsi di mindfulness sono stati inseriti nei programmi di welfare aziendale di Google per promuovere la resilienza e le capacità relazionali dei dipendenti (Schaufenbuel, 2015)[10] e tra gli interventi psicosociali standard erogati dal servizio sanitario pubblico inglese (Coyne, 2015)[11]. Uno dei principali promotori della mindfulness è Jon Kabat-Zinn, un biologo statunitense che ha definito e implementato il pionieristico protocollo di intervento Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) (Kabat-Zinn, 2003). In un libro pubblicato pochi anni fa in Italia con l’eloquente titolo «Guarire con la Mindfulness», Kabat-Zinn ha dichiarato (2019): «La mindfulness è un modo saggio e potenzialmente curativo di porsi in relazione con quello che ci accade nella vita. [...] Anche quando si affrontano eventi piuttosto complessi o ci si trova di fronte alle loro conseguenze, c’è una profonda promessa associata alla coltivazione della mindfulness. Se sei disposto a tastare almeno un poco il terreno della pratica meditativa formale e informale per vedere quello che succede, potresti rimanere sorpreso di quanto siano o di quanto potrebbero essere vasti i suoi effetti[12]».
Ma da dove nascono queste pratiche? Gli interventi psicologici basati sulla mindfulness sono stati ideati e realizzati da autori occidentali, ma affondano le loro radici in pratiche orientali, come quelle della tradizione buddista. Tra gli autori che più hanno contribuito alla diffusione della mindfulness come mezzo di promozione del benessere vi è Jon Kabat-Zinn, autore del protocollo di intervento Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) (Kabat-Zinn, 2003). Durante gli anni universitari al MIT, Kabat-Zinn si è avvicinato al mondo del buddismo e ha iniziato a praticare la meditazione zen (Wilson, 2014)[13]. Nel 1979 ha fondato, presso la Massachusetts Medical School, la “Stress Reduction Clinic”, dove ha ideato e applicato i primi programmi di riduzione dello stress e di rilassamento basati sui concetti del buddismo zen.
Negli anni, questi percorsi sono stati sintetizzati nella MBSR, che consiste in un programma di intervento molto definito che fin da subito si è mostrato sufficientemente strutturato per essere studiato da un punto di vista scientifico. La MBRS, infatti, presenta un dettagliato programma di otto settimane che richiede dalle 20 alle 26 ore di training formale lungo otto lezioni a cadenza settimanale di un’ora e mezza o due ore e mezza (de Vibe et al. 2010)[14]. Durante questo periodo sono inoltre previsti un incontro di sei ore e la costante pratica meditativa di circa 45 minuti al giorno per almeno 6 giorni alla settimana. Le attività includono diverse tecniche, come sessioni in cui si focalizza l’attenzione sul proprio respiro, sulle proprie sensazioni corporee, sui propri pensieri e vissuti emotivi, su diversi stimoli ambientali, su specifici mantra – ossia frasi o parole che vengono ripetute molte volte come pratica meditativa (Stahl & Goldstein, 2019)[15].
Il protocollo originale della MBSR è stato sviluppato innanzitutto al fine di sostenere pazienti con problemi cronici di salute fisica e che necessitavano di nuove modalità di gestire lo stress e di affrontare le sfide di vita determinate dalla malattia (Crane et al., 2017).
Successivamente, queste pratiche sono state ampliate da altri autori e destinate ad altre fasce della popolazione, come nel caso della Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT) – un programma di intervento che combina tecniche meditative e di terapia cognitivo-comportamentale - e di altri protocolli rivolti a persone con particolari difficoltà di natura psicologica (Segal et al., 2004)[16]. Attualmente il panorama degli interventi che si definiscono basati sulla mindfulness è molteplice, al punto tale che non è possibile quantificare e classificare tutti i tipi di pratiche ad oggi disponibili (Van Dam et al., 2017)[2].
Se si passa in rassegna la letteratura scientifica sul tema e, ancor più, se si presta attenzione a quanto divulgato dai media tradizionali, si può avere la percezione che la mindfulness sia una panacea per numerosi mali e che sia qualcosa di completamente privo di effetti avversi. Ma davvero la mindfulness è l’antidoto dei nostri tempi allo stress, al malessere e alle sfide quotidiane?
In una review del 2017 intitolata «Mind the Hype: A Critical Evaluation and Prescriptive Agenda for Mindfulness and Meditation»[2], Van Dam e colleghi osservano che la maggior parte degli studi sulla mindfulness presenta criticità metodologiche rilevanti.
Inoltre, secondo gli autori, i media tenderebbero a diffondere i risultati di queste ricerche ponendo eccessiva enfasi sui supposti benefici di queste pratiche, presentandole come una «panacea universale» (p. 37, trad. it.). Nella narrazione comune sulla mindfulness, quindi, vi sarebbe spesso molta disinformazione, e una comunicazione non trasparente può andare a discapito della qualità delle ricerche e della sicurezza degli interventi. Gli autori sottolineano che evidenziare i limiti e le criticità della ricerca e della comunicazione dei risultati sulla mindfulness sia essenziale per promuovere migliori metodologie di ricerca, sensibilizzare i media e il pubblico, ridurre il potenziale danno derivante da pratiche non adeguatamente studiate e validare e promuovere interventi efficaci e supportati da evidenze scientifiche di qualità. Lo stesso Kabat-Zinn, in un editoriale scritto con altri autori, afferma che «per lo sviluppo sostenibile del campo mindfulness è necessario fare una pausa ed affrontare alcune questioni fondamentali» (Crane et al., 2017, p. 990, trad. it.)[3].
Le principali criticità individuate da Van Dam e colleghi (2017)[2] nello studio e nell’applicazione degli interventi basati sulla mindfulness sono: assenza di una definizione condivisa del concetto di “mindfulness” e delle sue componenti, che si ripercuote sulla qualità e comparabilità degli studi in merito; criticità metodologiche proprie della ricerca sulla mindfulness e sulla meditazione (ad esempio nella scelta delle variabili considerate, degli strumenti di misurazione, dei disegni di ricerca); problematiche relative all’implementazione degli interventi; controversie sugli effetti avversi della mindfulness e modalità di comunicarli.
Nei prossimi paragrafi approfondiremo ciascuna di queste problematiche e le indicazioni proposte da diversi autori per superarle.
«Crediamo che molta della confusione pubblica e del clamore mediatico derivi da un uso indifferenziato dei termini mindfulness e meditazione. Entrambi questi termini possono riferirsi ad una gamma ambigua di stati mentali e pratiche [...]. Una valida interpretazione dei risultati empirici della ricerca scientifica [...] deve tenere in conto quali tipi di mindfulness e di meditazione siano esattamente coinvolti. Con l’uso attuale di termini generici, un esercizio di meditazione di cinque minuti di una popolare app telefonica potrebbe essere trattato come un ritiro meditativo di tre mesi [...]. Nonostante il modo in cui ciò viene rappresentato dai media e da alcuni ricercatori, non esiste né una definizione tecnica universalmente accettata di mindfulness, né alcun ampio accordo sugli aspetti specifici del concetto sottostante a cui si riferisce»
(Van Dam et al., p. 38, trad. it.)[2]
Nonostante gli sforzi compiuti dagli anni ’70 per trovare una definizione condivisa di mindfulness, attualmente vi sono molte divergenze in letteratura su come descrivere l’argomento. A seconda della ricerca considerata, il termine mindfulness assume una connotazione differente, con più o meno focalizzazione sulle componenti “cognitive” (come attenzione e pensieri), “affettive” (come accettazione e compassione) e “comportamentali” (come rituali, postura, respiro) (Van Dam et al., 2017).[2]
La tendenza di ricercatori, professionisti e giornalisti ad utilizzare il concetto di mindfulness come un termine ombrello onnicomprensivo rende meno evidente al pubblico questa importante disomogeneità. Tra i connotati più comuni associati alla mindfulness vi sono la consapevolezza nel qui ed ora e l’assunzione di un atteggiamento non giudicante e il più compassionevole possibile (Crane et al., 2017)[3]. Nonostante la frequenza con cui ricorrono certe definizioni, attualmente la varietà di descrizioni disponibili è eccessivamente eterogenea e ciò si ripercuote inevitabilmente sulla qualità delle ricerche (Van Dam et al., 2017)[2].
Se volessimo comparare più studi che si sono occupati di mindfulness, dovremmo dedicare molto tempo a esaminare il preciso senso con cui i diversi autori hanno inteso soggettivamente le diverse variabili considerate. «Ogni studio che usi il termine “mindfulness” deve essere esaminato attentamente – commentano Van Dam e colleghi – accertando esattamente quale tipo di “mindfulness” sia implicata, e quali tipi di istruzioni esplicite siano stati effettivamente dati ai partecipanti per guidare la pratica, nel caso vi sia stata qualche pratica» (p. 39, trad. it). Lo stesso Kabat-Zinn, che si è focalizzato sul concetto di mindfulness inteso come uno stato mentale di consapevole presenza nel momento presente, ha riconosciuto che il termine può assumere sfumature diverse e più ampie di quella da lui proposta (Kabat-Zinn, 1990, 2011). Assieme a Crane et al. (2017)[3] ha affermato: «Data la proliferazione dello sviluppo e della ricerca sulle pratiche basate sulla mindfulness, è necessario chiarire nuovamente gli ingredienti principali … e le implicazioni che ciò ha nella formazione professionale, nella supervisione e nell’implementazione.
Questa chiarezza è importante affinché la ricerca esistente possa essere interpretata in modo significativo, le future ricerche possano utilizzare definizioni concordate e protocolli stabiliti, gli insegnanti possano essere adeguatamente formati e il pubblico in generale possa avere la certezza che i nomi dei programmi descrivano accuratamente ciò che viene offerto». (p. 991, trad. it.).
Questa assenza di sistematicità nella raccolta di informazioni rende attualmente impossibile il confronto tra i diversi studi, che nella ricerca scientifica è un elemento fondamentale per valutare l’attendibilità e la validità dei risultati emersi (la comparazione è ad esempio alla base delle review sistematiche e delle meta-analisi, che sono tra i disegni di ricerca più importanti per produrre e diffondere conoscenze di qualità e su larga scala). Come evidenziato da Davidson e Dahl (2017)[17] in una risposta all’articolo di Van Dam e colleghi (2017)[2], il problema delle discrepanze tra definizioni è molto frequente in discipline come la Psicologia, in cui spesso le variabili che si intende studiare sono complesse e non sono direttamente osservabili (ad esempio, ad oggi non vi è consenso nemmeno sulla definizione di costrutti “classici” della disciplina, come quello di intelligenza (Cornoldi, 2009)[18] o di personalità (Carver et al., 2019)[19]).
Questa difficoltà nello studiare in maniera sistematica e univoca i diversi costrutti delle scienze psicologiche è tra i fattori alla base della cosiddetta “crisi della replicabilità”, ossia il diffuso problema di non riuscire a raggiungere risultati coerenti tra loro in ricerche indipendenti che studiano gli stessi fenomeni (Scott et al., 2015)[20]. Proprio alla luce delle difficoltà di misurazione di realtà complesse, nella ricerca scientifica è di particolare importanza il concetto di “operazionalizzazione”, ossia il complesso processo di “scomposizione” del fenomeno che si intende misurare in più variabili quantificabili (Gremigni & Casu, 2015)[21]. Ad esempio, se volessimo costruire uno strumento che misuri il costrutto dell’ansia, dovremmo basare la nostra valutazione sulle sue componenti e secondo un modello teorico di riferimento (ad esempio si potrebbero valutare i diversi indici di attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico, i pensieri predominanti, la frequenza con cui si presentano determinati sintomi, ecc.).
L’assenza di definizioni univoche sul concetto di mindfulness, quindi, pone un importante ostacolo a quel processo di operazionalizzazione che permette di coordinare e confrontare le modalità attraverso cui le varie ricerche valutano e considerano i vari aspetti del fenomeno (Van Dam et al., 2017)[2]. L’assenza di operazionalizzazioni del concetto di mindfulness si traduce anche in un’assenza di strumenti validati per misurarlo.
Ad esempio, come osservato da Van Dam e colleghi, spesso le ricerche sulla mindfulness si avvalgono di descrizioni basate su misurazioni non validate (ossia che non hanno superato o non sono state sottoposte a un processo di verifica della loro capacità di misurare adeguatamente ciò che intendono misurare e di restituire risultati coerenti e replicabili) e self-report (cioè compilati direttamente dagli stessi partecipanti allo studio). Ciò aumenta il rischio che le variabili considerate possano essere interpretate soggettivamente, essere oggetto di distorsioni dettate dalla desiderabilità sociale (cioè la volontà di risultare socialmente desiderabili) ed essere prive di parametri univoci e comparabili tra loro.
Come esemplificato da Van Dam e colleghi, infatti, diversi praticanti e non di mindfulness possono intendere in maniera molto diversa i quesiti su tali pratiche. Inoltre, potrebbero avere dei bias dovuti alla desiderabilità sociale (ad esempio durante il training potrebbero aver compreso più o meno consapevolmente le aspettative degli esaminatori e potrebbero rispondere col fine di non disattenderle).
Vi è, in altre parole, una carenza di strumenti aventi una buona “validità di costrutto”, ossia che misurino adeguatamente gli elementi alla base delle variabili considerate. Queste discrepanze si possono riscontrare in diversi aspetti fondamentali di una pratica di mindfulness, come il tempo dedicato alla pratica, il tipo di attività e l’expertise. L’assenza di un costrutto unitario e le discrepanze riscontrate nelle diverse ricerche costituiscono attualmente un importante ostacolo alla conduzione di studi di qualità sulla mindfulness e comparabili tra loro in un’ottica ad ampio spettro.
Per esempio, se si considerano due recenti studi che hanno preso in esame interventi basati sulla mindfulness e volti a ridurre lo stress di studenti universitari, in uno si è ricorso a «un breve training di meditazione mindfulness [...] definito come fino a una settimana di sessioni multiple di breve meditazione mindfulness» (p. 3, trad. it.) consistenti in meditazioni di trenta minuti registrate in formato audio con esercizi di focalizzazione sulle sensazioni corporee e del respiro (de Sousa et al., 2021)[22]; nell’altro (Flett et al., 2019)[23] è stata fornita agli studenti una app telefonica con la raccomandazione di «selezionare un momento e uno spazio abituale in cui usare l’app (ad esempio ogni mattina dopo essersi alzati – nella propria camera da letto) per creare un’abitudine nell’uso» (p. 6, trad. it.) e lasciando loro totale libertà di autogestione.
Nello studio di de Sousa et al. (2021) sono stati utilizzati come strumenti di misurazione cinque test su scala Likert (in cui si può assegnare un punteggio numerico o verbale alle diverse domande o affermazioni) e la misurazione dei livelli di cortisolo (un ormone la cui concentrazione risulta correlata positivamente con i livelli di stress) nel sangue, mentre in quello di Flett e colleghi (2019)[23] sono stati utilizzati cinque test su scala Likert, una breve intervista con domande aperte e la media di voti universitari. Le scale adoperate dai due gruppi di ricerca, inoltre, sono diverse tra loro e misurano variabili e costrutti diversi, rendendo ancor più difficile un eventuale confronto tra i risultati ottenuti.
Come poter superare questo tipo di empasse? Van Dam e colleghi invitano la comunità scientifica a evitare, nelle future ricerche, l’uso esclusivo del termine generico “mindfulness” e a focalizzarsi su definizioni esplicite e sistematizzate delle sue diverse componenti. Una strategia potrebbe essere quella di creare e di integrare negli studi una checklist come sul modello di quelle CONSORT, che sono linee guida aventi l’obiettivo di rendere più sistematica la modalità di conduzione delle ricerche, la redazione degli articoli scientifici e la comunicazione dei risultati, in particolar modo in merito agli studi controllati randomizzati (Bennett, 2005)[24].
Inoltre, sarebbe utile ricorrere a soluzioni open science che promuovano la qualità delle future ricerche attraverso la condivisione con la comunità scientifica di informazioni dettagliate sul disegno di ricerca, sulle finalità e sui metodi adottati (ad esempio pre-registrando lo studio progettato) (Standen & APA, 2019)[25]. Infine, potrebbe essere d’aiuto concordare e impiegare modalità di raccolta dati multimodali (cioè basate sull’uso di più strumenti di raccolta delle informazioni), validate e che non si limitino unicamente all’uso di strumenti autovalutativi, ma anche eterovalutativi (come test in cui i ricercatori stessi raccolgono le informazioni), di indici psicofisiologici e di tecniche di neuroimaging.
A proposito delle cosiddette “neuroscienze contemplative”, ossia quella branca delle neuroscienze dedicata allo studio della meditazione della mindfulness, Van Dam e colleghi (2017) riconoscono la loro importanza nella produzione di evidenze di qualità su questi temi. Nonostante ciò, osservano anche come in alcune pubblicazioni sia emersa una tendenza a ricorrere a interpretazioni semplicistiche dei fenomeni neurocognitivi osservati. Per esempio, il neuropsicologo Rick Hanson (2013) in un suo libro ha presentato gli ipotetici effetti delle pratiche meditative sull’attività dell’amigdala (una componente dell’encefalo coinvolta nei processi di regolazione emotiva) affermando che: «in termini di attività dell’amigdala, le persone sembrano appartenere a uno di tre gruppi [...] quelli che hanno un’amigdala gioiosa sono più focalizzati sul promuovere le cose buone anziché prevenire quelle cattive» (pp. 43-44, trad. it.)[26]. Anche in questo caso, l’adozione di criteri di ricerca rigorosi e il ricorso a disegni di ricerca su larga scala come le review sistematiche e le meta-analisi sono essenziali contributi al progresso della ricerca scientifica sulla mindfulness.
«[...] Le varietà di interventi etichettati come “mindful” sono tante quante le definizioni del costrutto [...]. È necessario prestare estrema cautela quando si considera l’implementazione su larga scala di adattamenti minimamente testati degli interventi di mindfulness più tradizionali»
(Van Dam et al., p. 46, trad. it.)[2]
Sebbene ad oggi il rigoroso programma Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) di Kabat-Zinn sia considerato il “gold standard” degli interventi basati sulla mindfulness, il panorama di interventi è molto vasto e presenta caratteristiche difficilmente comparabili tra di loro in termini di durata, frequenza, pratiche, istruzioni, attività a casa, e obiettivi (Van Dam et al., 2017).[2]
Ciò è strettamente legato alla carenza di consenso nel definire cosa sia la mindfulness e quali siano gli elementi che la caratterizzano. Sotto il termine ombrello di “interventi basati sulla mindfulness” rientrano pratiche molto diverse tra loro, di cui è difficile determinare l’efficacia e la sicurezza. Non solo non vi è concordanza nelle definizioni, ma vi sono anche troppe differenze nei modi in cui i diversi autori hanno inteso le pratiche in termini di frequenza, durata, expertise e strumenti di misura.
Come osservato da Davidson & Dahl (2017), vi sono discrepanze anche negli obiettivi dei diversi interventi basati sulla mindfulness.
Originariamente questi protocolli sono stati progettati per promuovere il benessere e ridurre lo stress associato a particolari eventi di vita come la comparsa di malattie fisiche e di dolore cronico, non per intervenire su stati di sofferenza mentale clinicamente rilevanti come disturbi d’ansia, dell’umore, da uso di sostanze o del comportamento alimentare. Benessere e malessere psicologici sono costrutti diversi che richiedono obiettivi, approcci e strategie differenti (Ruini et al. 2003)[27] che non si escludono a vicenda. La confusione negli obiettivi di intervento che si intende raggiungere è uno dei tanti problemi che incorre quando si intende studiare gli effetti benefici e non delle diverse pratiche. Un altro elemento che complica ulteriormente il quadro è la sempre più diffusa disponibilità di interventi di mindfulness tramite app e software (Davidson & Dahl, 2017): da una parte questo rende ancora più estesa la diffusione di pratiche difficilmente validate, dall’altra ha il potenziale di diventare una risorsa per la conduzione di studi su larga scala.
Come affermato da Crane e colleghi (2017)[3], fornire accurate descrizioni degli interventi è vitale per promuovere programmi validati e sicuri. In assenza di chiare definizioni e di una comunicazione al pubblico limpida, non è possibile né sostenere una ricerca che permetta chiari confronti né avere un controllo sugli interventi erogati e sulla preparazione dei docenti.
In un articolo del 2015, Dimidjian e Segal[28] hanno indagato la qualità di diverse ricerche sugli interventi basati sulla mindfulness, utilizzando il modello a stadi del National Institute of Health per la ricerca clinica (Onken et al., 2014)[29].
Tale modello ha l’obiettivo di valutare lo stato degli studi scientifici sui diversi interventi comportamentali, con l’obiettivo ultimo di sostenere lo sviluppo di interventi che siano basati sulle evidenze, siano altamente implementabili e siano realmente efficaci. In questo modello, uno studio allo stadio 0 è tale se dedicato alla ricerca di base (ossia a specifiche questioni rilevanti per l’intervento - come ad esempio ricerche di base su elementi contemplati nei diversi interventi - come l’attenzione nel caso della mindfulness - ma che non implicano lo studio dell’intervento stesso); lo stadio I riguarda tutte le attività di creazione e valutazione preliminare di nuovi interventi; nello stadio II sono inclusi gli studi aventi l’obiettivo di testare l’efficacia di un intervento in setting di ricerca (es. laboratorio); nello stadio III sono considerate le ricerche dove l’efficacia è indagata nel “real world”, ossia in contesti di comunità e con operatori che lavorano in quei contesti abitualmente (es. insegnanti, clinici o caregiver); lo stadio IV riguarda gli studi in contesti di comunità su interventi già empiricamente supportati, al fine di massimizzarne la validità esterna (ossia il grado di generalizzabilità dell’efficacia a contesti reali e non di laboratorio); infine, nello stadio V sono considerate le ricerche che esaminano le strategie di interventi di attestata efficacia in contesti di comunità. Dallo studio di Dimidjian e Segal (2015)[28] emerge che solo il 30% delle ricerche che utilizzano interventi basati sulla mindfulness sono andate oltre lo stadio I.
La maggior degli studi restanti, nello specifico il 20%, si è fermata allo stadio II. Di questi, solo il 9% ha raggiunto lo Stadio IIb (presenza di controlli attivi). Inoltre, solo l’1% delle ricerche considerate è stato condotto al di fuori di contesti di laboratorio, e quindi con modalità più “ecologiche” e generalizzabili ai setting in cui abitualmente queste pratiche vengono attuate. Nonostante questa carenza di evidenze, affermano Van Dam e colleghi, «c’è una percezione errata comune a livello pubblico e governativo che esistano prove cliniche convincenti sull’ampia e forte efficacia della mindfulness come intervento terapeutico» (p.46, trad.it.).
«Nel campo dei trattamenti psicologici, che possono includere anche programmi e pratiche di meditazione, gli effetti indesiderati degli interventi sono raramente valutati, sebbene siano stati sviluppati alcuni questionari ad hoc. Nell’area delle pratiche di meditazione e degli interventi basati sulla mindfulness, gli studi scientifici sugli effetti indesiderati sono inusuali e di solito si basano su casi singoli o su ipotesi speculative. [...] Curiosamente, questo problema non viene affrontato nei principali protocolli di mindfulness (MBSR, MBCT) né nella maggior parte degli studi sugli interventi basati sulla mindfulness. Sembra che l’espansione della mindfulness in Occidente si sia associata ad una visione gentile e positiva della tecnica, senza il necessario equilibrio relativo alle conseguenze negative di qualsiasi pratica».
(Cebolla et. al, 2017, pp. 2-6, trad. it.)
Quando si parla di interventi psicologici, vi può essere la misconcezione che questi possano funzionare o, al massimo, non avere effetto. Ciò che spesso non viene considerato è che gli interventi psicologici possono anche avere effetti collaterali, complicazioni ed esiti non programmati (Guidi et al., 2018)[30].
Con il termine “effetti avversi” ci si riferisce agli effetti indesiderati e dannosi emersi da un trattamento; gli “effetti collaterali” indicano invece qualsiasi effetto che sia secondario all’esito previsto dal trattamento. In farmacologia e medicina è pratica comune evidenziare le possibili problematiche derivanti dai trattamenti intrapresi. Questa prassi è meno diffusa in psicologia, negligenza manifestata anche dal fatto che l’attuale letteratura su questo tema sia ancora limitata rispetto a quella di altre discipline in cui vi è una più diffusa cultura evidence-based.
Durante o a seguito di un intervento psicologico, possono emergere effetti come la comparsa di nuovi sintomi non presenti prima del trattamento o un peggioramento di quelli già presenti. Sono da considerarsi possibili effetti avversi anche il mancato raggiungimento degli obiettivi attesi, l’assenza di miglioramenti nella condizione oggetto dell’intervento, la ritardata o mancata possibilità di scegliere interventi più efficaci per quella data condizione.
Come riportato da Van Dam e colleghi (2017)[2], sono presenti in letteratura diversi casi di problematiche associate a pratiche meditative (episodi psicotici, maniacali, di depersonalizzazione, d’ansia, di panico, di rievocazione di ricordi traumatici, ecc.). Il National Health Institute ha riconosciuto che le pratiche meditative potrebbero essere rischiose per persone con condizioni di sofferenza psicologica clinicamente rilevanti, e raccomanda loro di rivolgersi al proprio medico di fiducia prima di iniziare qualsiasi attività meditativa e di far presente la propria situazione a chi condurrà la pratica (NCCIH, 2016)[31].
Nella Mindfulness-Based Stress Reduction di Kabat-Zinn, ad esempio, la presenza di qualsiasi disturbo psichiatrico è un criterio di esclusione alla partecipazione al protocollo (Van Dam et al., 2017)[2]. Sebbene ad oggi su questo tema vi siano solo alcune evidenze di efficacia della MBCT nella prevenzione delle ricadute depressive (Musa et al., 2020)[32], ovunque si possono trovare pubblicità e professionisti che propongono percorsi di mindfulness dedicati alla gestione delle più disparate problematiche psicologiche, come quelle legate all’ansia, al tono dell’umore deflesso, al comportamento alimentare, ecc.
Non possono quindi che sorgere spontanei dei dubbi: cosa giustifica l’utilizzo delle tecniche di mindfulness per simili problemi? In quante di queste circostanze viene effettuata una valutazione preliminare per verificare l’eventuale presenza di una sofferenza clinicamente rilevante al fine di escludere i soggetti più vulnerabili? Quante volte vengono illustrati i potenziali rischi della pratica? A quante persone viene raccomandato di ricorrere ad altre pratiche già validate per quel tipo di necessità? Inoltre, le persone che già presentano sofferenza psicologica non sono le uniche a poter incorrere in effetti avversi legati alle pratiche meditative.
Nel 2020 è stata pubblicata la prima meta-analisi che abbia indagato gli effetti avversi degli interventi basati sulla meditazione e sulla mindfulness (Farias et al., 2020).[33]
Nello studio è stata osservata una prevalenza di eventi avversi dell’8,3%. Su soli 83 studi pubblicati tra il 1975 e il 2019 che prevedevano la valutazione di eventuali eventi indesiderati associati con la pratica meditativa, in 55 è stato riportato almeno un tipo di evento avverso. Sebbene i dati a disposizione siano insufficienti ad approfondire gli eventuali fattori individuali correlati agli eventi avversi emersi, gli autori evidenziano come tali effetti si siano registrati soprattutto in persone che non avevano una storia di problemi di salute mentale precedente all’intervento. Ne consegue che l’attenzione a questo tema è fondamentale per la tutela non solo di persone che già presentano fragilità psicologiche a priori, bensì per quella della popolazione generale.
Un miglioramento della progettazione e conduzione delle ricerche sulla mindfulness risulta quindi fondamentale anche in questo: nell’aumentare sempre più la consapevolezza di quali pratiche siano indicate nei diversi contesti e quali no. Farias e colleghi (2020)[33] concludono la meta-analisi affermando che «un primo passo è quello di informare le persone della possibilità di questi effetti avversi. I ricercatori e i centri coinvolti nello studio della meditazione hanno il dovere etico di informare tutti coloro che prendono parte ai loro corsi dell’esistenza e della prevalenza degli effetti avversi, e i trial clinici dovrebbero includere moduli di consenso informato che informino del fatto che questi eventi avversi possano accadere».
Come raccomandato da Van Dam e colleghi (2017)[2], infatti, ricercatori e professionisti dovrebbero - anziché incoraggiare l’entusiasmo dei media - impegnarsi a comunicare in maniera più accurata ai giornalisti, al pubblico e agli altri scienziati non solo le informazioni relative ai potenziali benefici delle pratiche basate sulla mindfulness, ma anche i limiti attualmente riscontrati nella ricerca e i possibili rischi associati a interventi non validati e non supportati da evidenze sufficientemente solide. Una maggiore consapevolezza, considerazione e condivisione di questo tema sia a livello di ricerca scientifica che mediatico contribuirebbe al progresso scientifico e alla produzione di dati di qualità; aiuterebbe gli insegnanti, i ricercatori e i clinici a formarsi su questo argomento e a gestire meglio possibili difficoltà; permetterebbe di tutelare i partecipanti e il pubblico e di prevenire situazioni lesive (Farias et al., 2020).[33]
Attualmente in Italia non esiste una regolamentazione che stabilisca chi possa o non possa condurre interventi di mindfulness (Commelato et al, 2016)[34]. Esistono corsi di diversa natura (sia universitari che privati), ma non sono necessarie particolari qualifiche per poter esercitare il ruolo di insegnante. La mancanza di regolamentazione degli insegnanti di mindfulness aumenta la possibilità che tali servizi vengano erogati da persone non adeguatamente formate e che non abbiano una reale consapevolezza delle criticità su questo tema e su come rapportarsi ai diversi tipi di utenza con cui potrebbero interfacciarsi. Nonostante ciò, come abbiamo potuto osservare, «è importante che vi sia chiarezza esplicita sulle intenzioni fondamentali dell’intervento basato sulla mindfulness sulla base del contesto specifico e dei partecipanti-target» (Crane et al., 2017, p. 996, trad. it.).[3]
In conclusione, allo stato attuale lo studio e l’applicazione della mindfulness presentano diverse criticità che è necessario riconoscere, affrontare e superare. Innanzitutto non vi è concordanza sui termini utilizzati; la qualità delle ricerche è ancora troppo bassa; vi è una carenza di interventi supportati da evidenze scientifiche; vi è la necessità di ampliare la letteratura, la consapevolezza e la comunicazione sui possibili effetti avversi di pratiche di mindfulness non sufficientemente studiate. Tutte queste problematiche possono essere superate investendo in ricerche più rigorose e in una comunicazione scientifica e divulgativa più realistica e meno improntata a fomentare l’entusiasmo per un settore che attualmente è ancora molto lontano dall’essere una panacea per tutti i mali. Lo studio degli interventi sulla mindfulness è un campo molto giovane in cui, ancor più che in campi più “maturi”, l’eccessiva esaltazione per delle osservazioni preliminari discutibili può interferire con l’attendibilità e la riproducibilità dei risultati empirici. Esplorare ed evidenziare le attuali criticità della ricerca sulla mindfulness è il primo passo fondamentale per adottare approcci e strategie utili a migliorare la situazione e a far effettivamente progredire un campo che potrebbe fornire importanti contributi agli interventi di promozione del benessere o di gestione di diversi tipi di sofferenza.
In questo box riportiamo alcuni esempi di pratica basata sulla mindfulness in modo da chiarire la tipologia di esercizi che vengono proposti.
Nel presentarli, sottolineiamo che le pratiche meditative – così come tutti i tipi di intervento psicologico – portano con sé il rischio di effetti avversi (Guidi et al., 2018).[30] Nel caso della mindfulness, tra le varie reazioni sono state riportate ansia, abbassamento del tono dell’umore, alterazioni delle funzioni cognitive, stress e allucinazioni (Farias et al., 2020).[33]
A chi è interessato viene solitamente suggerito di consultare un professionista (ad esempio il proprio medico) prima di sperimentare questi esercizi o di eseguirli in presenza di istruttori adeguatamente formati. Inoltre viene raccomandato, qualora nel corso della pratica si provassero sensazioni di disagio particolarmente intense, di sospendere immediatamente l’esercizio e, qualora il malessere dovesse persistere, di contattare uno specialista di riferimento.
Gli esercizi di mindfulness sono caratterizzati da un andamento progressivo: partono da attività più semplici e brevi fino ad arrivare a pratiche che richiedono un’attenzione più focalizzata e sostenuta nel tempo. In questo tipo di percorsi viene generalmente data molta importanza alla costanza e si consiglia di preferire pratiche brevi ogni giorno piuttosto che lunghe sessioni meditative poche volte alla settimana. Solitamente non viene indicato un momento preciso della giornata in cui svolgere la pratica, ma si invita a scegliere autonomamente il momento della giornata più consono allo svolgimento degli esercizi. In genere viene consigliato di sedersi per terra a gambe incrociate o su una sedia con i piedi ben appoggiati al suolo e si invita a ad appoggiare le mani sulle cosce con i palmi rivolti verso l’alto e a chiudere gli occhi o guardare un punto fisso.
Attenzione sul proprio respiro
Siediti, fai un respiro profondo e chiudi gli occhi. Concentrati sul tuo respiro mentre entra ed esce dal tuo corpo. Se inizi a pensare ad altro, riporta gentilmente la tua attenzione sul respiro. Continua l’esercizio per qualche minuto.
Body scan
Focalizza la tua attenzione su ogni parte del tuo corpo, una ad una, lentamente in ordine, dai piedi alla testa o dalla testa ai piedi. Sii consapevole di qualsiasi sensazione, emozione o pensiero associato a ciascuna parte del tuo corpo.
Meditazione camminata
Trova un posto tranquillo lungo 3-6 metri e inizia a camminare lentamente. Concentrati sull'esperienza del camminare, rimanendo consapevole delle sensazioni dello stare in piedi e dei movimenti sottili che mantengono l'equilibrio. Quando raggiungi la fine del percorso, voltati e continua a camminare, mantenendo la consapevolezza delle tue sensazioni e del respiro. Se possibile mantieni gli occhi chiusi.
(Adattato dal sito di Mayo Clinc )
Usando un cuscino o una sedia,siediti dritto ma non rigidamente; lascia la testa e le spalle riposare comodamente;
metti le mani sopra le gambe con la parte superiore delle braccia lungo i fianchi.
Adesso respira. Chiudi gli occhi, fai un respiro profondo e rilassati. Senti l'abbassamento ed il sollevamento del tuo petto e l'espansione e la contrazione del tuo ventre. Ad ogni respiro nota l'aria fresca quando entra ed il calore quando esce. Non controllare il respiro ma segui il suo flusso naturale.
Rimani concentrato. I pensieri cercheranno di distogliere la tua attenzione dal respiro. Notali, ma non giudicare. Riporta con gentilezza la concentrazione sul respiro. Alcune persone contano i loro respiri per rimanere concentrati. Una pratica quotidiana fornirà i maggiori vantaggi. Può essere di dieci minuti al giorno; tuttavia, venti minuti due volte al giorno sono spesso raccomandati per il massimo beneficio».
(Istruzioni di un esercizio di mindfulness tratto da: The Harvard Gazzette, 2018)[1]
Sempre più spesso si sente parlare di “mindfulness”, un termine con cui generalmente si indica un’ampia varietà di pratiche, attività ed esercizi incentrati sui concetti di attenzione, accettazione e consapevolezza (Van Dam et al., 2017)[2]. Sebbene non vi siano definizioni univoche del termine, di solito si parla di tecniche finalizzate all’esercizio della consapevolezza nel momento presente e della capacità di coltivare un approccio flessibile e compassionevole verso sé stessi, gli altri e il mondo circostante (Crane, 2017)[3]. Questi propositi vengono solitamente perseguiti attraverso pratiche di attenzione sostenuta su specifici stimoli-target, come il proprio respiro, le sensazioni corporee, gli stimoli sensoriali esterni e attraverso esercizi che promuovano la sospensione del giudizio e l’accettazione di sé e degli altri. Negli ultimi vent’anni, il tema della mindfulness ha acquisito una crescente popolarità a livello mediatico, scientifico e di intervento (Van Dam et al., 2017)[2].
Il grafico mostra l’aumento annuale, dal 1970 al 2015, di pubblicazioni scientifiche e di servizi sui media tradizionali che riguardano le tematiche della mindfulness e/o della meditazione (fonte: Van Dam et al., 2017).[2]
Nel tempo è stata proposta una vasta serie di interventi basati sulla mindfulness e aventi molteplici scopi, come ad esempio: la riduzione dello stress e la promozione del benessere (Kabat-Zinn, 2003)[4]; lo sviluppo della resilienza (Christopher et al., 2020)[5], intesa come l’abilità di mantenere o riacquisire un equilibrio mentale nonostante le avversità (Herrman et al., 2011)[6]; il potenziamento delle capacità cognitive, come l’attenzione (Tabak & Granholm, 2014)[7]; il miglioramento del rapporto con il cibo, ad esempio affinando le capacità di riconoscere i segnali di fame e di sazietà, di discernere tra fame fisica ed emotiva e di coltivare abitudini alimentari equilibrate (Kristeller & Wolever, 2010)[8]; il sostegno alla fertilità (Li et al., 2016)[9] e molti altri.
Percorsi di mindfulness sono stati inseriti nei programmi di welfare aziendale di Google per promuovere la resilienza e le capacità relazionali dei dipendenti (Schaufenbuel, 2015)[10] e tra gli interventi psicosociali standard erogati dal servizio sanitario pubblico inglese (Coyne, 2015)[11]. Uno dei principali promotori della mindfulness è Jon Kabat-Zinn, un biologo statunitense che ha definito e implementato il pionieristico protocollo di intervento Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) (Kabat-Zinn, 2003). In un libro pubblicato pochi anni fa in Italia con l’eloquente titolo «Guarire con la Mindfulness», Kabat-Zinn ha dichiarato (2019): «La mindfulness è un modo saggio e potenzialmente curativo di porsi in relazione con quello che ci accade nella vita. [...] Anche quando si affrontano eventi piuttosto complessi o ci si trova di fronte alle loro conseguenze, c’è una profonda promessa associata alla coltivazione della mindfulness. Se sei disposto a tastare almeno un poco il terreno della pratica meditativa formale e informale per vedere quello che succede, potresti rimanere sorpreso di quanto siano o di quanto potrebbero essere vasti i suoi effetti[12]».
Ma da dove nascono queste pratiche? Gli interventi psicologici basati sulla mindfulness sono stati ideati e realizzati da autori occidentali, ma affondano le loro radici in pratiche orientali, come quelle della tradizione buddista. Tra gli autori che più hanno contribuito alla diffusione della mindfulness come mezzo di promozione del benessere vi è Jon Kabat-Zinn, autore del protocollo di intervento Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) (Kabat-Zinn, 2003). Durante gli anni universitari al MIT, Kabat-Zinn si è avvicinato al mondo del buddismo e ha iniziato a praticare la meditazione zen (Wilson, 2014)[13]. Nel 1979 ha fondato, presso la Massachusetts Medical School, la “Stress Reduction Clinic”, dove ha ideato e applicato i primi programmi di riduzione dello stress e di rilassamento basati sui concetti del buddismo zen.
Negli anni, questi percorsi sono stati sintetizzati nella MBSR, che consiste in un programma di intervento molto definito che fin da subito si è mostrato sufficientemente strutturato per essere studiato da un punto di vista scientifico. La MBRS, infatti, presenta un dettagliato programma di otto settimane che richiede dalle 20 alle 26 ore di training formale lungo otto lezioni a cadenza settimanale di un’ora e mezza o due ore e mezza (de Vibe et al. 2010)[14]. Durante questo periodo sono inoltre previsti un incontro di sei ore e la costante pratica meditativa di circa 45 minuti al giorno per almeno 6 giorni alla settimana. Le attività includono diverse tecniche, come sessioni in cui si focalizza l’attenzione sul proprio respiro, sulle proprie sensazioni corporee, sui propri pensieri e vissuti emotivi, su diversi stimoli ambientali, su specifici mantra – ossia frasi o parole che vengono ripetute molte volte come pratica meditativa (Stahl & Goldstein, 2019)[15].
Il protocollo originale della MBSR è stato sviluppato innanzitutto al fine di sostenere pazienti con problemi cronici di salute fisica e che necessitavano di nuove modalità di gestire lo stress e di affrontare le sfide di vita determinate dalla malattia (Crane et al., 2017).
Successivamente, queste pratiche sono state ampliate da altri autori e destinate ad altre fasce della popolazione, come nel caso della Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT) – un programma di intervento che combina tecniche meditative e di terapia cognitivo-comportamentale - e di altri protocolli rivolti a persone con particolari difficoltà di natura psicologica (Segal et al., 2004)[16]. Attualmente il panorama degli interventi che si definiscono basati sulla mindfulness è molteplice, al punto tale che non è possibile quantificare e classificare tutti i tipi di pratiche ad oggi disponibili (Van Dam et al., 2017)[2].
Se si passa in rassegna la letteratura scientifica sul tema e, ancor più, se si presta attenzione a quanto divulgato dai media tradizionali, si può avere la percezione che la mindfulness sia una panacea per numerosi mali e che sia qualcosa di completamente privo di effetti avversi. Ma davvero la mindfulness è l’antidoto dei nostri tempi allo stress, al malessere e alle sfide quotidiane?
In una review del 2017 intitolata «Mind the Hype: A Critical Evaluation and Prescriptive Agenda for Mindfulness and Meditation»[2], Van Dam e colleghi osservano che la maggior parte degli studi sulla mindfulness presenta criticità metodologiche rilevanti.
Inoltre, secondo gli autori, i media tenderebbero a diffondere i risultati di queste ricerche ponendo eccessiva enfasi sui supposti benefici di queste pratiche, presentandole come una «panacea universale» (p. 37, trad. it.). Nella narrazione comune sulla mindfulness, quindi, vi sarebbe spesso molta disinformazione, e una comunicazione non trasparente può andare a discapito della qualità delle ricerche e della sicurezza degli interventi. Gli autori sottolineano che evidenziare i limiti e le criticità della ricerca e della comunicazione dei risultati sulla mindfulness sia essenziale per promuovere migliori metodologie di ricerca, sensibilizzare i media e il pubblico, ridurre il potenziale danno derivante da pratiche non adeguatamente studiate e validare e promuovere interventi efficaci e supportati da evidenze scientifiche di qualità. Lo stesso Kabat-Zinn, in un editoriale scritto con altri autori, afferma che «per lo sviluppo sostenibile del campo mindfulness è necessario fare una pausa ed affrontare alcune questioni fondamentali» (Crane et al., 2017, p. 990, trad. it.)[3].
Le principali criticità individuate da Van Dam e colleghi (2017)[2] nello studio e nell’applicazione degli interventi basati sulla mindfulness sono: assenza di una definizione condivisa del concetto di “mindfulness” e delle sue componenti, che si ripercuote sulla qualità e comparabilità degli studi in merito; criticità metodologiche proprie della ricerca sulla mindfulness e sulla meditazione (ad esempio nella scelta delle variabili considerate, degli strumenti di misurazione, dei disegni di ricerca); problematiche relative all’implementazione degli interventi; controversie sugli effetti avversi della mindfulness e modalità di comunicarli.
Nei prossimi paragrafi approfondiremo ciascuna di queste problematiche e le indicazioni proposte da diversi autori per superarle.
Definire la mindfulness: un primo passo che ostacola la ricerca
«Crediamo che molta della confusione pubblica e del clamore mediatico derivi da un uso indifferenziato dei termini mindfulness e meditazione. Entrambi questi termini possono riferirsi ad una gamma ambigua di stati mentali e pratiche [...]. Una valida interpretazione dei risultati empirici della ricerca scientifica [...] deve tenere in conto quali tipi di mindfulness e di meditazione siano esattamente coinvolti. Con l’uso attuale di termini generici, un esercizio di meditazione di cinque minuti di una popolare app telefonica potrebbe essere trattato come un ritiro meditativo di tre mesi [...]. Nonostante il modo in cui ciò viene rappresentato dai media e da alcuni ricercatori, non esiste né una definizione tecnica universalmente accettata di mindfulness, né alcun ampio accordo sugli aspetti specifici del concetto sottostante a cui si riferisce»
(Van Dam et al., p. 38, trad. it.)[2]
Nonostante gli sforzi compiuti dagli anni ’70 per trovare una definizione condivisa di mindfulness, attualmente vi sono molte divergenze in letteratura su come descrivere l’argomento. A seconda della ricerca considerata, il termine mindfulness assume una connotazione differente, con più o meno focalizzazione sulle componenti “cognitive” (come attenzione e pensieri), “affettive” (come accettazione e compassione) e “comportamentali” (come rituali, postura, respiro) (Van Dam et al., 2017).[2]
La tendenza di ricercatori, professionisti e giornalisti ad utilizzare il concetto di mindfulness come un termine ombrello onnicomprensivo rende meno evidente al pubblico questa importante disomogeneità. Tra i connotati più comuni associati alla mindfulness vi sono la consapevolezza nel qui ed ora e l’assunzione di un atteggiamento non giudicante e il più compassionevole possibile (Crane et al., 2017)[3]. Nonostante la frequenza con cui ricorrono certe definizioni, attualmente la varietà di descrizioni disponibili è eccessivamente eterogenea e ciò si ripercuote inevitabilmente sulla qualità delle ricerche (Van Dam et al., 2017)[2].
Se volessimo comparare più studi che si sono occupati di mindfulness, dovremmo dedicare molto tempo a esaminare il preciso senso con cui i diversi autori hanno inteso soggettivamente le diverse variabili considerate. «Ogni studio che usi il termine “mindfulness” deve essere esaminato attentamente – commentano Van Dam e colleghi – accertando esattamente quale tipo di “mindfulness” sia implicata, e quali tipi di istruzioni esplicite siano stati effettivamente dati ai partecipanti per guidare la pratica, nel caso vi sia stata qualche pratica» (p. 39, trad. it). Lo stesso Kabat-Zinn, che si è focalizzato sul concetto di mindfulness inteso come uno stato mentale di consapevole presenza nel momento presente, ha riconosciuto che il termine può assumere sfumature diverse e più ampie di quella da lui proposta (Kabat-Zinn, 1990, 2011). Assieme a Crane et al. (2017)[3] ha affermato: «Data la proliferazione dello sviluppo e della ricerca sulle pratiche basate sulla mindfulness, è necessario chiarire nuovamente gli ingredienti principali … e le implicazioni che ciò ha nella formazione professionale, nella supervisione e nell’implementazione.
Questa chiarezza è importante affinché la ricerca esistente possa essere interpretata in modo significativo, le future ricerche possano utilizzare definizioni concordate e protocolli stabiliti, gli insegnanti possano essere adeguatamente formati e il pubblico in generale possa avere la certezza che i nomi dei programmi descrivano accuratamente ciò che viene offerto». (p. 991, trad. it.).
Questa assenza di sistematicità nella raccolta di informazioni rende attualmente impossibile il confronto tra i diversi studi, che nella ricerca scientifica è un elemento fondamentale per valutare l’attendibilità e la validità dei risultati emersi (la comparazione è ad esempio alla base delle review sistematiche e delle meta-analisi, che sono tra i disegni di ricerca più importanti per produrre e diffondere conoscenze di qualità e su larga scala). Come evidenziato da Davidson e Dahl (2017)[17] in una risposta all’articolo di Van Dam e colleghi (2017)[2], il problema delle discrepanze tra definizioni è molto frequente in discipline come la Psicologia, in cui spesso le variabili che si intende studiare sono complesse e non sono direttamente osservabili (ad esempio, ad oggi non vi è consenso nemmeno sulla definizione di costrutti “classici” della disciplina, come quello di intelligenza (Cornoldi, 2009)[18] o di personalità (Carver et al., 2019)[19]).
Questa difficoltà nello studiare in maniera sistematica e univoca i diversi costrutti delle scienze psicologiche è tra i fattori alla base della cosiddetta “crisi della replicabilità”, ossia il diffuso problema di non riuscire a raggiungere risultati coerenti tra loro in ricerche indipendenti che studiano gli stessi fenomeni (Scott et al., 2015)[20]. Proprio alla luce delle difficoltà di misurazione di realtà complesse, nella ricerca scientifica è di particolare importanza il concetto di “operazionalizzazione”, ossia il complesso processo di “scomposizione” del fenomeno che si intende misurare in più variabili quantificabili (Gremigni & Casu, 2015)[21]. Ad esempio, se volessimo costruire uno strumento che misuri il costrutto dell’ansia, dovremmo basare la nostra valutazione sulle sue componenti e secondo un modello teorico di riferimento (ad esempio si potrebbero valutare i diversi indici di attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico, i pensieri predominanti, la frequenza con cui si presentano determinati sintomi, ecc.).
L’assenza di definizioni univoche sul concetto di mindfulness, quindi, pone un importante ostacolo a quel processo di operazionalizzazione che permette di coordinare e confrontare le modalità attraverso cui le varie ricerche valutano e considerano i vari aspetti del fenomeno (Van Dam et al., 2017)[2]. L’assenza di operazionalizzazioni del concetto di mindfulness si traduce anche in un’assenza di strumenti validati per misurarlo.
Ad esempio, come osservato da Van Dam e colleghi, spesso le ricerche sulla mindfulness si avvalgono di descrizioni basate su misurazioni non validate (ossia che non hanno superato o non sono state sottoposte a un processo di verifica della loro capacità di misurare adeguatamente ciò che intendono misurare e di restituire risultati coerenti e replicabili) e self-report (cioè compilati direttamente dagli stessi partecipanti allo studio). Ciò aumenta il rischio che le variabili considerate possano essere interpretate soggettivamente, essere oggetto di distorsioni dettate dalla desiderabilità sociale (cioè la volontà di risultare socialmente desiderabili) ed essere prive di parametri univoci e comparabili tra loro.
Come esemplificato da Van Dam e colleghi, infatti, diversi praticanti e non di mindfulness possono intendere in maniera molto diversa i quesiti su tali pratiche. Inoltre, potrebbero avere dei bias dovuti alla desiderabilità sociale (ad esempio durante il training potrebbero aver compreso più o meno consapevolmente le aspettative degli esaminatori e potrebbero rispondere col fine di non disattenderle).
Vi è, in altre parole, una carenza di strumenti aventi una buona “validità di costrutto”, ossia che misurino adeguatamente gli elementi alla base delle variabili considerate. Queste discrepanze si possono riscontrare in diversi aspetti fondamentali di una pratica di mindfulness, come il tempo dedicato alla pratica, il tipo di attività e l’expertise. L’assenza di un costrutto unitario e le discrepanze riscontrate nelle diverse ricerche costituiscono attualmente un importante ostacolo alla conduzione di studi di qualità sulla mindfulness e comparabili tra loro in un’ottica ad ampio spettro.
Per esempio, se si considerano due recenti studi che hanno preso in esame interventi basati sulla mindfulness e volti a ridurre lo stress di studenti universitari, in uno si è ricorso a «un breve training di meditazione mindfulness [...] definito come fino a una settimana di sessioni multiple di breve meditazione mindfulness» (p. 3, trad. it.) consistenti in meditazioni di trenta minuti registrate in formato audio con esercizi di focalizzazione sulle sensazioni corporee e del respiro (de Sousa et al., 2021)[22]; nell’altro (Flett et al., 2019)[23] è stata fornita agli studenti una app telefonica con la raccomandazione di «selezionare un momento e uno spazio abituale in cui usare l’app (ad esempio ogni mattina dopo essersi alzati – nella propria camera da letto) per creare un’abitudine nell’uso» (p. 6, trad. it.) e lasciando loro totale libertà di autogestione.
Nello studio di de Sousa et al. (2021) sono stati utilizzati come strumenti di misurazione cinque test su scala Likert (in cui si può assegnare un punteggio numerico o verbale alle diverse domande o affermazioni) e la misurazione dei livelli di cortisolo (un ormone la cui concentrazione risulta correlata positivamente con i livelli di stress) nel sangue, mentre in quello di Flett e colleghi (2019)[23] sono stati utilizzati cinque test su scala Likert, una breve intervista con domande aperte e la media di voti universitari. Le scale adoperate dai due gruppi di ricerca, inoltre, sono diverse tra loro e misurano variabili e costrutti diversi, rendendo ancor più difficile un eventuale confronto tra i risultati ottenuti.
Come poter superare questo tipo di empasse? Van Dam e colleghi invitano la comunità scientifica a evitare, nelle future ricerche, l’uso esclusivo del termine generico “mindfulness” e a focalizzarsi su definizioni esplicite e sistematizzate delle sue diverse componenti. Una strategia potrebbe essere quella di creare e di integrare negli studi una checklist come sul modello di quelle CONSORT, che sono linee guida aventi l’obiettivo di rendere più sistematica la modalità di conduzione delle ricerche, la redazione degli articoli scientifici e la comunicazione dei risultati, in particolar modo in merito agli studi controllati randomizzati (Bennett, 2005)[24].
Inoltre, sarebbe utile ricorrere a soluzioni open science che promuovano la qualità delle future ricerche attraverso la condivisione con la comunità scientifica di informazioni dettagliate sul disegno di ricerca, sulle finalità e sui metodi adottati (ad esempio pre-registrando lo studio progettato) (Standen & APA, 2019)[25]. Infine, potrebbe essere d’aiuto concordare e impiegare modalità di raccolta dati multimodali (cioè basate sull’uso di più strumenti di raccolta delle informazioni), validate e che non si limitino unicamente all’uso di strumenti autovalutativi, ma anche eterovalutativi (come test in cui i ricercatori stessi raccolgono le informazioni), di indici psicofisiologici e di tecniche di neuroimaging.
A proposito delle cosiddette “neuroscienze contemplative”, ossia quella branca delle neuroscienze dedicata allo studio della meditazione della mindfulness, Van Dam e colleghi (2017) riconoscono la loro importanza nella produzione di evidenze di qualità su questi temi. Nonostante ciò, osservano anche come in alcune pubblicazioni sia emersa una tendenza a ricorrere a interpretazioni semplicistiche dei fenomeni neurocognitivi osservati. Per esempio, il neuropsicologo Rick Hanson (2013) in un suo libro ha presentato gli ipotetici effetti delle pratiche meditative sull’attività dell’amigdala (una componente dell’encefalo coinvolta nei processi di regolazione emotiva) affermando che: «in termini di attività dell’amigdala, le persone sembrano appartenere a uno di tre gruppi [...] quelli che hanno un’amigdala gioiosa sono più focalizzati sul promuovere le cose buone anziché prevenire quelle cattive» (pp. 43-44, trad. it.)[26]. Anche in questo caso, l’adozione di criteri di ricerca rigorosi e il ricorso a disegni di ricerca su larga scala come le review sistematiche e le meta-analisi sono essenziali contributi al progresso della ricerca scientifica sulla mindfulness.
Interventi di mindfulness basati sulle evidenze scientifiche: una chimera?
«[...] Le varietà di interventi etichettati come “mindful” sono tante quante le definizioni del costrutto [...]. È necessario prestare estrema cautela quando si considera l’implementazione su larga scala di adattamenti minimamente testati degli interventi di mindfulness più tradizionali»
(Van Dam et al., p. 46, trad. it.)[2]
Sebbene ad oggi il rigoroso programma Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) di Kabat-Zinn sia considerato il “gold standard” degli interventi basati sulla mindfulness, il panorama di interventi è molto vasto e presenta caratteristiche difficilmente comparabili tra di loro in termini di durata, frequenza, pratiche, istruzioni, attività a casa, e obiettivi (Van Dam et al., 2017).[2]
Ciò è strettamente legato alla carenza di consenso nel definire cosa sia la mindfulness e quali siano gli elementi che la caratterizzano. Sotto il termine ombrello di “interventi basati sulla mindfulness” rientrano pratiche molto diverse tra loro, di cui è difficile determinare l’efficacia e la sicurezza. Non solo non vi è concordanza nelle definizioni, ma vi sono anche troppe differenze nei modi in cui i diversi autori hanno inteso le pratiche in termini di frequenza, durata, expertise e strumenti di misura.
Come osservato da Davidson & Dahl (2017), vi sono discrepanze anche negli obiettivi dei diversi interventi basati sulla mindfulness.
Originariamente questi protocolli sono stati progettati per promuovere il benessere e ridurre lo stress associato a particolari eventi di vita come la comparsa di malattie fisiche e di dolore cronico, non per intervenire su stati di sofferenza mentale clinicamente rilevanti come disturbi d’ansia, dell’umore, da uso di sostanze o del comportamento alimentare. Benessere e malessere psicologici sono costrutti diversi che richiedono obiettivi, approcci e strategie differenti (Ruini et al. 2003)[27] che non si escludono a vicenda. La confusione negli obiettivi di intervento che si intende raggiungere è uno dei tanti problemi che incorre quando si intende studiare gli effetti benefici e non delle diverse pratiche. Un altro elemento che complica ulteriormente il quadro è la sempre più diffusa disponibilità di interventi di mindfulness tramite app e software (Davidson & Dahl, 2017): da una parte questo rende ancora più estesa la diffusione di pratiche difficilmente validate, dall’altra ha il potenziale di diventare una risorsa per la conduzione di studi su larga scala.
Come affermato da Crane e colleghi (2017)[3], fornire accurate descrizioni degli interventi è vitale per promuovere programmi validati e sicuri. In assenza di chiare definizioni e di una comunicazione al pubblico limpida, non è possibile né sostenere una ricerca che permetta chiari confronti né avere un controllo sugli interventi erogati e sulla preparazione dei docenti.
In un articolo del 2015, Dimidjian e Segal[28] hanno indagato la qualità di diverse ricerche sugli interventi basati sulla mindfulness, utilizzando il modello a stadi del National Institute of Health per la ricerca clinica (Onken et al., 2014)[29].
Tale modello ha l’obiettivo di valutare lo stato degli studi scientifici sui diversi interventi comportamentali, con l’obiettivo ultimo di sostenere lo sviluppo di interventi che siano basati sulle evidenze, siano altamente implementabili e siano realmente efficaci. In questo modello, uno studio allo stadio 0 è tale se dedicato alla ricerca di base (ossia a specifiche questioni rilevanti per l’intervento - come ad esempio ricerche di base su elementi contemplati nei diversi interventi - come l’attenzione nel caso della mindfulness - ma che non implicano lo studio dell’intervento stesso); lo stadio I riguarda tutte le attività di creazione e valutazione preliminare di nuovi interventi; nello stadio II sono inclusi gli studi aventi l’obiettivo di testare l’efficacia di un intervento in setting di ricerca (es. laboratorio); nello stadio III sono considerate le ricerche dove l’efficacia è indagata nel “real world”, ossia in contesti di comunità e con operatori che lavorano in quei contesti abitualmente (es. insegnanti, clinici o caregiver); lo stadio IV riguarda gli studi in contesti di comunità su interventi già empiricamente supportati, al fine di massimizzarne la validità esterna (ossia il grado di generalizzabilità dell’efficacia a contesti reali e non di laboratorio); infine, nello stadio V sono considerate le ricerche che esaminano le strategie di interventi di attestata efficacia in contesti di comunità. Dallo studio di Dimidjian e Segal (2015)[28] emerge che solo il 30% delle ricerche che utilizzano interventi basati sulla mindfulness sono andate oltre lo stadio I.
La maggior degli studi restanti, nello specifico il 20%, si è fermata allo stadio II. Di questi, solo il 9% ha raggiunto lo Stadio IIb (presenza di controlli attivi). Inoltre, solo l’1% delle ricerche considerate è stato condotto al di fuori di contesti di laboratorio, e quindi con modalità più “ecologiche” e generalizzabili ai setting in cui abitualmente queste pratiche vengono attuate. Nonostante questa carenza di evidenze, affermano Van Dam e colleghi, «c’è una percezione errata comune a livello pubblico e governativo che esistano prove cliniche convincenti sull’ampia e forte efficacia della mindfulness come intervento terapeutico» (p.46, trad.it.).
Comunque nel dubbio male non fa, giusto?
«Nel campo dei trattamenti psicologici, che possono includere anche programmi e pratiche di meditazione, gli effetti indesiderati degli interventi sono raramente valutati, sebbene siano stati sviluppati alcuni questionari ad hoc. Nell’area delle pratiche di meditazione e degli interventi basati sulla mindfulness, gli studi scientifici sugli effetti indesiderati sono inusuali e di solito si basano su casi singoli o su ipotesi speculative. [...] Curiosamente, questo problema non viene affrontato nei principali protocolli di mindfulness (MBSR, MBCT) né nella maggior parte degli studi sugli interventi basati sulla mindfulness. Sembra che l’espansione della mindfulness in Occidente si sia associata ad una visione gentile e positiva della tecnica, senza il necessario equilibrio relativo alle conseguenze negative di qualsiasi pratica».
(Cebolla et. al, 2017, pp. 2-6, trad. it.)
Quando si parla di interventi psicologici, vi può essere la misconcezione che questi possano funzionare o, al massimo, non avere effetto. Ciò che spesso non viene considerato è che gli interventi psicologici possono anche avere effetti collaterali, complicazioni ed esiti non programmati (Guidi et al., 2018)[30].
Con il termine “effetti avversi” ci si riferisce agli effetti indesiderati e dannosi emersi da un trattamento; gli “effetti collaterali” indicano invece qualsiasi effetto che sia secondario all’esito previsto dal trattamento. In farmacologia e medicina è pratica comune evidenziare le possibili problematiche derivanti dai trattamenti intrapresi. Questa prassi è meno diffusa in psicologia, negligenza manifestata anche dal fatto che l’attuale letteratura su questo tema sia ancora limitata rispetto a quella di altre discipline in cui vi è una più diffusa cultura evidence-based.
Durante o a seguito di un intervento psicologico, possono emergere effetti come la comparsa di nuovi sintomi non presenti prima del trattamento o un peggioramento di quelli già presenti. Sono da considerarsi possibili effetti avversi anche il mancato raggiungimento degli obiettivi attesi, l’assenza di miglioramenti nella condizione oggetto dell’intervento, la ritardata o mancata possibilità di scegliere interventi più efficaci per quella data condizione.
Come riportato da Van Dam e colleghi (2017)[2], sono presenti in letteratura diversi casi di problematiche associate a pratiche meditative (episodi psicotici, maniacali, di depersonalizzazione, d’ansia, di panico, di rievocazione di ricordi traumatici, ecc.). Il National Health Institute ha riconosciuto che le pratiche meditative potrebbero essere rischiose per persone con condizioni di sofferenza psicologica clinicamente rilevanti, e raccomanda loro di rivolgersi al proprio medico di fiducia prima di iniziare qualsiasi attività meditativa e di far presente la propria situazione a chi condurrà la pratica (NCCIH, 2016)[31].
Nella Mindfulness-Based Stress Reduction di Kabat-Zinn, ad esempio, la presenza di qualsiasi disturbo psichiatrico è un criterio di esclusione alla partecipazione al protocollo (Van Dam et al., 2017)[2]. Sebbene ad oggi su questo tema vi siano solo alcune evidenze di efficacia della MBCT nella prevenzione delle ricadute depressive (Musa et al., 2020)[32], ovunque si possono trovare pubblicità e professionisti che propongono percorsi di mindfulness dedicati alla gestione delle più disparate problematiche psicologiche, come quelle legate all’ansia, al tono dell’umore deflesso, al comportamento alimentare, ecc.
Non possono quindi che sorgere spontanei dei dubbi: cosa giustifica l’utilizzo delle tecniche di mindfulness per simili problemi? In quante di queste circostanze viene effettuata una valutazione preliminare per verificare l’eventuale presenza di una sofferenza clinicamente rilevante al fine di escludere i soggetti più vulnerabili? Quante volte vengono illustrati i potenziali rischi della pratica? A quante persone viene raccomandato di ricorrere ad altre pratiche già validate per quel tipo di necessità? Inoltre, le persone che già presentano sofferenza psicologica non sono le uniche a poter incorrere in effetti avversi legati alle pratiche meditative.
Nel 2020 è stata pubblicata la prima meta-analisi che abbia indagato gli effetti avversi degli interventi basati sulla meditazione e sulla mindfulness (Farias et al., 2020).[33]
Figura 2: Effetti avversi (in proporzione) osservati durante o dopo interventi basati sulla meditazione e sulla mindfulness (fonte: Farias et al., 2020).
Nello studio è stata osservata una prevalenza di eventi avversi dell’8,3%. Su soli 83 studi pubblicati tra il 1975 e il 2019 che prevedevano la valutazione di eventuali eventi indesiderati associati con la pratica meditativa, in 55 è stato riportato almeno un tipo di evento avverso. Sebbene i dati a disposizione siano insufficienti ad approfondire gli eventuali fattori individuali correlati agli eventi avversi emersi, gli autori evidenziano come tali effetti si siano registrati soprattutto in persone che non avevano una storia di problemi di salute mentale precedente all’intervento. Ne consegue che l’attenzione a questo tema è fondamentale per la tutela non solo di persone che già presentano fragilità psicologiche a priori, bensì per quella della popolazione generale.
Un miglioramento della progettazione e conduzione delle ricerche sulla mindfulness risulta quindi fondamentale anche in questo: nell’aumentare sempre più la consapevolezza di quali pratiche siano indicate nei diversi contesti e quali no. Farias e colleghi (2020)[33] concludono la meta-analisi affermando che «un primo passo è quello di informare le persone della possibilità di questi effetti avversi. I ricercatori e i centri coinvolti nello studio della meditazione hanno il dovere etico di informare tutti coloro che prendono parte ai loro corsi dell’esistenza e della prevalenza degli effetti avversi, e i trial clinici dovrebbero includere moduli di consenso informato che informino del fatto che questi eventi avversi possano accadere».
Come raccomandato da Van Dam e colleghi (2017)[2], infatti, ricercatori e professionisti dovrebbero - anziché incoraggiare l’entusiasmo dei media - impegnarsi a comunicare in maniera più accurata ai giornalisti, al pubblico e agli altri scienziati non solo le informazioni relative ai potenziali benefici delle pratiche basate sulla mindfulness, ma anche i limiti attualmente riscontrati nella ricerca e i possibili rischi associati a interventi non validati e non supportati da evidenze sufficientemente solide. Una maggiore consapevolezza, considerazione e condivisione di questo tema sia a livello di ricerca scientifica che mediatico contribuirebbe al progresso scientifico e alla produzione di dati di qualità; aiuterebbe gli insegnanti, i ricercatori e i clinici a formarsi su questo argomento e a gestire meglio possibili difficoltà; permetterebbe di tutelare i partecipanti e il pubblico e di prevenire situazioni lesive (Farias et al., 2020).[33]
Attualmente in Italia non esiste una regolamentazione che stabilisca chi possa o non possa condurre interventi di mindfulness (Commelato et al, 2016)[34]. Esistono corsi di diversa natura (sia universitari che privati), ma non sono necessarie particolari qualifiche per poter esercitare il ruolo di insegnante. La mancanza di regolamentazione degli insegnanti di mindfulness aumenta la possibilità che tali servizi vengano erogati da persone non adeguatamente formate e che non abbiano una reale consapevolezza delle criticità su questo tema e su come rapportarsi ai diversi tipi di utenza con cui potrebbero interfacciarsi. Nonostante ciò, come abbiamo potuto osservare, «è importante che vi sia chiarezza esplicita sulle intenzioni fondamentali dell’intervento basato sulla mindfulness sulla base del contesto specifico e dei partecipanti-target» (Crane et al., 2017, p. 996, trad. it.).[3]
In conclusione, allo stato attuale lo studio e l’applicazione della mindfulness presentano diverse criticità che è necessario riconoscere, affrontare e superare. Innanzitutto non vi è concordanza sui termini utilizzati; la qualità delle ricerche è ancora troppo bassa; vi è una carenza di interventi supportati da evidenze scientifiche; vi è la necessità di ampliare la letteratura, la consapevolezza e la comunicazione sui possibili effetti avversi di pratiche di mindfulness non sufficientemente studiate. Tutte queste problematiche possono essere superate investendo in ricerche più rigorose e in una comunicazione scientifica e divulgativa più realistica e meno improntata a fomentare l’entusiasmo per un settore che attualmente è ancora molto lontano dall’essere una panacea per tutti i mali. Lo studio degli interventi sulla mindfulness è un campo molto giovane in cui, ancor più che in campi più “maturi”, l’eccessiva esaltazione per delle osservazioni preliminari discutibili può interferire con l’attendibilità e la riproducibilità dei risultati empirici. Esplorare ed evidenziare le attuali criticità della ricerca sulla mindfulness è il primo passo fondamentale per adottare approcci e strategie utili a migliorare la situazione e a far effettivamente progredire un campo che potrebbe fornire importanti contributi agli interventi di promozione del benessere o di gestione di diversi tipi di sofferenza.
Esercizi Mindfulness
In questo box riportiamo alcuni esempi di pratica basata sulla mindfulness in modo da chiarire la tipologia di esercizi che vengono proposti.
Nel presentarli, sottolineiamo che le pratiche meditative – così come tutti i tipi di intervento psicologico – portano con sé il rischio di effetti avversi (Guidi et al., 2018).[30] Nel caso della mindfulness, tra le varie reazioni sono state riportate ansia, abbassamento del tono dell’umore, alterazioni delle funzioni cognitive, stress e allucinazioni (Farias et al., 2020).[33]
A chi è interessato viene solitamente suggerito di consultare un professionista (ad esempio il proprio medico) prima di sperimentare questi esercizi o di eseguirli in presenza di istruttori adeguatamente formati. Inoltre viene raccomandato, qualora nel corso della pratica si provassero sensazioni di disagio particolarmente intense, di sospendere immediatamente l’esercizio e, qualora il malessere dovesse persistere, di contattare uno specialista di riferimento.
Gli esercizi di mindfulness sono caratterizzati da un andamento progressivo: partono da attività più semplici e brevi fino ad arrivare a pratiche che richiedono un’attenzione più focalizzata e sostenuta nel tempo. In questo tipo di percorsi viene generalmente data molta importanza alla costanza e si consiglia di preferire pratiche brevi ogni giorno piuttosto che lunghe sessioni meditative poche volte alla settimana. Solitamente non viene indicato un momento preciso della giornata in cui svolgere la pratica, ma si invita a scegliere autonomamente il momento della giornata più consono allo svolgimento degli esercizi. In genere viene consigliato di sedersi per terra a gambe incrociate o su una sedia con i piedi ben appoggiati al suolo e si invita a ad appoggiare le mani sulle cosce con i palmi rivolti verso l’alto e a chiudere gli occhi o guardare un punto fisso.
Attenzione sul proprio respiro
Siediti, fai un respiro profondo e chiudi gli occhi. Concentrati sul tuo respiro mentre entra ed esce dal tuo corpo. Se inizi a pensare ad altro, riporta gentilmente la tua attenzione sul respiro. Continua l’esercizio per qualche minuto.
Body scan
Focalizza la tua attenzione su ogni parte del tuo corpo, una ad una, lentamente in ordine, dai piedi alla testa o dalla testa ai piedi. Sii consapevole di qualsiasi sensazione, emozione o pensiero associato a ciascuna parte del tuo corpo.
Meditazione camminata
Trova un posto tranquillo lungo 3-6 metri e inizia a camminare lentamente. Concentrati sull'esperienza del camminare, rimanendo consapevole delle sensazioni dello stare in piedi e dei movimenti sottili che mantengono l'equilibrio. Quando raggiungi la fine del percorso, voltati e continua a camminare, mantenendo la consapevolezza delle tue sensazioni e del respiro. Se possibile mantieni gli occhi chiusi.
(Adattato dal sito di Mayo Clinc )
Note
2) Van Dam, N. T., van Vugt, M. K., Vago, D. R., Schmalzl, L., Saron, C. D., Olendzki, A., ... & Meyer, D. E. (2017). Mind the hype: A critical evaluation and prescriptive agenda for research on mindfulness and meditation. Perspectives on Psychological Science, 13(1), 36-61.
3) Crane, R. S., Brewer, J., Feldman, C., Kabat-Zinn, J., Santorelli, S., Williams, J. M. G., & Kuyken, W. (2017). What defines mindfulness-based programs? The warp and the weft. Psychological Medicine, 47(6), 990-999.
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