Facciamo seguito all’articolo comparso sullo scorso numero dove avevamo parlato del Velo di Manoppello in relazione a un particolare problema, quello della presenza o meno di colorante sui fili. Prima di passare ad altri aspetti, aggiorniamo su alcuni sviluppi successivi alla messa in onda del documentario della ZDF (6 aprile 2007). Come sappiamo, nel documentario furono mostrate immagini di un convegno tenutosi a Manoppello il 25 gennaio, quando Giulio Fanti scattò fotografie ingrandite del Velo mostrando la presenza di materiale sui fili.
Sul sito di padre Andreas Resch è comparsa una lunga pagina (www.igw-resch-verlag.at/aktuelles/dateien/veronika.html ) dedicata al convegno. Oltre a esporre il contenuto della relazione che aveva presentato al convegno, dove riafferma la natura misteriosa del volto sul Velo, Resch riporta ampi passaggi di una relazione inedita di Fanti, datata febbraio 2007, dove Fanti dichiara la presenza, per alcune aree, di particelle di pigmento, pur dicendo che potrebbe trattarsi di ritocchi aggiunti da un pittore medievale per ravvivare il colore che si era sbiadito. Fanti conclude che considera positivamente la possibilità che l’immagine di Manoppello sia acheropita, cioè soprannaturale, anche se non ne è sicuro come lo è per la Sindone. Richiama ancora l’immagine della Madonna di Guadalupe, come nel suo testo da noi pubblicato nello scorso numero, e aggiunge un’altra supposta acheropita, la Madonna comparsa sul vetro di una finestra ad Absam, in Tirolo.
Sul sito della Basilica di Manoppello[1], al momento in cui scrivo, non è comparsa notizia del convegno di gennaio. Sul sito si legge sempre che sul Velo «non sono riscontrabili residui o pigmenti di colore» ed è ancora presente la pagina di Donato Vittore col titolo «Non può essere un dipinto!». Sul bollettino pubblicato semestralmente dai frati del Santuario, nel numero di aprile 2007, c’è una breve notizia del convegno e viene annunciata la pubblicazione degli Atti. Sulla presenza di coloranti si minimizza: «Importante è stata anche l’esposizione delle ricerche operate dal prof. Fanti e dal prof. Vittore, sostanzialmente concordanti sull’inspiegabilità delle origini dell’immagine, sia pure in presenza di limitatissime aree nelle quali sarebbero riscontrabili pigmenti o tracce di colore» (p. 13). Sullo stesso fascicolo c’è notizia di un successivo convegno a Padova il 20 marzo: «Particolarmente apprezzata la relazione del prof. Fanti, docente della Facoltà di Ingegneria dell’università patavina, che ha documentato i risultati scientifici delle ricerche recentemente condotte sulla reliquia, che confermerebbero le tesi sull’inspiegabilità dell’immagine» (p. 38). C’è anche notizia di una presentazione a Lecce alla fine di marzo, dove Vittore «ha ancora una volta sostenuto l’inspiegabilità dell’immagine considerata come dipinta» (p. 40).
La rivincita di chi nega la natura pittorica del Volto è arrivata il 30 aprile 2007. Quella sera il Velo è stato portato nello studio del Rettore del convento, dove il prof. Pietro Baraldi, un chimico dell’Università di Modena, lo ha esaminato con il microscopio Raman. Baraldi è uno specialista nell’analisi di dipinti e in questa occasione ha usato una sofisticata tecnica (spettroscopia Raman) che permette di individuare la natura delle molecole presenti senza dover effettuare prelievi. Di quella seduta, per ora, abbiamo solo un conciso resoconto non tecnico (in tedesco), pubblicato in rete da suor Blandina Schlömer che era presente.[2] Lo riassumiamo.
Il prof. Baraldi aveva portato da Modena un’attrezzatura per il valore di 70.000 euro. Indirizzando un raggio laser su un punto particolare ed esaminando le frequenze della luce riflessa, doveva essere in grado di rilevare la presenza in quel punto di pigmento pittorico e anche di specificarne la natura.
Furono esaminati tredici punti dell’immagine, con varie gradazioni di colore, dal bianco di un dente al nero del centro di una pupilla. Ciascuno dei punti fu analizzato diverse volte perché il professore non voleva credere che non ci fosse niente da rilevare. Dai profili spettroscopici che otteneva, riconosceva solo le proteine di una sostanza di origine animale, presumibilmente quella delle fibre del tessuto, senza sostanze estranee. Nemmeno nel nero della pupilla riuscì a trovare materiale aggiunto. Poi ha provato con luce di Wood (ultravioletto) che non ha prodotto alcuna riflessione. Baraldi continuava a ripetere: «Mistero! Mistero!». Quindi, conclude suor Blandina, la scienza conferma che nessuno dei colori visibili sul velo è spiegabile con la presenza di pigmento. Tutto questo, ripetiamo, secondo il racconto della suora. Non sono ancora note dichiarazioni dello stesso Baraldi e non abbiamo alcun dettaglio tecnico. Non sappiamo nemmeno se il Velo fu estratto dalla cornice o se l’esame si svolse attraverso il vetro. Nel frattempo la notizia è anche stata annunciata su Vatican Magazine, una rivista mensile in tedesco (con redazione a Roma). Sul numero di maggio 2007, nella presentazione di un articolo del vescovo Bruno Forte, una nota di redazione dice: «Il 30 aprile il professor Pietro Baraldi dell’Università di Modena ha tuttavia affermato, dopo una elaborata indagine del tessuto, che "niente" può essere identificato sul velo come pigmenti pittorici (...) solo proteine del bisso marino, nient’altro. Il professor Baraldi è un esperto per tali questioni, che si è fatto un nome con le sue ricerche su antichi affreschi e dipinti di Pompei e Cuma. I risultati dettagliati delle sue indagini saranno presto pubblicati».
Dobbiamo attendere che il prof. Baraldi pubblichi una relazione dettagliata e vedremo se si potrà tentare una valutazione. Terremo informati i lettori.
Tutto cominciò nell’estate 2004, quando Paul Badde (con la moglie) e suor Blandina Schlömer andarono a Ortona per vedere le reliquie di San Tommaso. Al ristorante mangiarono spaghetti alle cozze. Suor Blandina portò a casa i gusci e si accorse dei filamenti. Li osservò e ritenne che quella dovesse essere la fibra del Velo. Cercò qualche esperto per avere una conferma. Sentì parlare di Chiara Vigo che sull’isola di Sant’Antioco, in Sardegna, continua la tradizione della filatura del bisso marino. Le scrisse, le telefonò, le inviò foto ingrandite del tessuto. La Vigo disse che poteva trattarsi di bisso marino ma doveva vedere dal vero. Volò a Fiumicino da dove fece il viaggio in macchina con Badde fino a Manoppello. Così Badde ebbe occasione di assistere all’incontro della Vigo col Velo e lo descrisse in modo teatrale in quell’articolo del 23 settembre 2004 su Die Welt (di cui dicemmo già nell’articolo del 2005), che fu ripreso da innumerevoli giornali e diede il lancio al mito del bisso marino. La Vigo disse che il bisso non si può dipingere, e questa diventava una prova della natura miracolosa dell’immagine.
Un anno dopo l’articolo, Badde pubblicò il suo libro su Manoppello e lo intitolò appunto Das Muschelseidentuch, che alla lettera significa "Il velo di seta di conchiglia", cioè di bisso marino.
Con questa vicenda abbiamo un esempio di come sia facile far nascere una leggenda. Ormai da tre anni, le fonti che parlano del Velo, di regola, danno per scontato che il tessuto sia di bisso marino. Per esempio, nel già citato articolo dell’Espresso (1 dicembre 2005) si legge: «Le sue fibre sono ricavate da una conchiglia, la pinna nobilis setacea, che secerne la stoffa più delicata al mondo: il bisso marino». Eppure non c’è alcuna prova che lo sia, se non la parola della Vigo, la quale non fornisce motivi specifici a supporto della sua tesi e non ha esaminato il Velo se non per averlo visto attraverso i vetri della cornice. Inoltre gli esemplari noti (molto rari) di tessuti in bisso marino hanno una colorazione dal dorato al bruno che non si riscontra sul Velo.
Al convegno della ZDF di gennaio, a quanto si percepisce nel documentario, sembra che nessuno abbia messo in discussione il fatto che il velo sia di bisso marino. In proposito, il bollettino del santuario scrive: «Un aspetto delle ricerche ha riguardato la natura del tessuto, con confronti tra vari filamenti, che hanno permesso alla sig.ra Chiara Vigo di confermare che si tratta di bisso marino».
A quel convegno era appunto presente la Vigo. Dovendo constatare che sul velo c’è colore, andava in crisi la sua tesi sempre sostenuta, che il velo è di bisso e che il bisso non si lascia dipingere. Si direbbe quindi che la Vigo dovesse rinunciare ad almeno uno dei suoi postulati. No, intervistata nel documentario della ZDF, la Vigo ha trovato un’altra soluzione. Dopo aver confermato che il velo è di bisso marino, ha detto che il bisso non lo possiamo dipingere noi umani, ma "il Grande Capo" lassù, come lo chiama, che può fare i miracoli, può anche dipingere il bisso. Quindi ha preso la cosa come un’altra prova della natura soprannaturale del Velo.[3]
Come racconta in un’altra pagina del sito già citato,[4] datata 23 aprile 2007, suor Blandina, col permesso di Padre Carmine Cucinelli, rettore del convento di Manoppello, aveva tagliato un pezzetto di filo che sporgeva dalla cornice di legno del quadro. Inizialmente non pensava che si trattasse di un filo del Velo stesso. Poi ha esaminato le fibre di questo filo al microscopio, confrontando con campioni di bisso marino che aveva avuto da Chiara Vigo. Si è convinta che il filo prelevato sia di bisso marino e quindi che provenga proprio dal Velo. Esprime l’intenzione di inviare campioni di fibre a istituti specializzati per avere l’esito di un esame. Nomina il BAM di Berlino (un importante Istituto di ricerca sui materiali) e si riferisce, senza far nomi, a un istituto di Roma e a uno di Torino. Da un accenno in altra pagine del sito, sembra che un campione sia poi stato effettivamente inviato a Berlino.
Non sappiamo se e quando verranno resi noti gli esiti di eventuali esami. Anche in questo caso cercheremo di tenervi informati.
Fra i tre campioni di bisso marino forniti dalla Vigo, che suor Blandina ha usato per il confronto, ce n’è uno indicato come «una mummia di Sant’Antioco del primo millennio avanti Cristo». Appare strano che su quell’isola ci siano antichissime mummie e, ancor più, che siano rivestite di bisso: il più antico manufatto di bisso marino oggi esistente, di cui si abbia notizia certa, risale appena al secolo XIV. Forse è nato un equivoco dal fatto che sull’isola di Sant’Antioco è stata trovata quella che viene chiamata "tomba della mummia", contenente diversi scheletri, uno dei quali aveva il capo fasciato da un telo, alla maniera di una mummia, da cui il nome. Però questo telo sembra essere di lino, non di bisso marino. Ci si aspetta che suor Blandina o la signora Vigo sappiano fornire precisazioni sulla provenienza del bisso marino della mummia di Sant’Antioco.
La cupola di San Pietro in Vaticano poggia sui quattro giganteschi pilastri che circondano l’altare del Bernini. Quello in fondo a sinistra, con alla base la grande statua di Santa Veronica che sventola il velo col volto di Cristo, contiene al suo interno, su a metà altezza, la cella dove è custodita la più illustre "vera immagine" di Gesù, quel Velo della Veronica che nei secoli del basso medioevo attirò a Roma moltitudini di pellegrini e fu lodato da Dante e Petrarca. Una volta all’anno, in una domenica di quaresima, durante una cerimonia la Veronica (come viene comunemente chiamato il velo) viene brevemente mostrata dall’alto della loggetta che si apre sul fianco del pilastro. Nessuno può vederla da vicino e non sono mai state pubblicate fotografie, ma è noto da tempo che l’immagine è in pratica scomparsa del tutto e non vi si scorgono i lineamenti di un volto. Non abbiamo la certezza che l’esemplare oggi in S. Pietro sia lo stesso del tempo di Dante, ma il fatto che l’immagine sia scomparsa è un indizio a favore. La Veronica si trova a Roma almeno dal secolo XII o, secondo alcuni, forse fin dal secolo VIII, quindi è normale che un dipinto su stoffa così antico abbia perso l’immagine. Ci sarebbe da insospettirsi se il dipinto fosse ancora integro. Le tecniche per dipingere su stoffa in modo abbastanza permanente si sarebbero sviluppate solo più tardi.
Quando padre Heinrich Pfeiffer immaginò una storia lunga duemila anni per il Velo di Manoppello, la fece coincidere, per i secoli del Medioevo, con la Veronica romana. Secondo la sua tesi, la Veronica sparì da Roma durante il trasferimento dalla vecchia alla nuova basilica di S. Pietro ai primi del Seicento, per poi finire chissà come a Manoppello. Secondo un’altra teoria, sostenuta da Saverio Gaeta, la Veronica fu trafugata durante il Sacco di Roma nel 1527. Comunque sia, per tutti i sostenitori del mito di Manoppello, fra il Cinquecento e l’inizio del Seicento i papi fecero eseguire un nuovo dipinto che misero al posto di quello originale che era andato perduto. Sarebbe questa "falsa" veronica a essere conservata oggi in S. Pietro. La loro tesi non ha fondamento. Da un lato non forniscono alcun indizio concreto per convalidarla, dall’altro sorvolano su un forte indizio contrario, quello basato sullo stile pittorico dell’esemplare di Manoppello, che denuncia un’origine non abbastanza antica per poter essere identificato con la Veronica romana.
Quindi assistiamo a un’insolita gara fra due veli che si contendono, secondo Pfeiffer e colleghi, il diritto di essere la vera "vera immagine" di Gesù. Quale dei due vincerà? Da una parte c’è un ritratto conservato in un piccolo paese di montagna, sconosciuto al di fuori della zona fino a pochi anni fa. Dall’altra c’è una reliquia conservata e venerata da molti secoli nel cuore della cristianità, meta a suo tempo di folle di fedeli, che ha sì perso l’immagine ma, per chi crede che sia quella vera, è pur sempre una reliquia che ha toccato il volto di Gesù e contiene i residui del suo sangue o sudore. Inoltre, non ci si aspetta che in Vaticano siano facilmente disposti ad ammettere che, per almeno quattro secoli, hanno offerto alla venerazione dei fedeli un esemplare falso che avevano essi stessi sostituito al posto di quello vero. Quella di Manoppello sembrerebbe quindi una partita persa. Eppure il corso degli eventi sta rapidamente facendo pendere la bilancia a suo favore, sia per il riconoscimento dell’autorità ecclesiastica sia per la popolarità sui media.
Come sappiamo, il Papa si è recato a Manoppello appositamente per vedere il Velo. Il numero dei cardinali che hanno fatto lo stesso viaggio è arrivato a diciassette, per quel che ho potuto contare. Soprattutto significativo è che il Papa, durante la sua visita, nella sacrestia del Santuario ha incontrato e stretto la mano a tutti e cinque gli artefici del mito di Manoppello: padre Pfeiffer, suor Blandina, Paul Badde, Saverio Gaeta, padre Resch. Tornato a Roma, ha poi voluto innalzare la chiesa al rango di basilica. Il vescovo di Chieti (nella cui diocesi si trova Manoppello), monsignor Bruno Forte, si è espresso più volte in termini positivi, per quanto la sua posizione glielo consenta, sulla possibilità che il Velo sia autentico. Ecco un passo da un saluto da lui pronunciato nel novembre 2006 a Manoppello, rivolto a un gruppo di circa trenta vescovi tedeschi in visita al santuario:
Come si vede, il vescovo cita per nome gli stessi cinque artefici del mito.
Si penserebbe che almeno i canonici di S. Pietro non siano contenti di sentirsi accusare di custodire e mostrare un esemplare "falso". E invece è successa una cosa strana. Sembra che essi stessi si siano adoperati per declassare la loro reliquia. Infatti hanno concesso a due dei sostenitori di Manoppello l’eccezionale privilegio di salire su, dentro al pilastro della Veronica, per vedere la reliquia da vicino.
Già da molto tempo la Veronica di S. Pietro era inavvicinabile o quasi, forse perché i canonici non avevano piacere di mostrare quanto il dipinto fosse degradato. Durante tutto il Novecento, per quanto si sa, solo a tre persone, estranee al Capitolo di S. Pietro, è stato concesso di salire nella cella. Ora, nel 2005, il permesso è stato accordato a tre persone nel giro di pochi mesi. Il primo, nel marzo, fu Paul Badde, quando già ben si sapeva quale fosse il suo fervore per il Velo abruzzese. Badde scrisse subito dopo un articolo per il suo giornale, poi ne parlò ancora in altre sedi e nel suo libro. Disse che non esisteva immagine sul velo romano e che quella non poteva essere la vera Veronica. Aggiunse che le dimensioni dell’attuale velo sono troppo grandi per consentirgli di entrare nella cornice, conservata in una sala del museo in Vaticano, che racchiuse la Veronica per un paio di secoli a partire dal 1350. Questa della cornice, secondo lui, era una prova certa della avvenuta sostituzione. Concluse quindi che l’attuale esemplare è un falso storico. Come racconta nel suo libro (p. 82), si recò lui stesso a misurare la cornice, ma a quanto sembra si sbagliò, se possiamo credere alle misure riportate su una pagina del sito del Vaticano.[5]
Nel solito articolo dell’Espresso, basato su un’intervista a Badde, il titolo era ad effetto: «In Vaticano c’è un falso: Gesù Cristo. La Veronica di San Pietro non è autentica, sostiene uno studioso. La vera icona è in un santuario abruzzese».
Nell’articolo vengono riportate le misure delle cornici, quali fornite da Badde, e quindi si afferma: «E proprio quella cornice spinge Badde a concludere "che è quella di Manoppello la vera Veronica"».
Non si direbbe che in S. Pietro si fossero pentiti di aver concesso il permesso a Badde. Infatti poco dopo diedero il permesso anche a Saverio Gaeta, che in primavera aveva pubblicato il suo libro su Manoppello. Gaeta non ha dato misure sbagliate per la cornice, ma gli basta il fatto che il velo romano abbia perso l’immagine per concludere che è un falso (forse non è previsto che un’immagine miracolosa possa deteriorarsi). Al convegno di Chieti nel febbraio 2006 (la relazione è pubblicata sul bollettino della basilica di Manoppello, luglio 2006) diceva:
Ora che il ritratto di Manoppello è diventato piuttosto famoso, potremmo sperare che fra gli esperti di storia dell’arte ci sia qualcuno che voglia tentare un’attribuzione, se non a un particolare artista, almeno a un’epoca o a una scuola pittorica.
Finora si sono avuti solo pochi accenni, privi di un’analisi dettagliata. Gerhard Wolf è un direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze (un istituto tedesco) e in particolare si è occupato delle immagini di Cristo nella storia dell’arte. Intervistato nel documentario della ZDF, ha espresso il parere, in via provvisoria, che il quadro di Manoppello sia un’opera fiamminga od olandese del tardo Quattrocento. Anche una collaboratrice di Wolf a Firenze, Urte Krass, è stata sentita dalla ZDF e ha parlato di un ritratto fiammingo-olandese del XV secolo che rimanda alla pittura di Hans Memling. Infatti la pittura fiamminga (od olandese, come si sottintende) del Quattrocento ha molti esempi di raffigurazioni di Cristo delle quali si può trovare una certa reminiscenza nel nostro ritratto. Oltre a Memling (c. 1430 - 1494), aggiungerei il nome di Dieric Bouts (? - 1475).[6] Naturalmente, non si può nemmeno immaginare che il Velo sia stato dipinto proprio dalla mano di grandi maestri quali Memling o Bouts. Semplicemente, il tipo anatomico del volto del Cristo di Manoppello presenta qualche parentela con i modelli fiamminghi.
Un altro esperto tedesco, Bernd Konrad, mi ha suggerito che ci sia una certa somiglianza con i ritratti di Bernhard Strigel (1460-1528), un pittore di Memmingen (una città che oggi è nella Baviera sud-occidentale ma appartiene alla regione storica della Svevia). Anche qui, non si tratta di attribuire il ritratto alla mano dello stesso Strigel, ma solo genericamente alla sua cerchia o a quell’ambiente svevo. Anche se Strigel non è da collocare al livello dei citati maestri fiamminghi, ha pur sempre un posto di rilievo nella pittura di quel periodo (fu ritrattista dell’imperatore Massimiliano I). La pittura dell’epoca, in quella zona della Svevia, non arrivava al livello di raffinatezza dei migliori maestri fiamminghi e olandesi, ma nemmeno il ritratto di Manoppello eccelle in raffinatezza.
Aspettando che ci sia un risveglio di interesse e che altri esperti studino più in dettaglio il problema, per parte mia aggiungo che appare improbabile che un dipinto eseguito a nord delle Alpi abbia fatto il viaggio fino a Manoppello, uno sconosciuto paese in una remota zona del Regno di Napoli. Bisogna allora tener conto che il rinnovamento portato dalla pittura fiamminga del Quattrocento ebbe larga influenza in altre parti d’Europa e anche in Italia. I quadri dei fiamminghi erano di moda presso i nobili italiani e i nostri pittori avevano occasione di studiarli. Ci fu anche qualche scambio fra pittori che viaggiavano dall’Italia alla Fiandra o viceversa. Perciò gli eventuali tratti fiamminghi o nordici dell’opera non escludono che il ritratto venisse eseguito in Italia. A Napoli, in particolare, la pittura fiamminga era conosciuta e apprezzata. Già da circa la metà del Quattrocento, nell’ambiente pittorico napoletano si stava formando una scuola che si ispirava ai fiamminghi. Quindi fra le varie ipotesi si può considerare anche quella che il Velo sia stato dipinto da un artista locale.
Va considerato che un’attribuzione abbastanza precisa può essere difficile perché la tecnica esecutiva è anomala e non è direttamente confrontabile con gli usuali quadri che troviamo nelle chiese e nei musei. È vero che già nel Quattrocento, in particolare nell’area nordica, venivano eseguiti dipinti con una tempera leggera direttamente su stoffa priva di imprimitura e senza l’uso di biacca per il bianco che veniva reso con il colore di fondo del tessuto. Si tratta di opere che poi, con un termine introdotto casualmente da Dürer, furono chiamate tüchlein. Pochi esemplari di quel genere sono giunti integri fino a noi. Nel caso del Velo, c’era in più la peculiarità di un tessuto sottilissimo e trasparente.
Osservando una fotografia del Velo si vede che il pittore ha rinunciato a effetti di chiaroscuro od ombreggiature. Non sembra avere usato il colore bianco e non ha apposto quelle pennellate in colore più chiaro che renderebbero l’effetto dell’illuminazione. Tutta la superficie del volto appare uniforme e piatta, senza variazioni di luce che diano un’impressione di rilievo. Sopra a questo fondo uniforme, sono disegnati i tratti di sopracciglia, barba, capelli: qui un esperto potrebbe cercare di riconoscere lo stile di una particolare scuola, per esempio considerando nel minuto dettaglio il modo in cui il sopracciglio è reso con sottili tratti in diagonale, o il modo in cui sono arricciati i peli della barba e i capelli.
Una singolarità è la bocca semiaperta che mostra i denti. Si trovano alcuni esempi in questo periodo, verso la fine del Quattrocento, però sono rari, in particolare per le raffigurazioni di Cristo. Nella tipica rappresentazione frontale del volto di Cristo, le labbra sono chiuse o al più separate da una fessura sottilissima. Fa eccezione il quadro di Bouts riprodotto nella pagina successiva, dove i denti sono chiaramente visibili. Ci si può chiedere perché mai il nostro pittore abbia scelto di usare un velo così sottile e trasparente, una scelta scomoda sotto tutti i punti di vista. Forse, volendo simulare una Veronica, si riteneva appropriato che fosse trasparente il velo della donna che, secondo la leggenda allora diffusa, asciugò il volto di Gesù durante la salita al Calvario. Nel Quattrocento le dame eleganti, in particolare in Fiandra ma anche altrove, apprezzavano i veli trasparenti che fra l’altro usavano portare su un loro tipico copricapo (detto hennin). Nelle pagine precedenti sono mostrati tre esempi di rappresentazione di un velo della Veronica trasparente.[7] Va detto che il velo trasparente non era affatto la regola e le raffigurazioni della Veronica avevano di solito un velo opaco. Tuttavia questi esempi possono bastare per indicare che un velo trasparente era considerato possibile. Non possiamo sapere se nelle intenzioni del pittore (o piuttosto del committente) si volesse produrre un oggetto singolare, che non rivelasse subito una normale tecnica pittorica e potesse sembrare qualcosa di simile a un’autentica immagine acheropita (non fatta da mano umana). Se quella era l’intenzione, il risultato è stato ora raggiunto.
Non sappiamo come abbia operato il pittore con una tela così sottile. Un modo che sarebbe quanto meno comodo, consiste nel porre il velo disteso orizzontalmente su una superficie assorbente, per esempio un panno o uno spesso foglio di carta. Si dipinge sopra col pennello con una tempera leggera o quasi un acquerello. Se il colore usato è abbastanza fluido, il velo si colorerà anche sul retro. Nelle zone dove l’applicazione non è molto spessa, rimarrà libero lo spazio fra i fili lasciando il velo trasparente. Forse alcuni dettagli dipinti in fino con un colore più denso potevano non riprodursi molto bene dall’altra parte, e allora il pittore avrebbe passato il pennello, limitatamente a tali dettagli, anche sul retro, ricalcando gli stessi segni per renderli meglio visibili. Secondo quanto affermato da Fanti nel documentario della ZDF (e come mi è stato confermato da Falcinelli), sul Velo ci sarebbero dettagli in cui si nota una differenza fra fronte e retro. Bisognerà aspettare che vengano pubblicate fotografie adeguate per poter arrivare a una conclusione su questo aspetto.[8]
Sul sito di padre Andreas Resch è comparsa una lunga pagina (www.igw-resch-verlag.at/aktuelles/dateien/veronika.html ) dedicata al convegno. Oltre a esporre il contenuto della relazione che aveva presentato al convegno, dove riafferma la natura misteriosa del volto sul Velo, Resch riporta ampi passaggi di una relazione inedita di Fanti, datata febbraio 2007, dove Fanti dichiara la presenza, per alcune aree, di particelle di pigmento, pur dicendo che potrebbe trattarsi di ritocchi aggiunti da un pittore medievale per ravvivare il colore che si era sbiadito. Fanti conclude che considera positivamente la possibilità che l’immagine di Manoppello sia acheropita, cioè soprannaturale, anche se non ne è sicuro come lo è per la Sindone. Richiama ancora l’immagine della Madonna di Guadalupe, come nel suo testo da noi pubblicato nello scorso numero, e aggiunge un’altra supposta acheropita, la Madonna comparsa sul vetro di una finestra ad Absam, in Tirolo.
Sul sito della Basilica di Manoppello[1], al momento in cui scrivo, non è comparsa notizia del convegno di gennaio. Sul sito si legge sempre che sul Velo «non sono riscontrabili residui o pigmenti di colore» ed è ancora presente la pagina di Donato Vittore col titolo «Non può essere un dipinto!». Sul bollettino pubblicato semestralmente dai frati del Santuario, nel numero di aprile 2007, c’è una breve notizia del convegno e viene annunciata la pubblicazione degli Atti. Sulla presenza di coloranti si minimizza: «Importante è stata anche l’esposizione delle ricerche operate dal prof. Fanti e dal prof. Vittore, sostanzialmente concordanti sull’inspiegabilità delle origini dell’immagine, sia pure in presenza di limitatissime aree nelle quali sarebbero riscontrabili pigmenti o tracce di colore» (p. 13). Sullo stesso fascicolo c’è notizia di un successivo convegno a Padova il 20 marzo: «Particolarmente apprezzata la relazione del prof. Fanti, docente della Facoltà di Ingegneria dell’università patavina, che ha documentato i risultati scientifici delle ricerche recentemente condotte sulla reliquia, che confermerebbero le tesi sull’inspiegabilità dell’immagine» (p. 38). C’è anche notizia di una presentazione a Lecce alla fine di marzo, dove Vittore «ha ancora una volta sostenuto l’inspiegabilità dell’immagine considerata come dipinta» (p. 40).
La rivincita di chi nega la natura pittorica del Volto è arrivata il 30 aprile 2007. Quella sera il Velo è stato portato nello studio del Rettore del convento, dove il prof. Pietro Baraldi, un chimico dell’Università di Modena, lo ha esaminato con il microscopio Raman. Baraldi è uno specialista nell’analisi di dipinti e in questa occasione ha usato una sofisticata tecnica (spettroscopia Raman) che permette di individuare la natura delle molecole presenti senza dover effettuare prelievi. Di quella seduta, per ora, abbiamo solo un conciso resoconto non tecnico (in tedesco), pubblicato in rete da suor Blandina Schlömer che era presente.[2] Lo riassumiamo.
Il prof. Baraldi aveva portato da Modena un’attrezzatura per il valore di 70.000 euro. Indirizzando un raggio laser su un punto particolare ed esaminando le frequenze della luce riflessa, doveva essere in grado di rilevare la presenza in quel punto di pigmento pittorico e anche di specificarne la natura.
Furono esaminati tredici punti dell’immagine, con varie gradazioni di colore, dal bianco di un dente al nero del centro di una pupilla. Ciascuno dei punti fu analizzato diverse volte perché il professore non voleva credere che non ci fosse niente da rilevare. Dai profili spettroscopici che otteneva, riconosceva solo le proteine di una sostanza di origine animale, presumibilmente quella delle fibre del tessuto, senza sostanze estranee. Nemmeno nel nero della pupilla riuscì a trovare materiale aggiunto. Poi ha provato con luce di Wood (ultravioletto) che non ha prodotto alcuna riflessione. Baraldi continuava a ripetere: «Mistero! Mistero!». Quindi, conclude suor Blandina, la scienza conferma che nessuno dei colori visibili sul velo è spiegabile con la presenza di pigmento. Tutto questo, ripetiamo, secondo il racconto della suora. Non sono ancora note dichiarazioni dello stesso Baraldi e non abbiamo alcun dettaglio tecnico. Non sappiamo nemmeno se il Velo fu estratto dalla cornice o se l’esame si svolse attraverso il vetro. Nel frattempo la notizia è anche stata annunciata su Vatican Magazine, una rivista mensile in tedesco (con redazione a Roma). Sul numero di maggio 2007, nella presentazione di un articolo del vescovo Bruno Forte, una nota di redazione dice: «Il 30 aprile il professor Pietro Baraldi dell’Università di Modena ha tuttavia affermato, dopo una elaborata indagine del tessuto, che "niente" può essere identificato sul velo come pigmenti pittorici (...) solo proteine del bisso marino, nient’altro. Il professor Baraldi è un esperto per tali questioni, che si è fatto un nome con le sue ricerche su antichi affreschi e dipinti di Pompei e Cuma. I risultati dettagliati delle sue indagini saranno presto pubblicati».
Dobbiamo attendere che il prof. Baraldi pubblichi una relazione dettagliata e vedremo se si potrà tentare una valutazione. Terremo informati i lettori.
Il bisso marino
Tutto cominciò nell’estate 2004, quando Paul Badde (con la moglie) e suor Blandina Schlömer andarono a Ortona per vedere le reliquie di San Tommaso. Al ristorante mangiarono spaghetti alle cozze. Suor Blandina portò a casa i gusci e si accorse dei filamenti. Li osservò e ritenne che quella dovesse essere la fibra del Velo. Cercò qualche esperto per avere una conferma. Sentì parlare di Chiara Vigo che sull’isola di Sant’Antioco, in Sardegna, continua la tradizione della filatura del bisso marino. Le scrisse, le telefonò, le inviò foto ingrandite del tessuto. La Vigo disse che poteva trattarsi di bisso marino ma doveva vedere dal vero. Volò a Fiumicino da dove fece il viaggio in macchina con Badde fino a Manoppello. Così Badde ebbe occasione di assistere all’incontro della Vigo col Velo e lo descrisse in modo teatrale in quell’articolo del 23 settembre 2004 su Die Welt (di cui dicemmo già nell’articolo del 2005), che fu ripreso da innumerevoli giornali e diede il lancio al mito del bisso marino. La Vigo disse che il bisso non si può dipingere, e questa diventava una prova della natura miracolosa dell’immagine.
Un anno dopo l’articolo, Badde pubblicò il suo libro su Manoppello e lo intitolò appunto Das Muschelseidentuch, che alla lettera significa "Il velo di seta di conchiglia", cioè di bisso marino.
Con questa vicenda abbiamo un esempio di come sia facile far nascere una leggenda. Ormai da tre anni, le fonti che parlano del Velo, di regola, danno per scontato che il tessuto sia di bisso marino. Per esempio, nel già citato articolo dell’Espresso (1 dicembre 2005) si legge: «Le sue fibre sono ricavate da una conchiglia, la pinna nobilis setacea, che secerne la stoffa più delicata al mondo: il bisso marino». Eppure non c’è alcuna prova che lo sia, se non la parola della Vigo, la quale non fornisce motivi specifici a supporto della sua tesi e non ha esaminato il Velo se non per averlo visto attraverso i vetri della cornice. Inoltre gli esemplari noti (molto rari) di tessuti in bisso marino hanno una colorazione dal dorato al bruno che non si riscontra sul Velo.
Al convegno della ZDF di gennaio, a quanto si percepisce nel documentario, sembra che nessuno abbia messo in discussione il fatto che il velo sia di bisso marino. In proposito, il bollettino del santuario scrive: «Un aspetto delle ricerche ha riguardato la natura del tessuto, con confronti tra vari filamenti, che hanno permesso alla sig.ra Chiara Vigo di confermare che si tratta di bisso marino».
A quel convegno era appunto presente la Vigo. Dovendo constatare che sul velo c’è colore, andava in crisi la sua tesi sempre sostenuta, che il velo è di bisso e che il bisso non si lascia dipingere. Si direbbe quindi che la Vigo dovesse rinunciare ad almeno uno dei suoi postulati. No, intervistata nel documentario della ZDF, la Vigo ha trovato un’altra soluzione. Dopo aver confermato che il velo è di bisso marino, ha detto che il bisso non lo possiamo dipingere noi umani, ma "il Grande Capo" lassù, come lo chiama, che può fare i miracoli, può anche dipingere il bisso. Quindi ha preso la cosa come un’altra prova della natura soprannaturale del Velo.[3]
Come racconta in un’altra pagina del sito già citato,[4] datata 23 aprile 2007, suor Blandina, col permesso di Padre Carmine Cucinelli, rettore del convento di Manoppello, aveva tagliato un pezzetto di filo che sporgeva dalla cornice di legno del quadro. Inizialmente non pensava che si trattasse di un filo del Velo stesso. Poi ha esaminato le fibre di questo filo al microscopio, confrontando con campioni di bisso marino che aveva avuto da Chiara Vigo. Si è convinta che il filo prelevato sia di bisso marino e quindi che provenga proprio dal Velo. Esprime l’intenzione di inviare campioni di fibre a istituti specializzati per avere l’esito di un esame. Nomina il BAM di Berlino (un importante Istituto di ricerca sui materiali) e si riferisce, senza far nomi, a un istituto di Roma e a uno di Torino. Da un accenno in altra pagine del sito, sembra che un campione sia poi stato effettivamente inviato a Berlino.
Non sappiamo se e quando verranno resi noti gli esiti di eventuali esami. Anche in questo caso cercheremo di tenervi informati.
Fra i tre campioni di bisso marino forniti dalla Vigo, che suor Blandina ha usato per il confronto, ce n’è uno indicato come «una mummia di Sant’Antioco del primo millennio avanti Cristo». Appare strano che su quell’isola ci siano antichissime mummie e, ancor più, che siano rivestite di bisso: il più antico manufatto di bisso marino oggi esistente, di cui si abbia notizia certa, risale appena al secolo XIV. Forse è nato un equivoco dal fatto che sull’isola di Sant’Antioco è stata trovata quella che viene chiamata "tomba della mummia", contenente diversi scheletri, uno dei quali aveva il capo fasciato da un telo, alla maniera di una mummia, da cui il nome. Però questo telo sembra essere di lino, non di bisso marino. Ci si aspetta che suor Blandina o la signora Vigo sappiano fornire precisazioni sulla provenienza del bisso marino della mummia di Sant’Antioco.
Veronica contro Veronica
La cupola di San Pietro in Vaticano poggia sui quattro giganteschi pilastri che circondano l’altare del Bernini. Quello in fondo a sinistra, con alla base la grande statua di Santa Veronica che sventola il velo col volto di Cristo, contiene al suo interno, su a metà altezza, la cella dove è custodita la più illustre "vera immagine" di Gesù, quel Velo della Veronica che nei secoli del basso medioevo attirò a Roma moltitudini di pellegrini e fu lodato da Dante e Petrarca. Una volta all’anno, in una domenica di quaresima, durante una cerimonia la Veronica (come viene comunemente chiamato il velo) viene brevemente mostrata dall’alto della loggetta che si apre sul fianco del pilastro. Nessuno può vederla da vicino e non sono mai state pubblicate fotografie, ma è noto da tempo che l’immagine è in pratica scomparsa del tutto e non vi si scorgono i lineamenti di un volto. Non abbiamo la certezza che l’esemplare oggi in S. Pietro sia lo stesso del tempo di Dante, ma il fatto che l’immagine sia scomparsa è un indizio a favore. La Veronica si trova a Roma almeno dal secolo XII o, secondo alcuni, forse fin dal secolo VIII, quindi è normale che un dipinto su stoffa così antico abbia perso l’immagine. Ci sarebbe da insospettirsi se il dipinto fosse ancora integro. Le tecniche per dipingere su stoffa in modo abbastanza permanente si sarebbero sviluppate solo più tardi.
Quando padre Heinrich Pfeiffer immaginò una storia lunga duemila anni per il Velo di Manoppello, la fece coincidere, per i secoli del Medioevo, con la Veronica romana. Secondo la sua tesi, la Veronica sparì da Roma durante il trasferimento dalla vecchia alla nuova basilica di S. Pietro ai primi del Seicento, per poi finire chissà come a Manoppello. Secondo un’altra teoria, sostenuta da Saverio Gaeta, la Veronica fu trafugata durante il Sacco di Roma nel 1527. Comunque sia, per tutti i sostenitori del mito di Manoppello, fra il Cinquecento e l’inizio del Seicento i papi fecero eseguire un nuovo dipinto che misero al posto di quello originale che era andato perduto. Sarebbe questa "falsa" veronica a essere conservata oggi in S. Pietro. La loro tesi non ha fondamento. Da un lato non forniscono alcun indizio concreto per convalidarla, dall’altro sorvolano su un forte indizio contrario, quello basato sullo stile pittorico dell’esemplare di Manoppello, che denuncia un’origine non abbastanza antica per poter essere identificato con la Veronica romana.
Quindi assistiamo a un’insolita gara fra due veli che si contendono, secondo Pfeiffer e colleghi, il diritto di essere la vera "vera immagine" di Gesù. Quale dei due vincerà? Da una parte c’è un ritratto conservato in un piccolo paese di montagna, sconosciuto al di fuori della zona fino a pochi anni fa. Dall’altra c’è una reliquia conservata e venerata da molti secoli nel cuore della cristianità, meta a suo tempo di folle di fedeli, che ha sì perso l’immagine ma, per chi crede che sia quella vera, è pur sempre una reliquia che ha toccato il volto di Gesù e contiene i residui del suo sangue o sudore. Inoltre, non ci si aspetta che in Vaticano siano facilmente disposti ad ammettere che, per almeno quattro secoli, hanno offerto alla venerazione dei fedeli un esemplare falso che avevano essi stessi sostituito al posto di quello vero. Quella di Manoppello sembrerebbe quindi una partita persa. Eppure il corso degli eventi sta rapidamente facendo pendere la bilancia a suo favore, sia per il riconoscimento dell’autorità ecclesiastica sia per la popolarità sui media.
Come sappiamo, il Papa si è recato a Manoppello appositamente per vedere il Velo. Il numero dei cardinali che hanno fatto lo stesso viaggio è arrivato a diciassette, per quel che ho potuto contare. Soprattutto significativo è che il Papa, durante la sua visita, nella sacrestia del Santuario ha incontrato e stretto la mano a tutti e cinque gli artefici del mito di Manoppello: padre Pfeiffer, suor Blandina, Paul Badde, Saverio Gaeta, padre Resch. Tornato a Roma, ha poi voluto innalzare la chiesa al rango di basilica. Il vescovo di Chieti (nella cui diocesi si trova Manoppello), monsignor Bruno Forte, si è espresso più volte in termini positivi, per quanto la sua posizione glielo consenta, sulla possibilità che il Velo sia autentico. Ecco un passo da un saluto da lui pronunciato nel novembre 2006 a Manoppello, rivolto a un gruppo di circa trenta vescovi tedeschi in visita al santuario:
«Gli studi degli ultimi anni - condotti da ricercatori quali il P. Heinrich Pfeiffer, S.J., Suor Blandina Paschalis Schlömer, il Redentorista Andreas Resch, Paul Badde, Saverio Gaeta - offrono vari argomenti per rispondere affermativamente e con sufficiente certezza morale a due domande che il Santo Volto di Manoppello pone: è il Velo qui custodito la Veronica venerata nella Basilica Vaticana a Roma, poi scomparsa (dal XVI secolo) e sostituita da una copia dipinta, oggi completamente sbiadita? È questa preziosa reliquia il sudario posto nel sepolcro sul volto del Cristo morto, come attesta il vangelo di Giovanni (20,6-7), e che poi sarebbe stato custodito in Cappadocia, a Camulia, prima di essere messo in salvo a Roma agli inizi dell’VIII secolo per sfuggire alla furia iconoclasta? Se le due risposte affermative date dagli studiosi ricordati risultassero definitivamente acquisite, il Volto Santo di Manoppello potrebbe essere considerato la reliquia più sacra della cristianità, come tale venerata nel Medio Evo (cfr. ad esempio quanto dice Dante nel canto XXXI del Paradiso, ai vv. 103-111, o Petrarca nel Sonetto XVI del Canzoniere). Due dati appaiono comunque sempre più sicuri: il fatto che forma e misure del Volto Santo custodito nel Santuario abruzzese sono quelle del canone a cui si è ispirata l’iconografia orientale (e non solo) sin dai primissimi secoli; e la perfetta sovrapponibilità dell’immagine col Volto della Sindone custodita a Torino.»
Come si vede, il vescovo cita per nome gli stessi cinque artefici del mito.
Si penserebbe che almeno i canonici di S. Pietro non siano contenti di sentirsi accusare di custodire e mostrare un esemplare "falso". E invece è successa una cosa strana. Sembra che essi stessi si siano adoperati per declassare la loro reliquia. Infatti hanno concesso a due dei sostenitori di Manoppello l’eccezionale privilegio di salire su, dentro al pilastro della Veronica, per vedere la reliquia da vicino.
Già da molto tempo la Veronica di S. Pietro era inavvicinabile o quasi, forse perché i canonici non avevano piacere di mostrare quanto il dipinto fosse degradato. Durante tutto il Novecento, per quanto si sa, solo a tre persone, estranee al Capitolo di S. Pietro, è stato concesso di salire nella cella. Ora, nel 2005, il permesso è stato accordato a tre persone nel giro di pochi mesi. Il primo, nel marzo, fu Paul Badde, quando già ben si sapeva quale fosse il suo fervore per il Velo abruzzese. Badde scrisse subito dopo un articolo per il suo giornale, poi ne parlò ancora in altre sedi e nel suo libro. Disse che non esisteva immagine sul velo romano e che quella non poteva essere la vera Veronica. Aggiunse che le dimensioni dell’attuale velo sono troppo grandi per consentirgli di entrare nella cornice, conservata in una sala del museo in Vaticano, che racchiuse la Veronica per un paio di secoli a partire dal 1350. Questa della cornice, secondo lui, era una prova certa della avvenuta sostituzione. Concluse quindi che l’attuale esemplare è un falso storico. Come racconta nel suo libro (p. 82), si recò lui stesso a misurare la cornice, ma a quanto sembra si sbagliò, se possiamo credere alle misure riportate su una pagina del sito del Vaticano.[5]
Nel solito articolo dell’Espresso, basato su un’intervista a Badde, il titolo era ad effetto: «In Vaticano c’è un falso: Gesù Cristo. La Veronica di San Pietro non è autentica, sostiene uno studioso. La vera icona è in un santuario abruzzese».
Nell’articolo vengono riportate le misure delle cornici, quali fornite da Badde, e quindi si afferma: «E proprio quella cornice spinge Badde a concludere "che è quella di Manoppello la vera Veronica"».
Non si direbbe che in S. Pietro si fossero pentiti di aver concesso il permesso a Badde. Infatti poco dopo diedero il permesso anche a Saverio Gaeta, che in primavera aveva pubblicato il suo libro su Manoppello. Gaeta non ha dato misure sbagliate per la cornice, ma gli basta il fatto che il velo romano abbia perso l’immagine per concludere che è un falso (forse non è previsto che un’immagine miracolosa possa deteriorarsi). Al convegno di Chieti nel febbraio 2006 (la relazione è pubblicata sul bollettino della basilica di Manoppello, luglio 2006) diceva:
«Non v’è traccia di immagine su quella tela conservata in Vaticano. Ciò che di lontano, quando il reliquiario viene esposto dall’alto della loggia della Veronica, appare il contorno di un volto non è altro che l’intaglio di una lamina dorata (...) Dunque è assolutamente certo che "quella immagine benedetta la quale Iesu Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura", come la definì il poeta Dante intorno al 1292 nella Vita nuova, attualmente non si trova più in Vaticano. All’interno della cassaforte seicentesca, le cui serrature vengono ancora aperte con il chiavistello e le tre chiavi originali, il reliquiario della Vera Croce e l’urna di vetro che contiene la lancia utilizzata da Longino per colpire il fianco di Gesù crocifisso fanno da corona a un esemplare fasullo, realizzato tra la metà del Cinquecento e gli inizi del Seicento» (p. 14).
Dopo Gaeta, nell’ottobre 2005 anche Roberto Falcinelli, che non sostiene l’autenticità del Velo di Manoppello, ebbe il permesso di vedere la Veronica. In attesa di un’expertise
Ora che il ritratto di Manoppello è diventato piuttosto famoso, potremmo sperare che fra gli esperti di storia dell’arte ci sia qualcuno che voglia tentare un’attribuzione, se non a un particolare artista, almeno a un’epoca o a una scuola pittorica.
Finora si sono avuti solo pochi accenni, privi di un’analisi dettagliata. Gerhard Wolf è un direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze (un istituto tedesco) e in particolare si è occupato delle immagini di Cristo nella storia dell’arte. Intervistato nel documentario della ZDF, ha espresso il parere, in via provvisoria, che il quadro di Manoppello sia un’opera fiamminga od olandese del tardo Quattrocento. Anche una collaboratrice di Wolf a Firenze, Urte Krass, è stata sentita dalla ZDF e ha parlato di un ritratto fiammingo-olandese del XV secolo che rimanda alla pittura di Hans Memling. Infatti la pittura fiamminga (od olandese, come si sottintende) del Quattrocento ha molti esempi di raffigurazioni di Cristo delle quali si può trovare una certa reminiscenza nel nostro ritratto. Oltre a Memling (c. 1430 - 1494), aggiungerei il nome di Dieric Bouts (? - 1475).[6] Naturalmente, non si può nemmeno immaginare che il Velo sia stato dipinto proprio dalla mano di grandi maestri quali Memling o Bouts. Semplicemente, il tipo anatomico del volto del Cristo di Manoppello presenta qualche parentela con i modelli fiamminghi.
Un altro esperto tedesco, Bernd Konrad, mi ha suggerito che ci sia una certa somiglianza con i ritratti di Bernhard Strigel (1460-1528), un pittore di Memmingen (una città che oggi è nella Baviera sud-occidentale ma appartiene alla regione storica della Svevia). Anche qui, non si tratta di attribuire il ritratto alla mano dello stesso Strigel, ma solo genericamente alla sua cerchia o a quell’ambiente svevo. Anche se Strigel non è da collocare al livello dei citati maestri fiamminghi, ha pur sempre un posto di rilievo nella pittura di quel periodo (fu ritrattista dell’imperatore Massimiliano I). La pittura dell’epoca, in quella zona della Svevia, non arrivava al livello di raffinatezza dei migliori maestri fiamminghi e olandesi, ma nemmeno il ritratto di Manoppello eccelle in raffinatezza.
Aspettando che ci sia un risveglio di interesse e che altri esperti studino più in dettaglio il problema, per parte mia aggiungo che appare improbabile che un dipinto eseguito a nord delle Alpi abbia fatto il viaggio fino a Manoppello, uno sconosciuto paese in una remota zona del Regno di Napoli. Bisogna allora tener conto che il rinnovamento portato dalla pittura fiamminga del Quattrocento ebbe larga influenza in altre parti d’Europa e anche in Italia. I quadri dei fiamminghi erano di moda presso i nobili italiani e i nostri pittori avevano occasione di studiarli. Ci fu anche qualche scambio fra pittori che viaggiavano dall’Italia alla Fiandra o viceversa. Perciò gli eventuali tratti fiamminghi o nordici dell’opera non escludono che il ritratto venisse eseguito in Italia. A Napoli, in particolare, la pittura fiamminga era conosciuta e apprezzata. Già da circa la metà del Quattrocento, nell’ambiente pittorico napoletano si stava formando una scuola che si ispirava ai fiamminghi. Quindi fra le varie ipotesi si può considerare anche quella che il Velo sia stato dipinto da un artista locale.
Va considerato che un’attribuzione abbastanza precisa può essere difficile perché la tecnica esecutiva è anomala e non è direttamente confrontabile con gli usuali quadri che troviamo nelle chiese e nei musei. È vero che già nel Quattrocento, in particolare nell’area nordica, venivano eseguiti dipinti con una tempera leggera direttamente su stoffa priva di imprimitura e senza l’uso di biacca per il bianco che veniva reso con il colore di fondo del tessuto. Si tratta di opere che poi, con un termine introdotto casualmente da Dürer, furono chiamate tüchlein. Pochi esemplari di quel genere sono giunti integri fino a noi. Nel caso del Velo, c’era in più la peculiarità di un tessuto sottilissimo e trasparente.
Osservando una fotografia del Velo si vede che il pittore ha rinunciato a effetti di chiaroscuro od ombreggiature. Non sembra avere usato il colore bianco e non ha apposto quelle pennellate in colore più chiaro che renderebbero l’effetto dell’illuminazione. Tutta la superficie del volto appare uniforme e piatta, senza variazioni di luce che diano un’impressione di rilievo. Sopra a questo fondo uniforme, sono disegnati i tratti di sopracciglia, barba, capelli: qui un esperto potrebbe cercare di riconoscere lo stile di una particolare scuola, per esempio considerando nel minuto dettaglio il modo in cui il sopracciglio è reso con sottili tratti in diagonale, o il modo in cui sono arricciati i peli della barba e i capelli.
Una singolarità è la bocca semiaperta che mostra i denti. Si trovano alcuni esempi in questo periodo, verso la fine del Quattrocento, però sono rari, in particolare per le raffigurazioni di Cristo. Nella tipica rappresentazione frontale del volto di Cristo, le labbra sono chiuse o al più separate da una fessura sottilissima. Fa eccezione il quadro di Bouts riprodotto nella pagina successiva, dove i denti sono chiaramente visibili. Ci si può chiedere perché mai il nostro pittore abbia scelto di usare un velo così sottile e trasparente, una scelta scomoda sotto tutti i punti di vista. Forse, volendo simulare una Veronica, si riteneva appropriato che fosse trasparente il velo della donna che, secondo la leggenda allora diffusa, asciugò il volto di Gesù durante la salita al Calvario. Nel Quattrocento le dame eleganti, in particolare in Fiandra ma anche altrove, apprezzavano i veli trasparenti che fra l’altro usavano portare su un loro tipico copricapo (detto hennin). Nelle pagine precedenti sono mostrati tre esempi di rappresentazione di un velo della Veronica trasparente.[7] Va detto che il velo trasparente non era affatto la regola e le raffigurazioni della Veronica avevano di solito un velo opaco. Tuttavia questi esempi possono bastare per indicare che un velo trasparente era considerato possibile. Non possiamo sapere se nelle intenzioni del pittore (o piuttosto del committente) si volesse produrre un oggetto singolare, che non rivelasse subito una normale tecnica pittorica e potesse sembrare qualcosa di simile a un’autentica immagine acheropita (non fatta da mano umana). Se quella era l’intenzione, il risultato è stato ora raggiunto.
Non sappiamo come abbia operato il pittore con una tela così sottile. Un modo che sarebbe quanto meno comodo, consiste nel porre il velo disteso orizzontalmente su una superficie assorbente, per esempio un panno o uno spesso foglio di carta. Si dipinge sopra col pennello con una tempera leggera o quasi un acquerello. Se il colore usato è abbastanza fluido, il velo si colorerà anche sul retro. Nelle zone dove l’applicazione non è molto spessa, rimarrà libero lo spazio fra i fili lasciando il velo trasparente. Forse alcuni dettagli dipinti in fino con un colore più denso potevano non riprodursi molto bene dall’altra parte, e allora il pittore avrebbe passato il pennello, limitatamente a tali dettagli, anche sul retro, ricalcando gli stessi segni per renderli meglio visibili. Secondo quanto affermato da Fanti nel documentario della ZDF (e come mi è stato confermato da Falcinelli), sul Velo ci sarebbero dettagli in cui si nota una differenza fra fronte e retro. Bisognerà aspettare che vengano pubblicate fotografie adeguate per poter arrivare a una conclusione su questo aspetto.[8]
3) Il giorno dopo, 26 gennaio, sul giornale Unione Sarda c’era questo titolo in prima pagina: «Tessitrice sarda svela il segreto di una reliquia». Occhiello: «Chiara Vigo, di Sant’Antioco, ha svolto l’indagine su richiesta del Papa». L’articolo si apriva così: «In missione segreta per conto del Vaticano, ha svelato l’origine di una preziosa reliquia: il Velo che riproduce il volto di Cristo è di bisso».
5) Badde dichiara un’altezza di 33 cm per la dimensione esterna dell’antica cornice, mentre sul sito del Vaticano il dato è di 40 cm. Badde dà per l’altezza della luce interna la misura di 25 cm. Il sito del Vaticano non fornisce questo dato, ma un esame delle fotografie esclude che l’altezza interna possa essere di soli 25 cm. Gaeta indica un’altezza interna di 34 cm. Esaminando una fotografia che permette una buona visuale, per parte mia arriverei a una stima di 32 cm, che è proprio l’altezza interna della cornice attuale. La cornice medievale è esposta al pubblico e prima o poi qualcuno dovrà andare a misurarla per un controllo.
6) Chi non avesse già familiarità con quella straordinaria stagione artistica, può trovare su internet abbondanza di esempi (da vedere a colori e in buona risoluzione), per esempio sul sito www.aiwaz.net/panopticon . Potrà ammirare i quadri dei citati Hans Memling e Dieric (o Dirk) Bouts, o di Rogier van der Weyden, e risalire su a Jan van Eyck. Ovviamente, sul piano della qualità artistica qualsiasi confronto fra simili capolavori e il Velo di Manoppello è improponibile.
7) Due esempi sono fiamminghi e portano la tipica rappresentazione di Santa Veronica che regge fra le mani il suo velo. Il primo è di Campin, uno dei fondatori della scuola fiamminga. Il terzo esempio è di Wolgemut, un pittore e incisore che aveva una bottega molto attiva a Norimberga e fu maestro di Dürer. Il dettaglio mostrato è la parte alta di un quadro che raffigura il miracolo della Messa di Gregorio. Secondo una delle leggende dei miracoli eucaristici, papa Gregorio Magno, mentre celebrava la messa, ebbe l’apparizione del corpo di Cristo che si materializzava sull’altare al di sopra dell’ostia e del calice. Qui la Veronica è mostrata come uno dei simboli della Passione (Arma Christi).
8) Ringrazio Roberto Falcinelli, Bernd Konrad e Felicitas Maeder per le informazioni che hanno fornito.