Nel 1927 un pilota dell’aviazione peruviana notò, mentre sorvolava un’arida pianura che si estende tra le città di Nazca e Palma, delle strane linee sul terreno, lunghe chilometri, che formavano diverse figure ben riconoscibili.
Col tempo sono state individuate circa 13000 linee che costituiscono più di cento figure geometriche come spirali, trapezi e triangoli, e quasi 800 giganteschi disegni zoomorfi o antropomorfi.
Tutte le figure sono state tracciate tra il 200 a.C. e il 600 d.C., rimuovendo dal terreno le pietre scure superficiali, in modo da lasciare apparire lo strato di terra sottostante, di colore più chiaro. Se si sono conservate tanto bene fino ai nostri giorni è perché si tratta di una delle zone più aride del mondo, dove vento e pioggia sono quasi del tutto assenti.
Queste figure costituiscono un enigma a cui moltissimi studiosi hanno tentato di dare una risposta: cosa rappresentano? Perché sono state realizzate? E in che modo? Le opere, infatti, sono visibili solo dall’alto. Le rette, pur lunghe chilometri, sono tracciate in modo incredibilmente preciso, con piccolissimi angoli di deviazione. I disegni sono ben proporzionati, considerando le loro enormi dimensioni. Come potevano i Nazca riuscire a disegnarle?
Erich von Däniken, nel suo libro Chariots of the Gods?, del 1968, è convinto che dietro al mistero ci siano gli alieni, che, secondo lui, avrebbero visitato la nostra Terra in epoche remote, forse alla ricerca di minerali, di cui il suolo della pianura è ricco. Secondo Däniken, le figure sarebbero state disegnate seguendo le istruzioni dall’alto degli extraterrestri, mentre le linee più lunghe e larghe costituirebbero delle vere e proprie piste di atterraggio per i veicoli extraterrestri.
Tuttavia, la studiosa Maria Reiche, matematica e archeologa tedesca che si è occupata della cartografia e conservazione delle tracce, ha dichiarato: «temo proprio che gli astronauti si sarebbero impantanati»[1], considerando che il terreno è troppo molle per consentire un atterraggio. Tra le presunte prove a sostegno dell’ipotesi di Däniken c’è la figura denominata “l’Astronauta”[2], tracciata sul fianco di una montagna e lunga 30 metri, la cui testa, secondo i seguaci delle teorie del paleocontatto, ricorda il casco di un astronauta e può essere facilmente interpretata come un alieno che saluta i terrestri. L’ipotesi più accreditata, però, è che si tratti semplicemente della rappresentazione stilizzata di una figura umana.
Oltre all’ipotesi extraterrestre ve ne sono molte altre. Maria Reiche ha ipotizzato che queste rappresentazioni avessero un significato astronomico: ciascuna figura potrebbe riferirsi a una costellazione: la Scimmia all’Orsa Maggiore, il Delfino e il Ragno alla Costellazione di Orione.
Lo studioso Hans Horkheimer, nel 1947, ipotizzò si trattasse di tracciati che indicavano come e dove camminare durante le cerimonie religiose, e negli anni precedenti ipotesi analoghe erano state formulate anche da Toribio Meija Xespe, archeologo peruviano, e Paul Kosok, archeologo statunitense.
Invece, una più recente ipotesi è quella del ricercatore indipendente americano David Johnson, elaborata in collaborazione con i ricercatori della University of Massachusetts[3]. Secondo Johnson, i geoglifi rappresentano una mappa delle rare risorse idriche sotterranee, per cui ogni figura indicherebbe dov’era localizzata una sorgente: i trapezi indicavano l’esistenza di un pozzo, i cerchi delle fontanelle o sorgenti. L’ipotesi di una relazione tra le figure e l’acqua è sostenuta dagli studi dell’Istituto Archeologico Tedesco e dall’Istituto Andino di Ricerche archeologiche, i cui ricercatori hanno documentato la presenza di offerte religiose in piccole cavità vicino ai geoglifi proprio come se si volessero ringraziare gli dei per la presenza dell’acqua in quel punto.
Ma alla domanda, ancora senza una risposta certa, sul perché siano stati realizzati questi enormi geoglifi, si affianca il grandissimo mistero su come possano essere stati realizzati.
Un’ipotesi meno fantasiosa dei veicoli extraterrestri, ma comunque ritenuta improbabile, è quella dell’esploratore Jim Woodman[4], secondo cui i Nazca erano riusciti a costruire dei palloni aerostatici ad aria calda da cui osservare le proprie opere. L’idea deriva dal ritrovamento di alcuni reperti che sembrano rappresentare rudimentali mongolfiere. Per dimostrarla, Woodman ha tentato di costruire, insieme ai suoi colleghi della International Explorers Society, un pallone aerostatico usando solo tela, corde e canne, materiali disponibili all’epoca. L’esperimento è quasi riuscito, nel senso che Woodman e un pilota coraggioso si sono effettivamente alzati in volo su questa rudimentale mongolfiera, rischiando però la vita a 100 metri d’altezza sopra la piana di Nazca.
Tuttavia, per costruire quei geoglifi non è necessario alcun velivolo, come ha dimostrato il giornalista investigativo Joe Nickell nel 1982[5], riuscendo a riprodurre perfettamente il gigantesco condor, lungo 150 metri, con tecniche e mezzi che i Nazca avrebbero potuto tranquillamente avere. L’idea trae spunto dalla dimostrazione[6] dell’esploratore Tony Morrison che si possono disegnare linee rette molto lunghe con l’uso di paletti e corde.
Nickell partì da un disegno più piccolo, sul quale individuò una linea centrale dalla quale misurare le distanze di alcuni punti chiave. Ovviamente un dato numero di unità sul disegno piccolo avrebbe richiesto lo stesso numero di unità più grandi sul disegno sul campo. Come unità più grandi Nickell utilizzò quella dedotta da Maria Reiche nei suoi studi, che equivale a circa 32.2 centimetri. Per riportare poi tali misure sul terreno vennero preparate delle corde dove ogni unità era segnata con della vernice. Per riuscire a disegnare angoli retti costruì una semplice struttura a T con degli assi di legno. Grazie a sei aiutanti, scelti tra i suoi parenti (compreso il nipotino di 11 anni), in sole nove ore riuscì a picchettare 165 punti, congiungendoli con dello spago.
Secondo Nickell, probabilmente i Nazca tracciavano direttamente i solchi o delle linee preliminari man mano che procedevano nel segnare i vari punti, cosa che durante il suo esperimento non era possibile fare, a causa delle diverse condizioni climatiche (l’esperimento si è svolto in una zona pianeggiante a West Liberty, nel Kentucky, dove piove molto più che nella pianura di Nazca) e per la differenza del terreno, che non ha reso possibile tracciare le linee semplicemente rimuovendo la ghiaia per esporre il terreno sottostante, come nel caso dei geoglifi originali (è stata usata, invece, della calcina bianca, come quella usata per tracciare le linee nei campi sportivi). Per fare cerchi perfetti era sufficiente posizionare un paletto e poi tracciare la circonferenza con l’aiuto di una corda che, fissata al paletto, funge da raggio.
Per marcare le linee fu necessaria un’altra giornata, dopo di che, grazie a un pilota locale, poterono finalmente ammirare la loro opera dall’alto: un successo!
Probabilmente i Nazca usavano meno punti di quelli usati da Nickell, il che spiega le imperfezioni, e disegnavano alcune regioni a mano libera. Resti di paletti sono stati trovati lungo alcune delle linee, a intervalli dell’ordine del miglio. Si può presumere che avessero dapprima testato il sistema di ingrandimento su figure più piccole in prossimità di alture e poi abbiano realizzato i geoglifi più grandi.
Un altro punto interessante sollevato da Nickell è che in realtà non è necessario vedere il disegno dall’alto per riconoscerne il soggetto: da alcuni test fatti, degli ignari osservatori si sono dimostrati in grado di identificare correttamente l’animale raffigurato vedendolo da terra. La conclusione dell’investigatore è quindi che «non c’è nessuna prova che nel lavoro siano stati coinvolti degli extraterrestri ma, se ci fossero stati, si può concludere solo che sembrano aver usato bastoni e corde, proprio come gli indios».
Col tempo sono state individuate circa 13000 linee che costituiscono più di cento figure geometriche come spirali, trapezi e triangoli, e quasi 800 giganteschi disegni zoomorfi o antropomorfi.
Tutte le figure sono state tracciate tra il 200 a.C. e il 600 d.C., rimuovendo dal terreno le pietre scure superficiali, in modo da lasciare apparire lo strato di terra sottostante, di colore più chiaro. Se si sono conservate tanto bene fino ai nostri giorni è perché si tratta di una delle zone più aride del mondo, dove vento e pioggia sono quasi del tutto assenti.
Queste figure costituiscono un enigma a cui moltissimi studiosi hanno tentato di dare una risposta: cosa rappresentano? Perché sono state realizzate? E in che modo? Le opere, infatti, sono visibili solo dall’alto. Le rette, pur lunghe chilometri, sono tracciate in modo incredibilmente preciso, con piccolissimi angoli di deviazione. I disegni sono ben proporzionati, considerando le loro enormi dimensioni. Come potevano i Nazca riuscire a disegnarle?
Erich von Däniken, nel suo libro Chariots of the Gods?, del 1968, è convinto che dietro al mistero ci siano gli alieni, che, secondo lui, avrebbero visitato la nostra Terra in epoche remote, forse alla ricerca di minerali, di cui il suolo della pianura è ricco. Secondo Däniken, le figure sarebbero state disegnate seguendo le istruzioni dall’alto degli extraterrestri, mentre le linee più lunghe e larghe costituirebbero delle vere e proprie piste di atterraggio per i veicoli extraterrestri.
Tuttavia, la studiosa Maria Reiche, matematica e archeologa tedesca che si è occupata della cartografia e conservazione delle tracce, ha dichiarato: «temo proprio che gli astronauti si sarebbero impantanati»[1], considerando che il terreno è troppo molle per consentire un atterraggio. Tra le presunte prove a sostegno dell’ipotesi di Däniken c’è la figura denominata “l’Astronauta”[2], tracciata sul fianco di una montagna e lunga 30 metri, la cui testa, secondo i seguaci delle teorie del paleocontatto, ricorda il casco di un astronauta e può essere facilmente interpretata come un alieno che saluta i terrestri. L’ipotesi più accreditata, però, è che si tratti semplicemente della rappresentazione stilizzata di una figura umana.
Oltre all’ipotesi extraterrestre ve ne sono molte altre. Maria Reiche ha ipotizzato che queste rappresentazioni avessero un significato astronomico: ciascuna figura potrebbe riferirsi a una costellazione: la Scimmia all’Orsa Maggiore, il Delfino e il Ragno alla Costellazione di Orione.
Lo studioso Hans Horkheimer, nel 1947, ipotizzò si trattasse di tracciati che indicavano come e dove camminare durante le cerimonie religiose, e negli anni precedenti ipotesi analoghe erano state formulate anche da Toribio Meija Xespe, archeologo peruviano, e Paul Kosok, archeologo statunitense.
Invece, una più recente ipotesi è quella del ricercatore indipendente americano David Johnson, elaborata in collaborazione con i ricercatori della University of Massachusetts[3]. Secondo Johnson, i geoglifi rappresentano una mappa delle rare risorse idriche sotterranee, per cui ogni figura indicherebbe dov’era localizzata una sorgente: i trapezi indicavano l’esistenza di un pozzo, i cerchi delle fontanelle o sorgenti. L’ipotesi di una relazione tra le figure e l’acqua è sostenuta dagli studi dell’Istituto Archeologico Tedesco e dall’Istituto Andino di Ricerche archeologiche, i cui ricercatori hanno documentato la presenza di offerte religiose in piccole cavità vicino ai geoglifi proprio come se si volessero ringraziare gli dei per la presenza dell’acqua in quel punto.
Ma alla domanda, ancora senza una risposta certa, sul perché siano stati realizzati questi enormi geoglifi, si affianca il grandissimo mistero su come possano essere stati realizzati.
Un’ipotesi meno fantasiosa dei veicoli extraterrestri, ma comunque ritenuta improbabile, è quella dell’esploratore Jim Woodman[4], secondo cui i Nazca erano riusciti a costruire dei palloni aerostatici ad aria calda da cui osservare le proprie opere. L’idea deriva dal ritrovamento di alcuni reperti che sembrano rappresentare rudimentali mongolfiere. Per dimostrarla, Woodman ha tentato di costruire, insieme ai suoi colleghi della International Explorers Society, un pallone aerostatico usando solo tela, corde e canne, materiali disponibili all’epoca. L’esperimento è quasi riuscito, nel senso che Woodman e un pilota coraggioso si sono effettivamente alzati in volo su questa rudimentale mongolfiera, rischiando però la vita a 100 metri d’altezza sopra la piana di Nazca.
Tuttavia, per costruire quei geoglifi non è necessario alcun velivolo, come ha dimostrato il giornalista investigativo Joe Nickell nel 1982[5], riuscendo a riprodurre perfettamente il gigantesco condor, lungo 150 metri, con tecniche e mezzi che i Nazca avrebbero potuto tranquillamente avere. L’idea trae spunto dalla dimostrazione[6] dell’esploratore Tony Morrison che si possono disegnare linee rette molto lunghe con l’uso di paletti e corde.
Nickell partì da un disegno più piccolo, sul quale individuò una linea centrale dalla quale misurare le distanze di alcuni punti chiave. Ovviamente un dato numero di unità sul disegno piccolo avrebbe richiesto lo stesso numero di unità più grandi sul disegno sul campo. Come unità più grandi Nickell utilizzò quella dedotta da Maria Reiche nei suoi studi, che equivale a circa 32.2 centimetri. Per riportare poi tali misure sul terreno vennero preparate delle corde dove ogni unità era segnata con della vernice. Per riuscire a disegnare angoli retti costruì una semplice struttura a T con degli assi di legno. Grazie a sei aiutanti, scelti tra i suoi parenti (compreso il nipotino di 11 anni), in sole nove ore riuscì a picchettare 165 punti, congiungendoli con dello spago.
Secondo Nickell, probabilmente i Nazca tracciavano direttamente i solchi o delle linee preliminari man mano che procedevano nel segnare i vari punti, cosa che durante il suo esperimento non era possibile fare, a causa delle diverse condizioni climatiche (l’esperimento si è svolto in una zona pianeggiante a West Liberty, nel Kentucky, dove piove molto più che nella pianura di Nazca) e per la differenza del terreno, che non ha reso possibile tracciare le linee semplicemente rimuovendo la ghiaia per esporre il terreno sottostante, come nel caso dei geoglifi originali (è stata usata, invece, della calcina bianca, come quella usata per tracciare le linee nei campi sportivi). Per fare cerchi perfetti era sufficiente posizionare un paletto e poi tracciare la circonferenza con l’aiuto di una corda che, fissata al paletto, funge da raggio.
Per marcare le linee fu necessaria un’altra giornata, dopo di che, grazie a un pilota locale, poterono finalmente ammirare la loro opera dall’alto: un successo!
Probabilmente i Nazca usavano meno punti di quelli usati da Nickell, il che spiega le imperfezioni, e disegnavano alcune regioni a mano libera. Resti di paletti sono stati trovati lungo alcune delle linee, a intervalli dell’ordine del miglio. Si può presumere che avessero dapprima testato il sistema di ingrandimento su figure più piccole in prossimità di alture e poi abbiano realizzato i geoglifi più grandi.
Un altro punto interessante sollevato da Nickell è che in realtà non è necessario vedere il disegno dall’alto per riconoscerne il soggetto: da alcuni test fatti, degli ignari osservatori si sono dimostrati in grado di identificare correttamente l’animale raffigurato vedendolo da terra. La conclusione dell’investigatore è quindi che «non c’è nessuna prova che nel lavoro siano stati coinvolti degli extraterrestri ma, se ci fossero stati, si può concludere solo che sembrano aver usato bastoni e corde, proprio come gli indios».
Note
1) Loren McIntyre, “Mystery of the Ancient Nazca Lines”, National Geographic (May, 1975): 716-28
2) Coordinate: 14°44′42.79″S 75°04′47.08″W
4) Jim Woodman, “Nazca: Journey to the Sun”, New York: Pocket Books, 1977
5) Joe Nickell, “The Nazca Drawings Revisited: Creation of a Full-Sized Duplicate”, Skeptical Inquirer Volume 7.3, Spring 1983 (http://bit.ly/2Bm7sOb ). L’articolo è stato tradotto su Scienza&Paranormale n.26
6) S. Welfare e J. Fairley, “Arthur C. Clarke’s Mysterious World”, New York: A & W Publishers