Immortali per caso
Anna Della Subin
Bollati Boringhieri,
Torino, 2023
pp. 462, euro 29,00
C’è chi passa tutta la vita a spacciarsi per un dio. Sabbatai Zevi nel corso del XVII secolo ci andò vicino, proclamandosi il messia che gli ebrei attendevano da millenni, finché fu catturato e preferì convertirsi all’Islam anziché patire le torture. L’imperatore del Giappone Hirohito non dovette faticare molto perché il suo carattere divino faceva parte di un'antica tradizione reintrodotta all’epoca del rinnovamento Meiji, ma il generale MacArthur lo costrinse ad annunciare che si erano sbagliati sul suo conto. L’America è percorsa continuamente da sedicenti Gesù ritornati sulla terra. Ma che dire di quanti, invece, si sono ritrovati a essere proclamati dèi senza volerlo?
La lista è più lunga e sicuramente più interessante, come ci mostra la studiosa americana Anna Della Subin nel suo primo titolo tradotto in italiano. In questa lista troveremo la regina Vittoria, deificata da una setta indiana che ne venerava l’effige impressa su una moneta, o addirittura il principe Filippo, il marito di Elisabetta II, che i membri della tribù Yaohnanen, nell’arcipelago di Vanuatu, hanno fatto oggetto di un tipico “culto del cargo”, come gli antropologi definiscono i culti millenaristici che associano l’arrivo o il ritorno di divinità a lungo attese all’apparizione di navi o aerei occidentali carichi di beni nelle culture di sussistenza del Pacifico o dell’Oceania. Lo stesso MacArthur, dopo aver destituito Hirohito della sua divinità, si trovò a sua volta divinizzato nelle Filippine, dove, nella forma di un’enorme statua di legno, fu oggetto di rituali propiziatori. Dopo Colombo, poi, pressoché ogni esploratore europeo che per primo si trovò ad avere a che fare con popolazioni indigene mai contattate prima da occidentali si trasformò suo malgrado in una divinità. Francis Drake, accolto come tale da una folla osannante sulla costa della California, cercò in tutti i modi di convincere gli indigeni di essere umano come loro, solo un po’ più vestito (perché coprire le nudità era un atto dovuto al peccato originale): ma non servì né mangiare insieme a loro né recitare salmi in ginocchio per mostrare che il vero Dio era quello cristiano.
Due sono i casi su cui Della Subin si sofferma di più, trattandosi di episodi in cui il tentativo di divinizzazione ha dato vita in tempi recenti a vere e proprie religioni. Il primo è quello di Hailé Selassié, l’ultimo imperatore d’Etiopia, che tra gli afroamericani della Giamaica divenne l’oggetto del culto rastafariano, poi diffusosi in buona parte della diaspora africana. Selassié si ritrovò descritto come il Re dei Re, incarnazione di Gesù Cristo secondo l’interpretazione del Kebra Nagast, il testo sacro etiope. La sua morte, nel 1975, ha forse solo attutito, ma non certamente spento, il movimento rastafariano. Il secondo caso è quello di Jiddu Krishnamurti, che i seguaci della teosofia, dopo averlo scorto, appena quattordicenne, su una spiaggia indiana mentre faceva il bagno, indicarono come il messia: strappato alla custodia del padre, che inutilmente si appellò alla giustizia britannica, fu cresciuto per diventare un dio vivente, finché, stanco di recitare quel ruolo e preferendo il cinema, il golf e le motociclette, sciolse l’Ordine della Stella d’Oriente, il culto nato intorno alla sua persona.
Vicende avvenute in pieno Novecento, a dimostrazione che la divinizzazione non appartiene solo alla storia dell’antichità, degli imperatori romani o degli Aztechi, ma può ripresentarsi in piena secolarizzazione. In Immortali per caso Anna Della Subin sottolinea soprattutto come la divinizzazione sia stata un modo per promuovere il suprematismo bianco, il mito della purezza della razza e la superiorità dei bianchi sulle altre civiltà: uno strumento di colonizzazione e diffusione di ideali razzisti che ancora permea la cultura occidentale.
Il lettore italiano, meno a suo agio di quello americano con l’attuale moda storiografica di rintracciare le radici del razzismo e della misoginia negli episodi più disparati della storia occidentale, potrebbe trovarla una tesi un po’ forzata. Ma basterà ricordare come la frase che apre il libro, tratta dal Genesi, in cui il serpente assicura ad Adamo ed Eva che se mangeranno dall’Albero proibito saranno “come dèi”, sia stata ripresa nel 1968 dai guru dell’ideologia californiana con il motto We Are As Gods (“siamo come dèi”), per capire la facilità con cui i maschi bianchi finiscono per divinizzare sé stessi.