Storie stonate
Fabio Caironi
Avverbi edizioni, 2009
190 pp. € 12
di Lorenzo Montali Storie stonate è un libro per appassionati di leggende urbane e per fan della musica. I primi troveranno una raccolta di storie, voci, cronache fittizie, che vengono analizzate nella loro possibile origine e seguite nel loro percorso di diffusione, che si snoda spesso attraverso diverse varianti. I secondi potranno finalmente scoprire cosa c’è di vero (quasi nulla) nelle storie che da sempre sentono raccontare sul loro gruppo o cantante preferito.
Il libro è suddiviso in undici brevi capitoli, ciascuno dei quali raccoglie un gruppo di storie omogeneo. Si inizia con i racconti sui Beatles, il gruppo musicale più celebre al mondo e anche quello intorno alle cui gesta è fiorito il maggior numero di voci, e si termina con le dicerie su Bob Dylan (è davvero un ladro?) e i Van Hallen (perché non sopportano gli M&M’S marroni?). In mezzo ci sono la morte di Elvis Presley ma anche quella di Gianluca Grignani, quella di Jim Morrison e quella di Fabri Fibra, in un gioco in cui decessi veri e presunti si susseguono tra pagine di giornale e pettegolezzi da palestra o da parrucchiere, i luoghi nei quali le voci si diffondono e vengono autenticate.
Dopo aver parlato di morte e morti non poteva mancare il capitolo dedicato all’inferno e al demonio. Qui troviamo la “prima leggenda della musica contemporanea” - Robert Johnson ha venduto l’anima al demonio in cambio del suo strepitoso talento musicale - ma anche le voci su gruppi come gli AC/DC e i Black Sabbath accusati di essere in rapporto col diavolo, per finire con la rivelazione sulla celebre canzone Hotel California degli Eagles, che racconterebbe nientemeno che un viaggio all’inferno (con biglietto di ritorno incluso, beninteso).
Dal principe dei cattivi si passa così ai cattivi ragazzi, con la storia su Ozzy Osbourne che si diverte a mangiare la testa di un pipistrello che un fan gli aveva lanciato sul palco (ma siamo sicuri si trattasse di un fan?), quella sul leader degli U2, Bono, che a parole si dichiara pacifista ma segretamente finanzia le campagne militari dell’IRA in Irlanda, per arrivare al bassista dei Kiss, che strappa la lingua di un bue per… innestarla sulla propria, alla ricerca di un look originale e inimitabile.
Il capitolo successivo è invece dedicato al sesso, giustamente definito dall’autore un’ossessione, pensando a quante leggende urbane anche non di tema musicale siano dedicate a questo argomento. Se poi si considera che l’espressione “Sesso, droga e rock&roll” costituisce una delle triadi più note e condivise, si può facilmente intuire l’eccentricità delle storie raccolte qui, tra pasti consumati su corpi nudi, improbabili ma pericolosissimi giochi autoerotici, vere e proprie perversioni esercitate su giovani fan adoranti, come si addice a delle star che della sregolatezza, vuole il senso comune e la leggenda prontamente conferma, hanno fatto la propria regola di vita. E a proposito di sregolatezze, non poteva neppure mancare un capitolo su usi e abusi di sostanze stupefacenti, le sole in grado di alterare il colore degli occhi di David Bowie, ma anche di costringere Bob Dylan a una lunga e misteriosa pausa lavorativa che gli impedì di partecipare al festival della musica di Woodstock, impegnato com’era a disintossicarsi in un’apposita clinica.
Chissà se si trattava della stessa clinica frequentata da Keith Richards, il quale, come si racconta nel capitolo, ci va per periodici ricambi di sangue a cui lo costringono la decennale dipendenza da droghe e alcol.
Non solo di ragazzi sfortunati però si parla nel libro, ma anche di quelli che portano sfortuna, cui è dedicato il capitolo successivo. In questo campo, scrive l’autore, abbondano le storie che hanno per protagonisti i cantanti italiani, forse perché, spiega, il tema della jella e dei rimedi per combatterla esercita da sempre un fascino potente nella cultura italiana, da quella alta - pensiamo a La patente di Pirandello – a quella più bassa, rappresentata appunto da quell’oralità di cui le leggende sono uno degli esempi.
Nei due capitoli successivi si parla di scambi di persone e di persone che si cambiano: protagonisti di telefilm che sembrano cantanti celebri, cantanti celebri che si scambiano tra loro quando vengono intervistati, oppure che decidono di cambiare il proprio fisico che non li soddisfa. E se queste righe vi hanno incuriosito, negli ultimi capitoli troverete delle storie ancora più strane come quella sul duello di Eric Clapton a colpi di chitarra o quella sulla terribile vendetta di Phil Collins contro un navigatore egoista e disattento.
Insomma, queste storie saranno pure stonate, ma non si può dire che manchino di fantasia e chissà che non sia proprio questa caratteristica una delle ragioni del loro successo, perché la celebrità per essere davvero tale deve essere extra-ordinaria in ogni aspetto della sua vita. E se non lo è, basta una storia che circola di bocca in bocca a farla diventare tale.
I neuroni della lettura
Stanislas Dehaene
Raffaello Cortina Editore, 2009
448 pp. € 32,00
di Anna Rita Longo
Questo saggio di recente traduzione italiana riprende il tema affrontato da Sergio Della Sala nel N. 86 di Scienza&Paranormale.
Nel suo articolo, l’illustre scienziato prendeva in esame una serie di falsi miti in merito alle neuroscienze, che avevano portato all’elaborazione di altrettanto fantasiose teorie pedagogiche. Questo accade quando si viene a creare una drammatica frattura tra biologia e scienze dell’educazione, che ha come risultato il fare eccessivo assegnamento, in campo pedagogico, sull’istinto e sull’esperienza dell’educatore, che non sono esenti da errori. Il saggio di Stanislas Dehaene, titolare della cattedra di Psicologia cognitiva sperimentale al Collège de France, risponde, pertanto, a un’esigenza pratica, avvertita da tutti gli educatori che desiderino fondare il proprio lavoro su qualcosa di più rispetto alle impressioni raccolte nel corso della propria esperienza e che si propongano di assolvere al loro compito nel modo che si riveli più proficuo e funzionale per il discente.
La conclusione che la lettura del testo porta a trarre è inoppugnabile quanto lapalissiana: se è con il nostro cervello che apprendiamo, un’efficace azione didattica non può oggettivamente prescindere dalla conoscenza del cervello stesso. La dimensione culturale non può essere, pertanto, concepita senza far riferimento a quella biologica. La cultura contemporanea non ha, però, superato una contrapposizione priva di senso tra ambito umanistico e scientifico, che restituisce un’idea desueta di un sapere chiuso in compartimenti stagni, senza reciproche interazioni tra le diverse scienze, dove nessun ramo della conoscenza possa beneficiare dell’apporto degli altri. Molto più moderni di noi, da questo punto di vista, erano gli antichi Greci, che consideravano erudito solo l’uomo che spaziasse tra più campi del sapere o gli uomini del Medioevo, che ritenevano la coesistenza dell’istruzione scientifica (le materie del “quadrivio”) e di quella umanistica (il cosiddetto “trivio”) irrinunciabile per l’uomo di cultura. Paradossalmente oggi si accetta ancora che un uomo colto non abbia alcuna conoscenza del funzionamento del proprio cervello o che non ne sappia nulla anche chi, come gli insegnanti, è chiamato a “travasare” in quel cervello una serie di informazioni e stimoli, che prendono il nome di cultura.
Il lavoro di Dehaene prende le mosse da un interrogativo solo in apparenza banale: come leggiamo? Quali meccanismi sottendono un compito che, sin dalla nostra infanzia, abbiamo imparato ad affrontare non senza qualche difficoltà? Questioni, come abbiamo detto, semplici solo in apparenza. La scrittura esiste da 5400 anni circa, un tempo che, in termini evolutivi, equivale ad un istante. L’uomo non ha, quindi, avuto il tempo di evolversi in funzione del divenire un buon lettore. Che cosa, dunque, lo rende in grado di leggere? La soluzione indicata da Dehaene al “paradosso del primate che sa leggere” è figlia del perfezionamento, verificatosi negli ultimi decenni, delle tecniche di imaging cerebrale e postula una sorta di “riciclaggio neuronale”, che riconverte per nuovi usi neuroni in precedenza deputati ad altre funzioni.
Nell’accompagnare il lettore verso questa conclusione, l’autore si sofferma ad illustrare l’affascinante processo attraverso il quale il testo scritto viene visto, analizzato, interpretato e, infine, letto dal nostro cervello, mettendo in evidenza come l’acquisizione dell’abilità di lettura porti a significative modificazioni di alcuni circuiti cerebrali, venendo a costituire, in pratica, un cervello nuovo, sotto alcuni aspetti diverso da quello che era prima.
Dicevamo dell’importanza che la didattica si fondi sulla conoscenza biologica: questo si rivela quanto mai vero per quanto attiene all’insegnamento della lettura. Un’accurata conoscenza del modo attraverso il quale il cervello elabora le lettere può, ad esempio, evitare errori quali l’adozione del “metodo globale”, tanto propugnata nel passato, ma in netto contrasto con il dato neuroscientifico. La conoscenza di tali meccanismi è anche basilare per fornire un sostegno adeguato e tempestivo ai bambini che manifestano difficoltà di lettura. A tal proposito, una parte del volume è, appunto, dedicata alle recenti scoperte sulla dislessia.
Tra i pregi della trattazione di Dehaene si può annoverare la chiarezza espositiva e il fatto di preferire un approccio concreto alle disquisizioni teoriche. Il risultato è un testo di piacevole lettura anche per chi non ha alle spalle una preparazione specialistica.
Nell’anno in cui si celebra il centocinquantesimo anniversario della pubblicazione dell’Origine delle specie, fa anche piacere vedervi ribadita con forza la centralità della teoria evoluzionistica, che è alla base di ogni conclusione tratta dall’autore.
Interessante anche la considerazione dell’universalità che caratterizza il modo in cui l’uomo legge: uomini di tutte le etnie e le culture leggono i più svariati sistemi di scrittura con le medesime aree cerebrali. Gli uomini sono, quindi, anche in questo campo, tutti uguali, se visti con gli occhi, scevri di pregiudizi, degli uomini di scienza.
In ultima analisi, si tratta, quindi, di un utile strumento di formazione, soprattutto per gli educatori, cui è affidato l’arduo compito di farsi vettori di cultura.
I pochi limiti riguardano soprattutto alcuni esempi proposti dall’autore, nei quali l’esigenza di semplificazione porta a un eccesso di approssimazione. Si tratta, tuttavia, di particolari trascurabili, soprattutto se rapportati al valore complessivo dell’opera.
OGM, tra leggende e realtà
Dario Bressanini
Zanichelli, 2009
224 pp. € 11,80
di Enrico Speranza Bressanini è molto noto in Rete soprattutto per il suo seguitissimo blog che si occupa, da un punto di vista scientifico, di cibi e più in generale di cucina. La sua formazione “scettica” lo conduce molto spesso a smascherare miti, pregiudizi e vere e proprie bufale che circolano su molti argomenti riguardanti ciò che mangiamo e i metodi usati per la loro preparazione. È inutile sottolineare che nei confronti degli OGM esiste moltissima disinformazione oltre ad alcuni duri preconcetti che hanno condannato senza appello queste particolari coltivazioni in alcuni casi dimostratesi vantaggiose. Scopo dichiarato del libro è quindi diradare questa cortina “pseudoscientifica” mostrando i reali vantaggi degli OGM, ma soprattutto descrivendo cosa essi siano e quale sia lo scopo di tali complesse biotecnologie. Scopriamo così, già dalle prime pagine, che fin dall’inizio delle tecniche agricole l’uomo ha incrociato piante con specie tra loro affini per ottenere vegetali più resistenti o che avessero più resa e con proprietà organolettiche più utili alla nutrizione umana ed animale. Si è praticamente guidato ed amplificato il normale processo evolutivo velocizzandolo secondo le nostre esigenze.
Ciò che tuttavia appare più incredibile è il fatto che molto del grano e del frumento oggi utilizzato sia già frutto di una selezione e di studi, e che per la mutazione sia stata utilizzata l’irradiazione tramite radioisotopi. Tramite questa metodologia approssimativa si sono potute dunque ottenere particolari mutazioni utili agli scopi agricoli ed alimentari in vegetali che possono essere ritenuti a tutti gli effetti dei veri e propri OGM ante litteram. Eppure lo sviluppo delle biotecnologie, che permette di avere strumenti molto più precisi nell’indurre mutazioni utili e, quindi, degli organismi geneticamente modificati, viene fortemente osteggiato e, soprattutto, queste vengono dipinte come nocive, pericolose ed innaturali. Come non ricordare, ad esempio, quale fu la reazione di molti all’avvento della pastorizzazione del latte? Oggi credo nessuno avrebbe il coraggio di mettere in dubbio tale pratica, né si azzarderebbe a bere latte senza questo specifico trattamento.
Il libro di Bressanini non si limita comunque a descrivere solamente cosa siano in dettaglio gli OGM, ma mostra i reali vantaggi economici di un tale tipo di coltivazioni, mostrando se e quanto si è certi dei risultati pratici. Possiamo dire di trovarci di fronte ad un breve saggio, certamente non onnicomprensivo, ma pieno di spunti intressanti, di informazioni e di riferimenti utili per approfondire. Impossibile dimenticare poi un breve decalogo che analizza e smaschera uno ad uno i miti e leggende che circolano riguardo a queste promettenti tecnologie.
Un libro dunque non soltanto utile, ma che, a mio parere, risponde anche al dovere sociale di conoscere il mondo, in questo tempo sempre più affamato e per questo inquieto.
Il libro dell’ignoranza sugli animali
John Lloyd e John Mitchinson
Einaudi, 2009
304 pp. € 16,00
di Anna Rita Longo Nel numero con il quale si è conclusa l’avventura di Scienza&Paranormale avevo recensito il bestseller internazionale di John Mitchinson e John Lloyd, intitolato Il libro dell’ignoranza. Bissare il successo del precedente volume, per i due autori, potrà forse apparire impresa troppo ardua, ma, con questo seguito della loro opera, ci sembra di poter affermare che non abbiano mancato il bersaglio.
La tentazione di riprodurre la medesima forma del primo libro, compresi i (pochi) difetti che abbiamo già avuto occasione di mettere in evidenza, in ottemperanza al principio che vuole che «squadra che vince non si cambi», era forte. Mitchinson e Lloyd hanno, però, saputo resistere, decidendo di consegnare al loro pubblico un prodotto editoriale nuovo e non un Libro dell’ignoranza 2.
Innanzitutto la struttura: se Il libro dell’ignoranza sceglieva di essere miscellaneo, Il libro dell’ignoranza sugli animali si occupa di stranezze e curiosità che riguardano esclusivamente l’universo zoologico. Inoltre, al caotico assembramento di informazioni della più svariata natura e ai voli pindarici del libro precedente, quello attuale oppone la sua struttura per capitoli monografici, ognuno dedicato a un animale, di cui vengono illustrate le caratteristiche più peculiari, svelati i falsi miti, rivelati lati nascosti che spesso strappano il sorriso al lettore. Inoltre, per ovviare al principale difetto del Libro dell’ignoranza, cioè la difficoltà nel ritrovare le informazioni lette, dovuta a una struttura poco sistematica, il nuovo libro ha scelto di disporre i capitoli in ordine alfabetico secondo il nome dell’animale: si tratta di una struttura che apparirà forse banale, ma che è di certo funzionale al rapido reperimento delle informazioni.
Confesso che il primo approccio con questa forma così diversa da quella del libro precedente, che tanto mi aveva divertito, mi ha lasciata perplessa. «Che cosa mai potrò trovare di interessante in un intero capitolo sul furetto o il koala?», mi chiedevo, timorosa di trovarmi di fronte a una sorta di trattato di zoologia, poco adatto ai momenti di relax. Nulla di più sbagliato. Probabilmente ero influenzata, mio malgrado, dai pregiudizi di chi ritiene che la natura non abbia nulla di sorprendente e che la “meraviglia” esista solo nel mondo dei presunti fenomeni paranormali.
Questo penso sia il più utile insegnamento di questo volumetto di spassosa lettura: lo studio della natura può essere affascinante e divertente di per sé, senza bisogno, come direbbe Ockham, di scomodare immaginarie entità. Un messaggio che, ci scommetto, sarebbe piaciuto anche a Darwin. Nessun difetto? Non esageriamo: il libro nuoce gravemente alla buona reputazione dei conigli, dei quali svela le poco ortodosse preferenze alimentari (ved. p. 67) e all’onorabilità delle femmine del pinguino, che si rivelano disposte a concedersi senza ritegno in cambio di... pietre (ved. p. 205-206)!
Il testo presenta, poi, qualche imprecisione nella traduzione dei nomi scientifici; ma si sa che, a correggere errori di traduzione latina e greca, oggi come oggi, si rischia di fare troppo la figura del “Gran Pignolo”.
Avatar
USA 2009
Sceneggiatura e regia: James Cameron
Interpreti principali: Sam Worthington, Zoë Saldaña, Sigourney Weaver
Durata: 162 minuti
Genere: fantascienza
di Anna Rita Longo È stata la rivelazione dell’attuale stagione cinematografica e ha registrato, ai botteghini, incassi senza precedenti. In Italia la sola prima giornata di proiezione ha prodotto un introito di due milioni di euro. Parliamo di Avatar, il film che, dopo il planetario successo di Titanic, vede il ritorno di James Cameron come protagonista indiscusso dell’intrattenimento sul grande schermo. Si tratta di un progetto che affonda le sue radici nel passato: il regista vi aveva già pensato 15 anni fa, intuendo la portata di un’idea che sarebbe potuta andare sprecata per i vincoli posti dai mezzi tecnologici dell’epoca. Con apprezzabile acume Cameron pensò, quindi, di continuare a tenere in caldo l’idea e, nel frattempo, di mettere in cantiere altri film di più facile realizzazione. Solo con il perfezionamento della grafica computerizzata verificatosi negli ultimi anni, in particolar modo dal 2005 in poi, il regista vide la possibilità di una concreta realizzazione della propria avveniristica idea di un mondo virtuale che apparisse non meno concreto di quello reale, dove i personaggi si muovessero e interagissero con l’ambiente in un modo che simulasse quasi perfettamente quello naturale. Il perfezionamento della tecnica di ripresa in 3D e gli sviluppi della motion capture, che permette di catturare e digitalizzare i movimenti degli attori reali e di trasferirli sui personaggi virtuali in modo fluido e naturale, ha permesso al sogno di Cameron di realizzarsi e ad Avatar di vedere finalmente la luce.
Il plot non rivela nulla di particolarmente originale, anzi da più parti si sono levate voci di critica che mettevano in luce somiglianze fin troppo accentuate con altri film (Ferngully, Pocahontas, Aida degli alberi, Delgo...) che hanno fatto pensare ad alcuni a un plagio o, comunque, al ritorno ad un filone già ampiamente sfruttato. La storia è ambientata nell’anno 2154. La Terra è ai limiti del collasso energetico e l’unica via di salvezza è un minerale alieno chiamato unobtanium. Il più grande giacimento del minerale si trova sul pianeta Pandora, dove una popolazione umanoide, i Na’vi, vive serena e pacifica in perfetta comunione con tutte le specie viventi che lo popolano. Il protagonista del film, Jake Sully, ex marine paraplegico, viene incaricato di calarsi nei panni di un Na’vi, comandando a distanza, mediante speciali macchine, un suo doppio (l’avatar che dà il titolo al film) con le sembianze degli abitanti di Pandora; grazie a questo alter-ego dovrebbe guadagnarsi la fiducia della popolazione locale e convincerla a cedere alla Terra le proprie risorse. Mi fermo qui per evitare fastidiosi spoiler e colgo l’occasione per trarre alcune considerazioni che si intrecciano con le tematiche che interessano il CICAP.
Innanzitutto si può rilevare la presenza di una sorta di equivoco di fondo: non sembra una contraddizione il fatto che un film reso possibile esclusivamente dalla tecnologia, di questa metta in luce solo gli aspetti negativi? In Avatar la contrapposizione tra i due mondi, Pandora e la Terra, è quella tra un universo intatto, incontaminato, dove gli organismi vivono legati in un equilibrio naturale perfetto e un mondo corrotto e inquinato, reso tale da un uso perverso del progresso tecnologico. Alle meravigliose foreste lussureggianti, alle acque limpide, alle notti terse e punteggiate di bagliori onirici di Pandora fanno da contraltare il grigio, il cemento, la fioca luce degli schermi e gli ammassi di ferraglia della Terra, nella quale gli uomini faticano ormai a vivere. Anche Avatar ripropone, pertanto, un ecologismo vecchia maniera, dove la tecnologia non può rivestire altro ruolo se non quello dell’antagonista. Si tratta di una posizione anacronistica e di una visione limitativa e fuorviante, ma certo di facile presa sul pubblico.
La ricerca del facile consenso è messa in evidenza anche da altri particolari. A Pandora si respira un’atmosfera pervasa di misticismo panteistico, una sorta di religiosità naturale di stampo New Age, che ricalca le dottrine spirituali oggi più in voga.
Il film ha, però, argomenti convincenti anche per chi non è attratto da simili dottrine. Per conferire un’aria scientifica ai fenomeni di telepatia-empatia che caratterizzano gli esseri viventi di Pandora, vengono tirate in ballo ipotetiche reti neurali e scambi di neurotrasmettitori. Nulla che abbia senso, ma si tratta di un discorso senza dubbio affascinante che, ci scommettiamo, qualcuno avrà considerato un’ipotesi plausibile.
Sono queste le contraddizioni di un prodotto senz’altro interessante e che, nel complesso, vale il costo del biglietto. Consigliabile senza dubbio la visione in 3D, per poter apprezzare al meglio la qualità degli effetti speciali, frutto proprio di quella esecrata tecnologia senza la quale il sogno di Pandora non si sarebbe potuto raccontare in modo così intenso.