All’epoca fu il più grande disastro marittimo della storia. Quando il Titanic, la nave da crociera da 46.328 tonnellate, affondò nel Nord Atlantico il 15 aprile 1912 c’erano più di 2.200 persone a bordo.
Ne furono salvate solo circa 700. Molti corpi recuperati furono seppelliti nei cimiteri di Halifax, Nova Scotia (che visitai nell’agosto del 1998 in occasione di un discorso che tenni presso la Canadian Society of Forensic Science). Vennero trovati anche dei resti, denominati “cimeli galleggianti” (Lynch 1992, 178).
Nel 1998 mi fu chiesto di esaminare tre manufatti: i loro cartellini li identificavano come relitti provenienti da quel naufragio.
Venivano davvero da quella sfortunata nave?
Il primo era un pezzo di legno lavorato e parzialmente dipinto. Sul davanti, stampate in inchiostro, c’erano le parole: «Parte di un pannello recuperato dal piroscafo posacavi Minia sul luogo del naufragio del piroscafo Titanic. Perduto il 15 aprile 1912. - Lat. 41.” 42’ - Long. 49° 20’ - morirono 1635 persone». Era lungo circa 15,5 cm, largo 7,2 cm e aveva uno spessore di 2,4 cm (approssimativamente 6 pollici per 3 per 1).
Il secondo era un pezzo di legno più piccolo (vedere figura 15.3), lungo circa 8,15 cm, largo 5,8 cm e aveva uno spessore di 4,3 cm (approssimativamente 3 pollici per 2 per 1½). Sulla superficie anteriore dipinta era scritto in inchiostro: «Parte di una porta recuperata dal piroscafo posacavi Str. Minia. Proveniente dal naufragio del piroscafo Titanic. Perduto il 15 aprile 1912. - Lat. 41” 42’ - Long. 49° 20’ - morirono 1635 persone».
Il terzo era composto da un bullone e relativo dado (vedere figura 15.4) al quale era attaccato un cartellino di carta con la dicitura: «Bullone di una scala interna recuperato dal piroscafo posacavi Minia sul luogo del naufragio del piroscafo Titanic. Perduto il 15 aprile 1912. Morirono 1635 persone, Lat. 41” 42’ Long. 49° 20’». Era lungo circa 7,3 cm (quasi 3 pollici), con la testa di 2,7 cm (quasi 1 pollice) di diametro.
I manufatti erano di proprietà di Mike Brackin di Manchester, Connecticut, che mi affidò l’indagine.
Esaminai i manufatti con luce riflessa e obliqua, sia col microscopio che con lo stereomicroscopio. Li studiai anche con gli infrarossi e con la luce ultravioletta e li sottoposi, tra gli altri, a test microchimici. Fui assistito nella mia indagine storica da Timothy Binga, un esperto conoscitore del Titanic.
Brackin aveva acquistato i pezzi nel 1991 «insieme a un gruppo di manufatti provenienti da diverse navi dell’area di Boston». Riconosceva che «Questi oggetti non hanno una provenienza sicura. Li comprai a una fiera dell’antiquariato; il venditore non si rese neanche conto che avevano una certa importanza. Non fornì alcuna informazione sulla loro origine».
Sebbene sia preferibile conoscere la provenienza di un manufatto di valore, a prima vista non è sospetto non conoscere quella di un souvenir.
Sembra che i tre manufatti fossero accompagnati da due segmenti etichettati di un cavo telegrafico del transatlantico, datati 1912. Questi segmenti di cavo erano collegati ai manufatti del Titanic da cartellini e diciture simili; era logico metterli in relazione al Titanic perché pare che fossero tra i relitti recuperati dalla nave posacavi Minia. Le navi posacavi erano particolarmente attive in quel periodo. La telegrafia sottomarina e la posa dei cavi crebbero rapidamente a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, tanto che nel 1928 ventuno cavi attraversavano l’Atlantico.
Il Minia era in effetti una nave posacavi e prese parte al recupero dei corpi e dei relitti del Titanic. Un manufatto molto noto proveniente dalla nave maledetta era un pilastro di quercia lavorata, che faceva parte di una scala della prima classe del Titanic. Raffigurato nel libro Titanic: An Illustrated History, fu sicuramente recuperato dal Minia.
Il Minia arrivò sul luogo del naufragio il 25 aprile, un venerdì, per dare il cambio al Mackay-Bennett, che portò 190 corpi a Halifax dopo averne sepolti 116 in mare. Il Minia setacciò l’area alla ricerca di corpi, che erano stati spinti dal vento e dal cattivo tempo a 130 miglia di distanza dal luogo del naufragio. In una settimana di ricerche ne furono trovati solo altri 17. Seguirono altre due navi, ma recuperarono una sola vittima e poi la ricerca fu abbandonata. Anche alcune navi di passaggio avvistarono ancora qualche cadavere in decomposizione.
Una lettera scritta dall’assistente telegrafista del Minia, Francis Dyke, alla madre concludeva che «Il Titanic deve essere esploso mentre colava a picco» (in realtà si spezzò in due) «dato che abbiamo recuperato pezzi della scala principale e la maggior parte dei resti provengono dal ponte inferiore». Tra gli altri relitti recuperati vi era una sedia del ponte presa tra le centinaia che galleggiavano in superficie dopo il naufragio; ora si trova al Maritime Museum of the Atlantic a Halifax, Nova Scotia. Un altro era un pezzo lavorato di un pannello di quercia proveniente dal salone d’ingresso. Un testimone a bordo di un’altra nave da ricerca, il Montmagny, affermò che venerdì 10 maggio «era ancora mattina presto quando cominciammo a vedere una serie di relitti che andavano alla deriva. Dopo che la nave si fu fermata, raccogliemmo un pilastro di quercia che faceva parte di una scala. Vedemmo la testiera di un letto, cappelli, pezzi di legno lucidati e dipinti di bianco e un riquadro grande forse quaranta piedi, che poteva essere una parte del ponte dello sfortunato piroscafo».
Sebbene i tre manufatti in questione non avessero provenienza, era chiaro (vedendo i pezzi di cavo che li accompagnavano) che erano stati recuperati da qualcuno che aveva a che fare con la nave posacavi Minia. Questo, unito al fatto che si sapeva che il Minia recuperò relitti del Titanic, costituiva per i manufatti un contesto storico credibile.
I due manufatti di legno, che secondo il cartellino erano parte di un pannello e di una porta, erano chiaramente stati segati per dare loro la forma attuale. Questo probabilmente era stato fatto per presentarli come relitti, ma anche per dividere pezzi di dimensioni maggiori. La persona che scrisse i cartellini si riferiva a entità più grandi (un pannello, una porta, e, nel caso del bullone, una scala interna), indicando che i pezzi erano stati tratti da strutture chiaramente riconoscibili.
Entrambi i pezzi di legno erano fatti a incastro. Il colore bruno rossastro, la grana diritta, la densità e altre caratteristiche identificarono il legno come una varietà di mogano, un legno duro comunemente usato per pannelli e armadi. È stato definito “il più importante legno per armadi del mondo” ed è stato usato anche nella costruzione di navi. Il mogano venne usato sul Titanic per fare pannelli e altri oggetti in legno.
Il frammento della porta aveva tre fori di vite, uno dei quali fu tagliato in due quando fu segato per dargli la forma attuale. I segni equidistanti della filettatura indicavano una vite fatta a macchina. La posizione dei tre buchi era tipica di un modello usato per un cardine, compatibile con l’asportazione del pezzo dalla porta.
Il pezzo di pannello mostrava una modanatura sia modellata sulla solida cornice che inchiodata sul pannello. La modanatura sembrava compatibile con le fotografie pubblicate dei pannelli delle cabine di lusso. Il pezzo singolo della modanatura inchiodata era stato rimosso, lasciando un chiodo a vista. (Il proprietario disse che aveva tolto il pezzo per tenerlo nella sua collezione privata).
Il vecchio chiodo era stato fatto con un filo di ferro ed era del tipo da rifinitura. Fabbricato in ferro semplice, piuttosto che galvanizzato o in lega di alluminio, era molto arrugginito anche se non era stato esposto per tutta la lunghezza fino alla sua recente rimozione. La ruggine era compatibile con l’esposizione all’acqua salata del mare, ma poteva essere stata causata da altri fattori. A sinistra dell’iscrizione c’era un segno che, una volta ingrandito, sembrava essere il risultato di un chiodo arrugginito incollato alla superficie. Potrebbe esservi stato messo in seguito, poiché le righe del testo, in effetti, sono centrate nello spazio disponibile. In altre parole, sembrava che il testo fosse stato scritto prima di applicare il chiodo.
Un esame visivo del pannello mostrava uno strato di fondo e una mano di vernice. Non si apprezzava nessuna traccia di riverniciatura. La vernice bianca era compatibile con le fotografie in bianco e nero delle cabine di lusso del Titanic. Vi fu una forte risposta al test chimico di controllo per il piombo. Era ingiallita col tempo, cosa normale per la vernice al piombo bianca vecchia esposta in ambienti interni, specialmente al buio.
In un punto la vernice sul pannello era stata danneggiata, rovinando l’inizio delle due ultime righe del testo. L’esame mostrò che il danno era avvenuto dopo che la vernice si era asciugata, ma prima che lo strato si fosse seccato completamente. Il danno consisteva in uno scivolamento della vernice, che aveva formato una “gobba”. La dicitura in inchiostro era sicuramente stata scritta sopra questo difetto (e quindi dopo che esso si era prodotto). Questo risultato era compatibile con l’applicazione di una forza (come una nave che naufraga) quando la vernice era ancora relativamente nuova. La vernice mostrava un altro danno sotto forma di sfaldamento compatibile con la fragilità dovuta all’età.
Il cartellino applicato al bullone, che afferma che l’oggetto proveniva da una scala interna (una scala tra i ponti), conferma che fu proprio recuperato dal relitto, dato che ovviamente i bulloni non galleggiano. Il fatto che il bullone provenga da un rottame più grande sarebbe compatibile con la comune pratica di dividere i manufatti con lo scopo di moltiplicare i souvenir (altri esempi di questa prassi li ho riscontrati con le reliquie dei santi, con un piccolo pezzo di legno proveniente da una trave dell’Independence Hall e con un quadratino di tappezzeria della casa dove morì il Presidente Lincoln). Questa possibilità era suffragata dai due pezzi di cavo del transatlantico che si presentavano allo stesso modo (entrambi avevano i capi sigillati per evitare che si disfacessero) e le cui etichette erano scritte nella stessa calligrafia e con la stessa stesura riga per riga (evidente anche se mancava metà di un cartellino).
Il bullone era composto da un metallo ferroso, come mostrava il fatto che veniva attirato da un magnete, e dalle tracce visibili di ruggine. Non era arrugginito completamente perché era stato ricoperto da una vernice all’alluminio. Composta da polvere di alluminio, questo tipo di vernice esisteva già dalla metà del diciannovesimo secolo, ma non fu facile trovarla in commercio fino al 1896.
La targhetta attaccata al bullone era fatta di carta stratificata con un foro ad un’estremità. Il foro era circondato da entrambi i lati da un anello rinforzatore di carta. Su un lato dell’anello era stampata la dicitura “DENNISON’S E/E MANILA”. Il cartellino era stato rotto in due punti e riparato da mani inesperte con un pezzo di nastro gommato trasparente, tagliato dalla lama seghettata di un comune dispenser. Le parti rotte erano state ulteriormente danneggiate, tanto che un’estremità del cartellino rimaneva attaccata a mala pena e non ci si poteva aspettare che ci restasse ancora per molto dopo essere stata così a lungo maneggiata. Un pezzo dell’anello rinforzatore si era staccato.
Esaminai il cartellino con la luce ultravioletta, che non mostrò alcun genere di sbiancante ottico. Quest’ultimo veniva usato nella carta a partire dalla seconda guerra mondiale e la sua presenza (che sarebbe stata indicata dalla fluorescenza UV) avrebbe rivelato una più recente manifattura. La dicitura Dennison era stampata in malo modo, con quello che sembrava essere inchiostro da stampa tipografica. La carta fibrosa era compatibile con la dicitura “Manila”, che indica la canapa di Manila. Il cordoncino del cartellino era fibroso anch’esso, essendo fatto in una varietà grezza chiaramente tinta di nero. Il termine carta manila risale almeno al 1873, secondo l’autorevole Oxford English Dictionary. Fondata nel 1844, la Dennison Manufacturing Company (che ora fa parte della Avery Dennison Corporation) pro5duceva etichette in carta manila fin dal 1893. Il tipo particolare “E” o “Manila Quality”, facente parte dei «Dennison’s patented shipping Tags»[1], pubblicizzato come «a parità di resistenza, il cartellino più conveniente sul mercato» venne presentato a pagina 8 del catalogo Dennison 1896-1897 per rappresentanti. (Una fotocopia della pagina del catalogo è stata fornita da Irene Woodbury della Avery Dennison Law Department di Framingham, Massachussetts). Questa informazione sul cartellino era importante, poiché la dicitura su di esso non poteva essere più vecchia dell’etichetta stessa. La disponibilità commerciale del cartellino a partire dal 1896 ne fa un materiale da scrittura credibile per un manufatto del 1912, mentre una data più tarda avrebbe dato adito a dubbi. Infatti, un cartellino molto simile (un “DENNISON E/C MANILA” era stato usato per i bagagli sul SS Carpathia della Cunard Line, la nave che salvò i sopravvissuti del Titanic.
Considerai la possibilità che qualcuno avesse trovato di recente dei cartellini Dennison vecchi ma non utilizzati, e li avesse usati per falsificare le targhette del bullone e dei pezzi di cavo telegrafico. Cosa comunque improbabile. La carta vecchia tende a diventare assorbente col tempo e l’inchiostro messo su di essa tende a sbavare in maniera sospetta. Questo chiaramente non era accaduto con i cartellini in questione.
Analizzai l’inchiostro dei tre manufatti. Risultò essere un tipo di gallato di ferro al quale era stato aggiunto del colorante blu (probabilmente indaco), un inchiostro appropriato per il periodo in questione. Nella luce riflessa l’inchiostro sembrava marrone, specialmente dove era meno denso, una caratteristica compatibile con l’inchiostro a base di gallato di ferro invecchiato. L’esame dell’inchiostro dei pannelli con lo stereomicroscopio evidenziò uno strato piuttosto spesso, attribuibile al non assorbimento della superficie verniciata, e delle sottilissime crepe compatibili con un autentico invecchiamento. Nessuna dicitura mostrava segni d’invecchiamento artificiale (col calore o con applicazione chimica).
La grafia sul cartellino di carta mostrava sottili tratti ascendenti e tratti discendenti ombreggiati (spessi) tipici di una scrittura col pennino. Tracce del pennino (che sembravano dei graffi sotto all’inchiostro), rivelate dall’esame stereomicroscopico alla luce obliqua, indicavano l’uso di una penna di acciaio. Le variazioni della densità dell’inchiostro indicavano una penna a immersione, piuttosto che una stilografica. (Il testo passava dallo scuro al chiaro e poi ancora allo scuro quando la penna veniva intinta). Probabilmente era stata usata la stessa penna per tutti i testi, anche se i tratti iniziali e finali erano leggermente più arrotondati nella scritta sul legno rispetto a quella sul cartellino di carta. Ciò poteva essere dovuto alla densità dell’inchiostro sulla vernice non assorbente. La penna a immersione di acciaio era comune nella seconda metà del diciannovesimo e prima metà del ventesimo secolo, quindi il suo utilizzo era compatibile con il periodo in questione.
La calligrafia sul cartellino attaccato al bullone aveva caratteristiche in comune con diversi stili di scrittura anteriori al 1912. Questi includevano i caratteri in stampatello (piuttosto che in corsivo) della S maiuscola e della y minuscola (con il tratto finale senza uncino), caratteristiche che, insieme alla mancanza d’inclinazione in avanti, suggerivano un residuo della bizzarra “scrittura verticale” insegnata nelle scuole dal 1890 al 1900. Inoltre, la t finale, con la sua mancanza di un taglio separato, era compatibile con lo stile calligrafico Palmer, che cominciò ad essere insegnato più o meno nel 1880. Queste e altre caratteristiche della calligrafia erano compatibili con qualcuno che scriveva nel periodo post spenceriano (il caratteristico stile spenceriano dominò più o meno a partire dal 1865 fino al 1890[2]). La calligrafia mostrava un’ombreggiatura naturale ed era stata fatta con sicurezza e facilità da uno scrittore che conosceva bene quella penna ed era ragionevolmente pratico nel riprodurre con essa quello stile di scrittura.
Studiai il testo delle scritte sui due pezzi di legno e sul cartellino da spedizione per scoprire se ci fossero anacronismi nel linguaggio o errori di fatto che potessero essere rivelatori. Tutti facevano riferimento al “Cable Str. Minia” (anche se solo il pezzo di pannello aveva il nome Minia tra virgolette e solo il frammento della porta aveva il punto dopo “Str”). Il riferimento al Minia come “nave posacavi” era corretto. Il termine era in uso nel 1912, come si vede in una lettera scritta dai genitori del marinaio Herert Jupe alle autorità della White Star. Facevano notare che il corpo del loro «prezioso ragazzo» che era «sul maledetto Titanic era stato raccolto e seppellito in mare dalla nave posacavi Mackay-Bennett». Il termine “cable steamer”[3] era così comune che veniva spesso abbreviato in “c.s.” (come si vede in una fattura presentata alla White Star Line dalla Commercial Cable Company in riferimento al «Noleggio del c.s. Mackay-Bennett»). Era corretto anche il riferimento sul cartellino al “Str Titanic”. Tecnicamente, la nave britannica non era un “HMS” (His Majesty’s Ship)[4], ma un “RMS” (Royal Mail Steamer)[5] come si nota, per esempio, sui menù del Titanic (vedere Lynch 1992, 55). Venne chiamato “S.S. ‘Titanic’” (cioè piroscafo, o nave a vapore) nell’annuncio del servizio commemorativo per le vittime, che si tenne il 21 aprile 1912. A prua c’era scritto solo “TITANIC”. Venne chiamato “piroscafo”anche sul biglietto per il suo varo a Belfast, che avvenne il 31 maggio 1911. Diceva: «Varo del Royal Mail ‘TITANIC’, piroscafo a tre eliche della White Star Line». Inoltre, nelle sue pubblicità, la White Star Line chiamava le sue navi “piroscafi”. In particolare il Titanic veniva chiamato “piroscafo” nei resoconti del disastro dell’epoca, come nel giornale Virginian-Pilot del 17 aprile 1912.
Il costante riferimento sui cartellini a «Lat 41” 42’ Long 49° 20’» suggeriva che la posizione precisa di ciascun pezzo non era stata annotata, ma che a tutti i tre manufatti era stata applicata una latitudine e una longitudine approssimativa. Ciò sembrava sensato, visto che non ci sarebbe stata alcuna ragione di annotare la posizione esatta di ciascun relitto al momento del ritrovamento. Per i corpi la faccenda era diversa, e così il Minia comunicò (in un messaggio trasmesso da Halifax il 1 maggio) di aver «trovato i resti di T. W. King, assistente del commissario di bordo Lat 41.30 Long. 48.15 a quarantacinque miglia a est di quello rinvenuto ieri, il che mostrava quanto fossero disseminati e difficili da trovare... Iceberg numerosi da sud da 40.30 a 48.30 (sic)».
Il riferimento sul cartellino al fatto che il Titanic era “perduto”, (cioè affondato e non disperso) era compatibile con l’uso del tempo. Per esempio, l’annuncio del servizio commemorativo faceva riferimento al «S.S. ‘Titanic’, perduto al largo di Newfoundland Banks, la notte del 14 aprile 1912». La data era sbagliata. Il Titanic colpì l’iceberg il quattordici, ma affondò la mattina del quindici. La data giusta «Morto 15 aprile 1912», compare sulle lapidi delle vittime sepolte nei cimiteri di Halifax. La data sui cartellini dei tre manufatti era quindi esatta.
I cartellini però contenevano effettivamente un errore: l’annotazione “morirono 1635 persone”. La cifra esatta era inferiore di più di 100 unità. Il numero 1.635, comunque, è riportato in uno dei primi libri, Sinking of the Titanic and Great Sea Disasters (Marshall 1912). L’errore non costituiva quindi un problema e poteva indicare che il cartellino era stato fatto a breve distanza di tempo dall’evento.
Presi tutti insieme i vari dettagli (il contesto storico, l’associazione con altri manufatti, la composizione, i segni del tempo e la conformità dei materiali per la scrittura con il periodo indicato) fornivano prove credibili che i manufatti erano quello che asserivano di essere: relitti del naufragio del Titanic nel 1912, raccolti dalla nave posacavi Minia ed etichettati in modo da dar loro il marchio del tempo.
Tratto e adattato da: Joe Nickell, “Real or Fake. Studies in Authentication”, Kentucky University Press, 2009. Riprodotto per gentile concessione dell’autore.
Traduzione di Luisa Annalucia Stevano
Ne furono salvate solo circa 700. Molti corpi recuperati furono seppelliti nei cimiteri di Halifax, Nova Scotia (che visitai nell’agosto del 1998 in occasione di un discorso che tenni presso la Canadian Society of Forensic Science). Vennero trovati anche dei resti, denominati “cimeli galleggianti” (Lynch 1992, 178).
Nel 1998 mi fu chiesto di esaminare tre manufatti: i loro cartellini li identificavano come relitti provenienti da quel naufragio.
Venivano davvero da quella sfortunata nave?
Il primo era un pezzo di legno lavorato e parzialmente dipinto. Sul davanti, stampate in inchiostro, c’erano le parole: «Parte di un pannello recuperato dal piroscafo posacavi Minia sul luogo del naufragio del piroscafo Titanic. Perduto il 15 aprile 1912. - Lat. 41.” 42’ - Long. 49° 20’ - morirono 1635 persone». Era lungo circa 15,5 cm, largo 7,2 cm e aveva uno spessore di 2,4 cm (approssimativamente 6 pollici per 3 per 1).
Il secondo era un pezzo di legno più piccolo (vedere figura 15.3), lungo circa 8,15 cm, largo 5,8 cm e aveva uno spessore di 4,3 cm (approssimativamente 3 pollici per 2 per 1½). Sulla superficie anteriore dipinta era scritto in inchiostro: «Parte di una porta recuperata dal piroscafo posacavi Str. Minia. Proveniente dal naufragio del piroscafo Titanic. Perduto il 15 aprile 1912. - Lat. 41” 42’ - Long. 49° 20’ - morirono 1635 persone».
Il terzo era composto da un bullone e relativo dado (vedere figura 15.4) al quale era attaccato un cartellino di carta con la dicitura: «Bullone di una scala interna recuperato dal piroscafo posacavi Minia sul luogo del naufragio del piroscafo Titanic. Perduto il 15 aprile 1912. Morirono 1635 persone, Lat. 41” 42’ Long. 49° 20’». Era lungo circa 7,3 cm (quasi 3 pollici), con la testa di 2,7 cm (quasi 1 pollice) di diametro.
I manufatti erano di proprietà di Mike Brackin di Manchester, Connecticut, che mi affidò l’indagine.
Esaminai i manufatti con luce riflessa e obliqua, sia col microscopio che con lo stereomicroscopio. Li studiai anche con gli infrarossi e con la luce ultravioletta e li sottoposi, tra gli altri, a test microchimici. Fui assistito nella mia indagine storica da Timothy Binga, un esperto conoscitore del Titanic.
Indice |
La provenienza dei reperti
Brackin aveva acquistato i pezzi nel 1991 «insieme a un gruppo di manufatti provenienti da diverse navi dell’area di Boston». Riconosceva che «Questi oggetti non hanno una provenienza sicura. Li comprai a una fiera dell’antiquariato; il venditore non si rese neanche conto che avevano una certa importanza. Non fornì alcuna informazione sulla loro origine».
Sebbene sia preferibile conoscere la provenienza di un manufatto di valore, a prima vista non è sospetto non conoscere quella di un souvenir.
Sembra che i tre manufatti fossero accompagnati da due segmenti etichettati di un cavo telegrafico del transatlantico, datati 1912. Questi segmenti di cavo erano collegati ai manufatti del Titanic da cartellini e diciture simili; era logico metterli in relazione al Titanic perché pare che fossero tra i relitti recuperati dalla nave posacavi Minia. Le navi posacavi erano particolarmente attive in quel periodo. La telegrafia sottomarina e la posa dei cavi crebbero rapidamente a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, tanto che nel 1928 ventuno cavi attraversavano l’Atlantico.
Il Minia era in effetti una nave posacavi e prese parte al recupero dei corpi e dei relitti del Titanic. Un manufatto molto noto proveniente dalla nave maledetta era un pilastro di quercia lavorata, che faceva parte di una scala della prima classe del Titanic. Raffigurato nel libro Titanic: An Illustrated History, fu sicuramente recuperato dal Minia.
Il Minia arrivò sul luogo del naufragio il 25 aprile, un venerdì, per dare il cambio al Mackay-Bennett, che portò 190 corpi a Halifax dopo averne sepolti 116 in mare. Il Minia setacciò l’area alla ricerca di corpi, che erano stati spinti dal vento e dal cattivo tempo a 130 miglia di distanza dal luogo del naufragio. In una settimana di ricerche ne furono trovati solo altri 17. Seguirono altre due navi, ma recuperarono una sola vittima e poi la ricerca fu abbandonata. Anche alcune navi di passaggio avvistarono ancora qualche cadavere in decomposizione.
Una lettera scritta dall’assistente telegrafista del Minia, Francis Dyke, alla madre concludeva che «Il Titanic deve essere esploso mentre colava a picco» (in realtà si spezzò in due) «dato che abbiamo recuperato pezzi della scala principale e la maggior parte dei resti provengono dal ponte inferiore». Tra gli altri relitti recuperati vi era una sedia del ponte presa tra le centinaia che galleggiavano in superficie dopo il naufragio; ora si trova al Maritime Museum of the Atlantic a Halifax, Nova Scotia. Un altro era un pezzo lavorato di un pannello di quercia proveniente dal salone d’ingresso. Un testimone a bordo di un’altra nave da ricerca, il Montmagny, affermò che venerdì 10 maggio «era ancora mattina presto quando cominciammo a vedere una serie di relitti che andavano alla deriva. Dopo che la nave si fu fermata, raccogliemmo un pilastro di quercia che faceva parte di una scala. Vedemmo la testiera di un letto, cappelli, pezzi di legno lucidati e dipinti di bianco e un riquadro grande forse quaranta piedi, che poteva essere una parte del ponte dello sfortunato piroscafo».
Sebbene i tre manufatti in questione non avessero provenienza, era chiaro (vedendo i pezzi di cavo che li accompagnavano) che erano stati recuperati da qualcuno che aveva a che fare con la nave posacavi Minia. Questo, unito al fatto che si sapeva che il Minia recuperò relitti del Titanic, costituiva per i manufatti un contesto storico credibile.
I manufatti di legno
I due manufatti di legno, che secondo il cartellino erano parte di un pannello e di una porta, erano chiaramente stati segati per dare loro la forma attuale. Questo probabilmente era stato fatto per presentarli come relitti, ma anche per dividere pezzi di dimensioni maggiori. La persona che scrisse i cartellini si riferiva a entità più grandi (un pannello, una porta, e, nel caso del bullone, una scala interna), indicando che i pezzi erano stati tratti da strutture chiaramente riconoscibili.
Entrambi i pezzi di legno erano fatti a incastro. Il colore bruno rossastro, la grana diritta, la densità e altre caratteristiche identificarono il legno come una varietà di mogano, un legno duro comunemente usato per pannelli e armadi. È stato definito “il più importante legno per armadi del mondo” ed è stato usato anche nella costruzione di navi. Il mogano venne usato sul Titanic per fare pannelli e altri oggetti in legno.
Il frammento della porta aveva tre fori di vite, uno dei quali fu tagliato in due quando fu segato per dargli la forma attuale. I segni equidistanti della filettatura indicavano una vite fatta a macchina. La posizione dei tre buchi era tipica di un modello usato per un cardine, compatibile con l’asportazione del pezzo dalla porta.
Il pezzo di pannello mostrava una modanatura sia modellata sulla solida cornice che inchiodata sul pannello. La modanatura sembrava compatibile con le fotografie pubblicate dei pannelli delle cabine di lusso. Il pezzo singolo della modanatura inchiodata era stato rimosso, lasciando un chiodo a vista. (Il proprietario disse che aveva tolto il pezzo per tenerlo nella sua collezione privata).
Il vecchio chiodo era stato fatto con un filo di ferro ed era del tipo da rifinitura. Fabbricato in ferro semplice, piuttosto che galvanizzato o in lega di alluminio, era molto arrugginito anche se non era stato esposto per tutta la lunghezza fino alla sua recente rimozione. La ruggine era compatibile con l’esposizione all’acqua salata del mare, ma poteva essere stata causata da altri fattori. A sinistra dell’iscrizione c’era un segno che, una volta ingrandito, sembrava essere il risultato di un chiodo arrugginito incollato alla superficie. Potrebbe esservi stato messo in seguito, poiché le righe del testo, in effetti, sono centrate nello spazio disponibile. In altre parole, sembrava che il testo fosse stato scritto prima di applicare il chiodo.
Un esame visivo del pannello mostrava uno strato di fondo e una mano di vernice. Non si apprezzava nessuna traccia di riverniciatura. La vernice bianca era compatibile con le fotografie in bianco e nero delle cabine di lusso del Titanic. Vi fu una forte risposta al test chimico di controllo per il piombo. Era ingiallita col tempo, cosa normale per la vernice al piombo bianca vecchia esposta in ambienti interni, specialmente al buio.
In un punto la vernice sul pannello era stata danneggiata, rovinando l’inizio delle due ultime righe del testo. L’esame mostrò che il danno era avvenuto dopo che la vernice si era asciugata, ma prima che lo strato si fosse seccato completamente. Il danno consisteva in uno scivolamento della vernice, che aveva formato una “gobba”. La dicitura in inchiostro era sicuramente stata scritta sopra questo difetto (e quindi dopo che esso si era prodotto). Questo risultato era compatibile con l’applicazione di una forza (come una nave che naufraga) quando la vernice era ancora relativamente nuova. La vernice mostrava un altro danno sotto forma di sfaldamento compatibile con la fragilità dovuta all’età.
Il bullone
Il cartellino applicato al bullone, che afferma che l’oggetto proveniva da una scala interna (una scala tra i ponti), conferma che fu proprio recuperato dal relitto, dato che ovviamente i bulloni non galleggiano. Il fatto che il bullone provenga da un rottame più grande sarebbe compatibile con la comune pratica di dividere i manufatti con lo scopo di moltiplicare i souvenir (altri esempi di questa prassi li ho riscontrati con le reliquie dei santi, con un piccolo pezzo di legno proveniente da una trave dell’Independence Hall e con un quadratino di tappezzeria della casa dove morì il Presidente Lincoln). Questa possibilità era suffragata dai due pezzi di cavo del transatlantico che si presentavano allo stesso modo (entrambi avevano i capi sigillati per evitare che si disfacessero) e le cui etichette erano scritte nella stessa calligrafia e con la stessa stesura riga per riga (evidente anche se mancava metà di un cartellino).
Il bullone era composto da un metallo ferroso, come mostrava il fatto che veniva attirato da un magnete, e dalle tracce visibili di ruggine. Non era arrugginito completamente perché era stato ricoperto da una vernice all’alluminio. Composta da polvere di alluminio, questo tipo di vernice esisteva già dalla metà del diciannovesimo secolo, ma non fu facile trovarla in commercio fino al 1896.
La targhetta di carta
La targhetta attaccata al bullone era fatta di carta stratificata con un foro ad un’estremità. Il foro era circondato da entrambi i lati da un anello rinforzatore di carta. Su un lato dell’anello era stampata la dicitura “DENNISON’S E/E MANILA”. Il cartellino era stato rotto in due punti e riparato da mani inesperte con un pezzo di nastro gommato trasparente, tagliato dalla lama seghettata di un comune dispenser. Le parti rotte erano state ulteriormente danneggiate, tanto che un’estremità del cartellino rimaneva attaccata a mala pena e non ci si poteva aspettare che ci restasse ancora per molto dopo essere stata così a lungo maneggiata. Un pezzo dell’anello rinforzatore si era staccato.
Esaminai il cartellino con la luce ultravioletta, che non mostrò alcun genere di sbiancante ottico. Quest’ultimo veniva usato nella carta a partire dalla seconda guerra mondiale e la sua presenza (che sarebbe stata indicata dalla fluorescenza UV) avrebbe rivelato una più recente manifattura. La dicitura Dennison era stampata in malo modo, con quello che sembrava essere inchiostro da stampa tipografica. La carta fibrosa era compatibile con la dicitura “Manila”, che indica la canapa di Manila. Il cordoncino del cartellino era fibroso anch’esso, essendo fatto in una varietà grezza chiaramente tinta di nero. Il termine carta manila risale almeno al 1873, secondo l’autorevole Oxford English Dictionary. Fondata nel 1844, la Dennison Manufacturing Company (che ora fa parte della Avery Dennison Corporation) pro5duceva etichette in carta manila fin dal 1893. Il tipo particolare “E” o “Manila Quality”, facente parte dei «Dennison’s patented shipping Tags»[1], pubblicizzato come «a parità di resistenza, il cartellino più conveniente sul mercato» venne presentato a pagina 8 del catalogo Dennison 1896-1897 per rappresentanti. (Una fotocopia della pagina del catalogo è stata fornita da Irene Woodbury della Avery Dennison Law Department di Framingham, Massachussetts). Questa informazione sul cartellino era importante, poiché la dicitura su di esso non poteva essere più vecchia dell’etichetta stessa. La disponibilità commerciale del cartellino a partire dal 1896 ne fa un materiale da scrittura credibile per un manufatto del 1912, mentre una data più tarda avrebbe dato adito a dubbi. Infatti, un cartellino molto simile (un “DENNISON E/C MANILA” era stato usato per i bagagli sul SS Carpathia della Cunard Line, la nave che salvò i sopravvissuti del Titanic.
Considerai la possibilità che qualcuno avesse trovato di recente dei cartellini Dennison vecchi ma non utilizzati, e li avesse usati per falsificare le targhette del bullone e dei pezzi di cavo telegrafico. Cosa comunque improbabile. La carta vecchia tende a diventare assorbente col tempo e l’inchiostro messo su di essa tende a sbavare in maniera sospetta. Questo chiaramente non era accaduto con i cartellini in questione.
Inchiostro, penna e calligrafia
Analizzai l’inchiostro dei tre manufatti. Risultò essere un tipo di gallato di ferro al quale era stato aggiunto del colorante blu (probabilmente indaco), un inchiostro appropriato per il periodo in questione. Nella luce riflessa l’inchiostro sembrava marrone, specialmente dove era meno denso, una caratteristica compatibile con l’inchiostro a base di gallato di ferro invecchiato. L’esame dell’inchiostro dei pannelli con lo stereomicroscopio evidenziò uno strato piuttosto spesso, attribuibile al non assorbimento della superficie verniciata, e delle sottilissime crepe compatibili con un autentico invecchiamento. Nessuna dicitura mostrava segni d’invecchiamento artificiale (col calore o con applicazione chimica).
La grafia sul cartellino di carta mostrava sottili tratti ascendenti e tratti discendenti ombreggiati (spessi) tipici di una scrittura col pennino. Tracce del pennino (che sembravano dei graffi sotto all’inchiostro), rivelate dall’esame stereomicroscopico alla luce obliqua, indicavano l’uso di una penna di acciaio. Le variazioni della densità dell’inchiostro indicavano una penna a immersione, piuttosto che una stilografica. (Il testo passava dallo scuro al chiaro e poi ancora allo scuro quando la penna veniva intinta). Probabilmente era stata usata la stessa penna per tutti i testi, anche se i tratti iniziali e finali erano leggermente più arrotondati nella scritta sul legno rispetto a quella sul cartellino di carta. Ciò poteva essere dovuto alla densità dell’inchiostro sulla vernice non assorbente. La penna a immersione di acciaio era comune nella seconda metà del diciannovesimo e prima metà del ventesimo secolo, quindi il suo utilizzo era compatibile con il periodo in questione.
La calligrafia sul cartellino attaccato al bullone aveva caratteristiche in comune con diversi stili di scrittura anteriori al 1912. Questi includevano i caratteri in stampatello (piuttosto che in corsivo) della S maiuscola e della y minuscola (con il tratto finale senza uncino), caratteristiche che, insieme alla mancanza d’inclinazione in avanti, suggerivano un residuo della bizzarra “scrittura verticale” insegnata nelle scuole dal 1890 al 1900. Inoltre, la t finale, con la sua mancanza di un taglio separato, era compatibile con lo stile calligrafico Palmer, che cominciò ad essere insegnato più o meno nel 1880. Queste e altre caratteristiche della calligrafia erano compatibili con qualcuno che scriveva nel periodo post spenceriano (il caratteristico stile spenceriano dominò più o meno a partire dal 1865 fino al 1890[2]). La calligrafia mostrava un’ombreggiatura naturale ed era stata fatta con sicurezza e facilità da uno scrittore che conosceva bene quella penna ed era ragionevolmente pratico nel riprodurre con essa quello stile di scrittura.
Il contenuto testuale
Studiai il testo delle scritte sui due pezzi di legno e sul cartellino da spedizione per scoprire se ci fossero anacronismi nel linguaggio o errori di fatto che potessero essere rivelatori. Tutti facevano riferimento al “Cable Str. Minia” (anche se solo il pezzo di pannello aveva il nome Minia tra virgolette e solo il frammento della porta aveva il punto dopo “Str”). Il riferimento al Minia come “nave posacavi” era corretto. Il termine era in uso nel 1912, come si vede in una lettera scritta dai genitori del marinaio Herert Jupe alle autorità della White Star. Facevano notare che il corpo del loro «prezioso ragazzo» che era «sul maledetto Titanic era stato raccolto e seppellito in mare dalla nave posacavi Mackay-Bennett». Il termine “cable steamer”[3] era così comune che veniva spesso abbreviato in “c.s.” (come si vede in una fattura presentata alla White Star Line dalla Commercial Cable Company in riferimento al «Noleggio del c.s. Mackay-Bennett»). Era corretto anche il riferimento sul cartellino al “Str Titanic”. Tecnicamente, la nave britannica non era un “HMS” (His Majesty’s Ship)[4], ma un “RMS” (Royal Mail Steamer)[5] come si nota, per esempio, sui menù del Titanic (vedere Lynch 1992, 55). Venne chiamato “S.S. ‘Titanic’” (cioè piroscafo, o nave a vapore) nell’annuncio del servizio commemorativo per le vittime, che si tenne il 21 aprile 1912. A prua c’era scritto solo “TITANIC”. Venne chiamato “piroscafo”anche sul biglietto per il suo varo a Belfast, che avvenne il 31 maggio 1911. Diceva: «Varo del Royal Mail ‘TITANIC’, piroscafo a tre eliche della White Star Line». Inoltre, nelle sue pubblicità, la White Star Line chiamava le sue navi “piroscafi”. In particolare il Titanic veniva chiamato “piroscafo” nei resoconti del disastro dell’epoca, come nel giornale Virginian-Pilot del 17 aprile 1912.
Il costante riferimento sui cartellini a «Lat 41” 42’ Long 49° 20’» suggeriva che la posizione precisa di ciascun pezzo non era stata annotata, ma che a tutti i tre manufatti era stata applicata una latitudine e una longitudine approssimativa. Ciò sembrava sensato, visto che non ci sarebbe stata alcuna ragione di annotare la posizione esatta di ciascun relitto al momento del ritrovamento. Per i corpi la faccenda era diversa, e così il Minia comunicò (in un messaggio trasmesso da Halifax il 1 maggio) di aver «trovato i resti di T. W. King, assistente del commissario di bordo Lat 41.30 Long. 48.15 a quarantacinque miglia a est di quello rinvenuto ieri, il che mostrava quanto fossero disseminati e difficili da trovare... Iceberg numerosi da sud da 40.30 a 48.30 (sic)».
Il riferimento sul cartellino al fatto che il Titanic era “perduto”, (cioè affondato e non disperso) era compatibile con l’uso del tempo. Per esempio, l’annuncio del servizio commemorativo faceva riferimento al «S.S. ‘Titanic’, perduto al largo di Newfoundland Banks, la notte del 14 aprile 1912». La data era sbagliata. Il Titanic colpì l’iceberg il quattordici, ma affondò la mattina del quindici. La data giusta «Morto 15 aprile 1912», compare sulle lapidi delle vittime sepolte nei cimiteri di Halifax. La data sui cartellini dei tre manufatti era quindi esatta.
I cartellini però contenevano effettivamente un errore: l’annotazione “morirono 1635 persone”. La cifra esatta era inferiore di più di 100 unità. Il numero 1.635, comunque, è riportato in uno dei primi libri, Sinking of the Titanic and Great Sea Disasters (Marshall 1912). L’errore non costituiva quindi un problema e poteva indicare che il cartellino era stato fatto a breve distanza di tempo dall’evento.
Presi tutti insieme i vari dettagli (il contesto storico, l’associazione con altri manufatti, la composizione, i segni del tempo e la conformità dei materiali per la scrittura con il periodo indicato) fornivano prove credibili che i manufatti erano quello che asserivano di essere: relitti del naufragio del Titanic nel 1912, raccolti dalla nave posacavi Minia ed etichettati in modo da dar loro il marchio del tempo.
Tratto e adattato da: Joe Nickell, “Real or Fake. Studies in Authentication”, Kentucky University Press, 2009. Riprodotto per gentile concessione dell’autore.
Traduzione di Luisa Annalucia Stevano
Note
1) Slogan usato dalla Dennison per pubblicizzare i suoi cartellini; si può tradurre come “etichette per spedizione Dennison brevettate” (N.d.T.).
2) Secondo Wikipedia, lo stile spenceriano (disegnato da Platt Rogers Spencer, un impiegato contabile originario di New York appassionato di scrittura) fu utilizzato negli Stati Uniti come calligrafia standard per la corrispondenza commerciale fino all’avvento delle macchine per scrivere, nel periodo compreso tra il 1850 e il 1925.
3) Piroscafo posacavi.
4) Nave di sua maestà.
5) Imbarcazione a vapore che trasportava la posta per conto della British Royal Mail.