Ad aprile hai scritto un articolo su Wired parlando di ciò che non ha funzionato nella comunicazione del rischio durante la pandemia di COVID-19. Hai affermato che il primo errore è stato nella comunicazione relativa al lockdown, il primo passo falso di una serie di passi falsi da parte del Governo.
Farei un ulteriore passo indietro. Secondo me le cose che hanno pesato più di tutte sono due: la prima è il fatto che non sia stata pianificata la gestione dell’emergenza, e di conseguenza neanche la comunicazione durante l’emergenza. Per poter funzionare, la gestione dell’emergenza ha bisogno di essere preparata in tempo di pace, e questo vale anche per le attività di comunicazione. Nel momento in cui si delineano gli scenari di rischio pandemico e si pianificano le risposte, queste devono riguardare non solo come attrezzare gli ospedali o produrre le mascherine, ma anche cosa è importante comunicare, attraverso quali canali dedicati, verso quali pubblici, con quali strumenti, e così via. Insomma, occorre predisporre un piano di comunicazione, che oggi non può prescindere dal web e dai social media, da uno staff di comunicazione appositamente formato, con specifici obiettivi e funzioni. Tutto questo è evidentemente mancato. Quando si lavora bene in tempo di pace si possono predisporre in anticipo le strategie comunicative, i messaggi e i materiali per rispondere ai diversi possibili scenari di rischio. Nella mia esperienza personale, suggerisco sempre di preparare una cartella chiamata «reactive communication» che, nel momento del bisogno, contiene materiali comunicativi già pronti all’uso. Certo, questi materiali dovranno poi essere adattati alla situazione reale perché non si può mai prevedere tutto, ma costituiscono un punto di partenza estremamente utile, anche perché le stesse persone incaricate della gestione dell’emergenza, in quei momenti drammatici, potrebbero essere soggette a grandi pressioni o essere loro stesse esposte al rischio. Pianificare la risposta comunicativa permette di reagire in modo più rapido, strutturato e con un livello di preparazione che secondo me in questa pandemia è mancato.
Questa fase di preparazione della comunicazione è mancata perché il piano sull’epidemia esisteva già ma non prevedeva la parte di comunicazione, oppure perché il piano in sé era formale ma non sostanziale?
Faccio un esempio. La Corea del Sud aveva un piano pandemico dal 2003, formulato sull’esperienza della SARS. Questo piano includeva tutto, dalla reperibilità delle mascherine, al sistema di contact tracing, alla comunicazione. Lo scorso dicembre è stata fatta un’esercitazione per vedere se il piano funzionava. Ecco perché la Corea del Sud si è dimostrata pronta nel momento dell’emergenza. Un piano deve essere operativo, altrimenti è inutile. Significa anche costituire l’unità di crisi in tempo di pace e formare le persone che dovranno comunicare il rischio al pubblico, perché spesso i portavoce non sono comunicatori di professione, bensì esperti, politici, dirigenti, amministratori. Cioè figure di vertice con competenze tecniche o gestionali che devono essere formate attraverso un media training per comunicare il rischio in modo efficace nelle diverse situazioni, si tratti di un'intervista in TV, alla radio, per i giornali o dell’interazione sui social. Oltre ad avere uno staff, occorre infatti avere un portavoce affidabile che personifichi l’istituzione deputata a gestire l’emergenza. Quando ho lavorato con l’Università dell’Aquila sulla comunicazione del rischio sismico a seguito del terremoto del 2009, dopo aver formato l’unità di crisi e pianificato le risposte ai diversi possibili scenari di rischio, abbiamo testato il piano di emergenza con una simulazione a sorpresa. Se durante la simulazione noti delle lacune, puoi rimediare; se invece te ne accorgi nel momento dell’emergenza, è un disastro: agirai in ritardo, inseguendo gli eventi, con tutte le conseguenze del caso. Se non sono le istituzioni a comunicare per prime e a fornire le informazioni più aggiornate, lo farà qualcun altro. La preparazione serve a occupare il centro della scena comunicativa, fornendo ai cittadini informazioni attendibili e verificate.
Quando si racconta, la cosa sembra eclatante: ci si meraviglia che qualcuno possa improvvisare questo genere di situazioni, soprattutto se drammatiche. La scarsa capacità progettuale è dovuta a una mancanza di cultura sulla comunicazione, o a un’instabilità data dal fatto che chi lavora nelle istituzioni transita e cambia?
È un insieme di fattori. C’è sicuramente il fatto che mancano figure professionali di questo tipo nella gran parte delle istituzioni. Lo stesso comunicatore della scienza è ancora una figura sottovalutata e sottoutilizzata. Ancor di più lo sono i comunicatori del rischio. In più la comunicazione del rischio è una disciplina giovane e queste figure professionali devono ancora essere formate. È difficile farlo in un contesto in cui mancano corsi di specializzazione strutturati e si compensa rivolgendosi all’estero o con esperienze conquistate sul campo. Uno dei problemi è quindi la mancanza di competenze specifiche e forse anche di una consapevolezza più diffusa della loro importanza. Alcune istituzioni, dopo essersi scontrate con il problema, ne hanno compreso l'utilità e si sono attrezzate. Queste competenze mancano soprattutto a livello locale. A livello nazionale c’è il Dipartimento della Protezione Civile, che è deputato alla comunicazione dell’emergenza. Il problema è che la Protezione Civile in Italia ha una sua storia specifica, in quanto è nata dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980. Per questo motivo, è stata pensata per portare soccorso in tempi rapidi, secondo un modello di intervento tarato sui terremoti e sulle alluvioni, ma è meno preparata a gestire crisi di lungo periodo. Ciò è in parte dovuto anche a una mancanza di risorse. Per cui non solo ci manca la cultura della prevenzione, ma anche gli strumenti con cui le istituzioni possano attuarla. Abbiamo costruito un sistema capace di intervenire quando il fatto è già avvenuto e per portare soccorso alle popolazioni colpite, non per agire sulla prevenzione. Questo vale anche per la comunicazione. I social media sono diventati da tempo un’arena privilegiata della comunicazione d’emergenza ed è cruciale che le istituzioni siano presenti. La Protezione Civile è sui social dalla primavera del 2018: occorre del tempo per costruire un rapporto di credibilità e fiducia con i follower, e bisogna farlo in tempo di pace. Se non hai già costruito tutto questo, le persone non ti verranno a cercare durante l’emergenza. È quindi un problema strutturale: le soluzioni sono in apparenza semplici, ma vanno inserite in un sistema che spesso non è in grado di integrarle. Ad oggi è difficile immaginare che ogni istituzione coinvolta nella gestione del rischio possa avere un comunicatore del rischio nello staff, ma potrebbe formare i suoi comunicatori istituzionali o affidarsi a figure specializzate esterne.
Nel caso di un’epidemia, quali sono le linee strategiche fondamentali per la costruzione di una buona comunicazione?
Come dicevo, la comunicazione del rischio è una disciplina piuttosto giovane: fino a dieci, quindici anni fa si ragionava per lo più sugli errori fatti in passato, cercando di non ripeterli. Da una quindicina d’anni esistono invece dei principi condivisi a livello internazionale che sono stati adottati anche da grandi istituzioni, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i CDC (Centers for Disease Control and Prevention) di Atlanta e la FEMA (Federal Emergency Management Agency) negli USA e molte altre. Oggi si può quindi contare su una serie di principi guida che, pur non essendo ricette, offrono indicazioni chiare sulla scelta delle strategie, dei messaggi più efficaci, e così via. Questi principi sono ormai consolidati, tanto che non mi pare che questa pandemia ci abbia insegnato qualcosa di radicalmente nuovo rispetto a quello che già sapevamo. Il problema è semmai conoscere questi principi e disporre delle professionalità per metterli in pratica.
Durante l’emergenza di COVID questi principi sono stati rispettati?
In alcuni casi no. Ad esempio, la regola più importante è che non bisogna mai sminuire il rischio nel tentativo di rassicurare la popolazione. Lo scopo della comunicazione non è rassicurare ma informare le persone su cosa fare per proteggersi. È successo anche in passato: per la gestione del terremoto dell’Aquila, l’allora vice capo della Protezione Civile è stato condannato per aver rassicurato in modo inappropriato la popolazione. Al contrario, nelle situazioni di emergenza è necessario che le persone siano in allerta (che non significa allarmate) affinché adottino comportamenti di auto-protezione: lavarsi le mani, fare attenzione al distanziamento sociale, ecc. Sembrano gesti semplici ma sono efficaci. Se però diciamo alle persone di non preoccuparsi troppo e che possono continuare a fare la vita di prima, è più difficile far rispettare le indicazioni. È la regola più importante a cui stare attenti: non sminuire mai il rischio. Altrimenti si crea dissonanza cognitiva e le persone non sanno più come comportarsi e a chi dare retta, con quel che ne consegue: perdita del senso di fiducia, disorientamento, eccetera. È quello che è successo a fine febbraio, proprio nel momento in cui l’epidemia in Italia stava esplodendo, quando diverse figure istituzionali hanno detto di riaprire tutto e di non esagerare: è stato un messaggio devastante, e non ci si può sorprendere se poi qualcuno nel weekend è andato a sciare. L’altro importante elemento che secondo me è mancato, dal punto di vista comunicativo, è la capacità delle diverse istituzioni coinvolte nella gestione del rischio di “parlare a una sola voce” per offrire un messaggio chiaro e coerente.
Da cosa dipende questa incoerenza nella comunicazione dell’emergenza?
L’incoerenza dei messaggi e le difficoltà nel gestire l'incertezza si amplificano se non c’è una guida chiara. Se manca un punto di riferimento, aumenterà lo spazio per altre voci; è quel che l’OMS ha chiamato infodemia. È un fenomeno in parte inevitabile e in parte legato a un vuoto comunicativo lasciato dalle istituzioni che favorisce il proliferare di altre voci. Queste voci possono appartenere a un esperto che sa cosa dice, a più esperti in contraddizione tra loro o, peggio ancora, a qualcuno che mette in giro cose non vere. Se si investisse di più nella comunicazione istituzionale, questo problema diventerebbe marginale durante l’emergenza.
Quali sono gli elementi fondamentali di una buona comunicazione dell’emergenza?
Secondo me ci sono tre aspetti principali. Innanzitutto, come anticipato, non bisogna mai sminuire il rischio, ma tenere alta la guardia delle persone attraverso una comunicazione trasparente. In secondo luogo, è importante un coordinamento tra le istituzioni per offrire ai cittadini messaggi chiari, verificati e coerenti. Terzo, è fondamentale ammettere le incertezze delle conoscenze disponibili, ovvero saper dire: «Siamo di fronte a un fenomeno nuovo, di cui non conosciamo tutto, ma in base a quel che sappiamo secondo noi è importante fare attenzione a questo e quest’altro, ma vi terremo sempre aggiornati sugli sviluppi della situazione». Talvolta le istituzioni e gli esperti non seguono questi principi per paura di pregiudicare la propria credibilità, ma gli studi smentiscono questi timori: al contrario, nel momento in cui si chiarisce cosa si sa e cosa non si sa, dimostrando onestà e trasparenza, si genera fiducia. È una cosa difficile: dal punto di vista comunicativo, ogni volta che si ammette un'incertezza si deve essere accorti, perché c’è differenza tra dire «non lo so» e «questo non lo sa ancora nessuno», oppure «non lo sappiamo ancora, ma stiamo studiando per capirlo, e non appena avremo maggiori informazioni le condivideremo con voi» o ancora «abbiamo comunque abbastanza elementi per dire che possiamo agire in questo modo». In ogni caso, l’incertezza non dovrebbe mai essere una scusa per non agire in base alle conoscenze disponibili. Nel caso della comunicazione del rischio, nelle situazioni di incertezza c’è una semplice regola: sbilanciarsi dalla parte della sicurezza. Rimandare una decisione spesso significa fare la scelta sbagliata. Non dobbiamo rimandare, ma imparare ad agire e comunicare in condizioni di incertezza. Mai negare quel che potrebbe accadere, ma fare in modo di essere pronti anche in quel caso. È anche un modo di dimostrare che si prende seriamente il rischio e che si sta facendo tutto il possibile per proteggere la vita e la sicurezza delle persone. Di certo, a livello culturale c’è ancora tantissimo da fare.
È possibile che, in queste situazioni di tensione e allarme, l’infodemia nasca anche perché le persone sentono un intenso bisogno di informazioni?
Sono assolutamente d’accordo. Nasce da un bisogno molto umano di colmare le nostre incertezze con informazioni che ci permettano di salvarci la vita. Lo dico spesso: la comunicazione del rischio probabilmente è nata intorno al fuoco quando qualcuno ha raccontato agli altri membri del clan come si è salvato da un incendio nella foresta o da una tigre coi denti a sciabola. Sapere cosa possiamo fare per proteggerci è un bisogno primario. Di fronte a un nuovo rischio, questo catalizza la nostra attenzione e l’unica cosa che possiamo fare è cercare informazioni. Mentre un tempo il problema era la mancanza di informazioni, oggi ne abbiamo in sovrabbondanza. Anche da parte della scienza stessa: ogni settimana vengono pubblicati migliaia di nuovi paper e può essere difficile riuscire a discernere fra cosa sia utile e cosa no. Perciò è vero, oggi abbiamo tanta informazione, ma non so se possiamo definirla "troppa". Da un lato secondo me dobbiamo esserne grati, dato che è il nostro grande vantaggio sul virus: possiamo scambiarci le informazioni e agire come collettività umana globale. Dall’altro, è chiaro che siamo di fronte a un problema nuovo che sarà interessante studiare: come riuscire a gestire, sia a livello personale sia a livello delle istituzioni, della comunità scientifica e dei mass media, questa sovrabbondanza di informazioni che durante un’emergenza diventa preponderante.
Il fatto che certi messaggi possano essere strumentalizzati può influire sulla difficoltà a rivelare gli elementi di debolezza, di incertezza o di fragilità del sistema o della conoscenza?
Sì. È un problema che non riguarda solo l’Italia. Accade spesso che, non appena finisce la fase più acuta dell’emergenza, inizi la politicizzazione del problema. Su questo non ho una soluzione, è un tema che andrebbe approfondito. Trovo difficile escludere la politica. D’altro canto si parla di figure politiche, quindi c’è sempre un momento in cui si passa da un ruolo di protezione della comunità a un altro ruolo con diverse prerogative. Questo viene amplificato dal fatto che queste figure non hanno nel loro staff esperti di comunicazione del rischio e dell’emergenza, ma si affidano a dei comunicatori politici. Sono circondati da persone che hanno una visione politica della comunicazione, quindi è ancora più facile cadere nella strumentalizzazione.
Quali sono stati secondo te gli esempi di buone pratiche? Dove sono state adottate, e quali figure le hanno attuate?
Per argomentare questo tipo di risposte ci sarebbe bisogno di buona ricerca, che in questo momento non so sia stata fatta. È molto più facile evidenziare gli errori che le gestioni efficaci. Posso dire, avendo letto un po’ di letteratura internazionale, che alcuni errori sono stati commessi quasi ovunque. Mentre gran parte del lavoro ben fatto resta invisibile: come talvolta si dice, magari esagerando un po’ ma di certo con un fondo di verità, la prevenzione efficace è un’emergenza che non si verifica. A volte questo problema può coinvolgere la scienza stessa, ad esempio quando alcuni modelli epidemiologici avevano previsto un elevato numero di morti che per fortuna poi non si sono verificati: ma quegli scenari si basavano sull’ipotesi che non venissero introdotte misure di contenimento dell’epidemia, mentre aver preso quelle misure, e magari proprio sulla spinta di quei terrificanti scenari previsionali, ha cambiato le cose. Quando le misure funzionano sembra che non sia successo niente, invece è spesso il frutto di qualcosa che è stato fatto; ma per riuscire a metterlo in evidenza servono analisi più approfondite.
A proposito della questione degli scienziati che litigano in TV, hai scritto che in Germania questi conflitti non hanno fatto diminuire la fiducia negli scienziati. In uno studio è stato osservato che le persone oggi si fidano ugualmente della scienza, ma un po’ meno degli scienziati. Secondo te, in Italia qual è stato l’impatto di queste controversie?
La mia personale impressione è che abbiano alimentato il disorientamento. C’è un problema di fondo: la scienza è fatta di dibattiti e controversie interne, talvolta anche spietate. La differenza è che normalmente queste si svolgono ai congressi o nelle riviste scientifiche, non su Facebook o in TV.
Ritieni che sarebbe meglio che la scienza mostrasse meno i propri conflitti interni in pubblico?
Senza teorie contrastanti non ci sarebbe scienza. La comunità scientifica passa attraverso le dispute per stabilire, almeno provvisoriamente, quel che chiamiamo consenso scientifico. Secondo me è questo il bello della scienza: è un’impresa collettiva che non si ferma alle opinioni e alle posizioni personali ma riesce a estrapolare indicazioni condivise e verificabili sui fenomeni. È un lavoro collettivo che passa attraverso un dibattito conflittuale, a cui non è estranea neppure la comunicazione della scienza. In fondo anche Galileo Galilei, quando scrisse la prima grande opera di divulgazione scientifica, il «Dialogo sui massimi sistemi», mise in scena un conflitto tra due teorie. Secondo me il dibattito è costitutivo sia della scienza, sia della comunicazione della scienza perché è un potente motore narrativo, capace di far appassionare il pubblico.
Poi c’è il conflitto fra discipline: ad esempio, i virologi hanno una visione del problema diversa dagli immunologi, dagli epidemiologi, dai clinici o dagli esperti di altri settori. In generale, non credo che mettere a nudo il modo in cui funziona la scienza sia un male. Essere consapevoli che la scienza è anche conflitto e dubbio è importante, e forse più veritiero di un’idea idealizzata di una scienza monolitica capace di offrire certezze inconfutabili. Certo, leggere gli insulti su Facebook o Twitter è un’altra cosa: quelli sono eccessi molto umani, in fondo ci ricordano che anche gli scienziati sono persone con virtù e difetti, talvolta non estranei alla vanità.
C’è chi ritiene che questo tipo di conflitti pubblici non sia scienza, ma si tratti semplicemente di persone che esprimono i loro pareri. Che cosa ne pensi?
È un’opinione legittima. È chiaro che uno scienziato che fa un’intervista in TV non sta facendo scienza in quel momento. Nei dibattiti pubblici possiamo osservare delle dinamiche tra esperti che normalmente avvenivano altrove ma che secondo me oggi fanno parte integrante del fare scienza. Finora avevamo visto gli scienziati discutere con i non esperti sui social, ma ora discutono anche fra di loro, talvolta accanitamente, e da queste discussioni emergono posizioni importanti. Quindi secondo me anche questo, a suo modo, è scienza. Quel che prima avveniva a un congresso o nel processo di peer review con uno scambio di lettere o di email, oggi può avvenire con uno scambio di tweet, in altre forme, spazi e luoghi. Decine di scienziati a volte discutono tra loro sulla fondatezza di una ricerca, e oggi tutto questo è visibile perché avviene in uno spazio pubblico in cui anche i non esperti possono osservare il processo, e magari addirittura intervenire. Secondo me questo è fare scienza in uno spazio diverso, quello pubblico.
Nelle comunicazioni di questa pandemia di COVID è stata attribuita molta importanza ai dati e ai numeri. Questa attenzione è caratteristica della comunicazione del rischio o è stata accidentale?
Penso che i numeri piacciano molto sia agli scienziati sia ai non esperti, anche a chi non ha gli strumenti per comprenderne il significato, perché danno un senso di controllo. Con l’analisi del rischio si è iniziato a calcolare le probabilità che qualcosa andasse storto e a quantificare i possibili danni. Quel numeretto che permette di prendere l’incertezza e portarla in un campo di probabilità è spesso un feticcio. Lo abbiamo coltivato per lungo tempo, poi ci siamo accorti che in molti casi l’incertezza è talmente grande che quel numero perde ogni significato. Non vale solo per le epidemie, è un fenomeno presente anche in economia, ad esempio quando si cerca di prevedere la variazione del PIL a lungo termine. Il numero culla l’idea di avere controllo sulle cose, per cui conto quante persone ogni giorno si ammalano, quante guariscono: questo è il motivo per cui non si riesce più a smettere, altrimenti si ha l’impressione di non avere più controllo. I numeri hanno un potere in parte illusorio, in parte sono un’espressione della nostra potenza scientifica: affrontiamo problemi che non potremmo affrontare senza le conoscenze attuali, questo non va dimenticato. Comunicare le probabilità però serve a poco. Se l’obiettivo è salvare vite, divulgare le statistiche sulle alluvioni può risultare meno utile rispetto ad andare a casa delle persone e avvertirle che, in caso di piogge intense, in meno di un’ora l’acqua arriverà a una certa altezza, sommergendo quel che si trova più in basso: nel momento in cui la persona vede l’acqua, non ha semplicemente un’informazione, ma inizia a pensare ad agire. Non ha bisogno di un’infinità di numeri, ma di uno solo: l’altezza a cui arriverà l’acqua. Sono un fisico di formazione e amo i numeri, ma occorre sempre spiegare bene alle persone cosa vogliono dire, il che richiede uno sforzo. Il mio è un punto di vista molto pratico, da comunicatore del rischio che lavora sui territori con l’obiettivo di convincere le persone e le istituzioni ad agire per salvare vite. La conoscenza, da sola, spesso non basta; purtroppo non c’è un legame diretto tra sapere e agire: servono strategie più sofisticate che devono stimolare anche aspetti emotivi e raramente passano attraverso le statistiche. Sono essenziali soprattutto nella prevenzione che, se ben fatta, in caso di emergenza può fare la differenza fra la vita e la morte.
Farei un ulteriore passo indietro. Secondo me le cose che hanno pesato più di tutte sono due: la prima è il fatto che non sia stata pianificata la gestione dell’emergenza, e di conseguenza neanche la comunicazione durante l’emergenza. Per poter funzionare, la gestione dell’emergenza ha bisogno di essere preparata in tempo di pace, e questo vale anche per le attività di comunicazione. Nel momento in cui si delineano gli scenari di rischio pandemico e si pianificano le risposte, queste devono riguardare non solo come attrezzare gli ospedali o produrre le mascherine, ma anche cosa è importante comunicare, attraverso quali canali dedicati, verso quali pubblici, con quali strumenti, e così via. Insomma, occorre predisporre un piano di comunicazione, che oggi non può prescindere dal web e dai social media, da uno staff di comunicazione appositamente formato, con specifici obiettivi e funzioni. Tutto questo è evidentemente mancato. Quando si lavora bene in tempo di pace si possono predisporre in anticipo le strategie comunicative, i messaggi e i materiali per rispondere ai diversi possibili scenari di rischio. Nella mia esperienza personale, suggerisco sempre di preparare una cartella chiamata «reactive communication» che, nel momento del bisogno, contiene materiali comunicativi già pronti all’uso. Certo, questi materiali dovranno poi essere adattati alla situazione reale perché non si può mai prevedere tutto, ma costituiscono un punto di partenza estremamente utile, anche perché le stesse persone incaricate della gestione dell’emergenza, in quei momenti drammatici, potrebbero essere soggette a grandi pressioni o essere loro stesse esposte al rischio. Pianificare la risposta comunicativa permette di reagire in modo più rapido, strutturato e con un livello di preparazione che secondo me in questa pandemia è mancato.
Questa fase di preparazione della comunicazione è mancata perché il piano sull’epidemia esisteva già ma non prevedeva la parte di comunicazione, oppure perché il piano in sé era formale ma non sostanziale?
Faccio un esempio. La Corea del Sud aveva un piano pandemico dal 2003, formulato sull’esperienza della SARS. Questo piano includeva tutto, dalla reperibilità delle mascherine, al sistema di contact tracing, alla comunicazione. Lo scorso dicembre è stata fatta un’esercitazione per vedere se il piano funzionava. Ecco perché la Corea del Sud si è dimostrata pronta nel momento dell’emergenza. Un piano deve essere operativo, altrimenti è inutile. Significa anche costituire l’unità di crisi in tempo di pace e formare le persone che dovranno comunicare il rischio al pubblico, perché spesso i portavoce non sono comunicatori di professione, bensì esperti, politici, dirigenti, amministratori. Cioè figure di vertice con competenze tecniche o gestionali che devono essere formate attraverso un media training per comunicare il rischio in modo efficace nelle diverse situazioni, si tratti di un'intervista in TV, alla radio, per i giornali o dell’interazione sui social. Oltre ad avere uno staff, occorre infatti avere un portavoce affidabile che personifichi l’istituzione deputata a gestire l’emergenza. Quando ho lavorato con l’Università dell’Aquila sulla comunicazione del rischio sismico a seguito del terremoto del 2009, dopo aver formato l’unità di crisi e pianificato le risposte ai diversi possibili scenari di rischio, abbiamo testato il piano di emergenza con una simulazione a sorpresa. Se durante la simulazione noti delle lacune, puoi rimediare; se invece te ne accorgi nel momento dell’emergenza, è un disastro: agirai in ritardo, inseguendo gli eventi, con tutte le conseguenze del caso. Se non sono le istituzioni a comunicare per prime e a fornire le informazioni più aggiornate, lo farà qualcun altro. La preparazione serve a occupare il centro della scena comunicativa, fornendo ai cittadini informazioni attendibili e verificate.
Quando si racconta, la cosa sembra eclatante: ci si meraviglia che qualcuno possa improvvisare questo genere di situazioni, soprattutto se drammatiche. La scarsa capacità progettuale è dovuta a una mancanza di cultura sulla comunicazione, o a un’instabilità data dal fatto che chi lavora nelle istituzioni transita e cambia?
È un insieme di fattori. C’è sicuramente il fatto che mancano figure professionali di questo tipo nella gran parte delle istituzioni. Lo stesso comunicatore della scienza è ancora una figura sottovalutata e sottoutilizzata. Ancor di più lo sono i comunicatori del rischio. In più la comunicazione del rischio è una disciplina giovane e queste figure professionali devono ancora essere formate. È difficile farlo in un contesto in cui mancano corsi di specializzazione strutturati e si compensa rivolgendosi all’estero o con esperienze conquistate sul campo. Uno dei problemi è quindi la mancanza di competenze specifiche e forse anche di una consapevolezza più diffusa della loro importanza. Alcune istituzioni, dopo essersi scontrate con il problema, ne hanno compreso l'utilità e si sono attrezzate. Queste competenze mancano soprattutto a livello locale. A livello nazionale c’è il Dipartimento della Protezione Civile, che è deputato alla comunicazione dell’emergenza. Il problema è che la Protezione Civile in Italia ha una sua storia specifica, in quanto è nata dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980. Per questo motivo, è stata pensata per portare soccorso in tempi rapidi, secondo un modello di intervento tarato sui terremoti e sulle alluvioni, ma è meno preparata a gestire crisi di lungo periodo. Ciò è in parte dovuto anche a una mancanza di risorse. Per cui non solo ci manca la cultura della prevenzione, ma anche gli strumenti con cui le istituzioni possano attuarla. Abbiamo costruito un sistema capace di intervenire quando il fatto è già avvenuto e per portare soccorso alle popolazioni colpite, non per agire sulla prevenzione. Questo vale anche per la comunicazione. I social media sono diventati da tempo un’arena privilegiata della comunicazione d’emergenza ed è cruciale che le istituzioni siano presenti. La Protezione Civile è sui social dalla primavera del 2018: occorre del tempo per costruire un rapporto di credibilità e fiducia con i follower, e bisogna farlo in tempo di pace. Se non hai già costruito tutto questo, le persone non ti verranno a cercare durante l’emergenza. È quindi un problema strutturale: le soluzioni sono in apparenza semplici, ma vanno inserite in un sistema che spesso non è in grado di integrarle. Ad oggi è difficile immaginare che ogni istituzione coinvolta nella gestione del rischio possa avere un comunicatore del rischio nello staff, ma potrebbe formare i suoi comunicatori istituzionali o affidarsi a figure specializzate esterne.
Nel caso di un’epidemia, quali sono le linee strategiche fondamentali per la costruzione di una buona comunicazione?
Come dicevo, la comunicazione del rischio è una disciplina piuttosto giovane: fino a dieci, quindici anni fa si ragionava per lo più sugli errori fatti in passato, cercando di non ripeterli. Da una quindicina d’anni esistono invece dei principi condivisi a livello internazionale che sono stati adottati anche da grandi istituzioni, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i CDC (Centers for Disease Control and Prevention) di Atlanta e la FEMA (Federal Emergency Management Agency) negli USA e molte altre. Oggi si può quindi contare su una serie di principi guida che, pur non essendo ricette, offrono indicazioni chiare sulla scelta delle strategie, dei messaggi più efficaci, e così via. Questi principi sono ormai consolidati, tanto che non mi pare che questa pandemia ci abbia insegnato qualcosa di radicalmente nuovo rispetto a quello che già sapevamo. Il problema è semmai conoscere questi principi e disporre delle professionalità per metterli in pratica.
Durante l’emergenza di COVID questi principi sono stati rispettati?
In alcuni casi no. Ad esempio, la regola più importante è che non bisogna mai sminuire il rischio nel tentativo di rassicurare la popolazione. Lo scopo della comunicazione non è rassicurare ma informare le persone su cosa fare per proteggersi. È successo anche in passato: per la gestione del terremoto dell’Aquila, l’allora vice capo della Protezione Civile è stato condannato per aver rassicurato in modo inappropriato la popolazione. Al contrario, nelle situazioni di emergenza è necessario che le persone siano in allerta (che non significa allarmate) affinché adottino comportamenti di auto-protezione: lavarsi le mani, fare attenzione al distanziamento sociale, ecc. Sembrano gesti semplici ma sono efficaci. Se però diciamo alle persone di non preoccuparsi troppo e che possono continuare a fare la vita di prima, è più difficile far rispettare le indicazioni. È la regola più importante a cui stare attenti: non sminuire mai il rischio. Altrimenti si crea dissonanza cognitiva e le persone non sanno più come comportarsi e a chi dare retta, con quel che ne consegue: perdita del senso di fiducia, disorientamento, eccetera. È quello che è successo a fine febbraio, proprio nel momento in cui l’epidemia in Italia stava esplodendo, quando diverse figure istituzionali hanno detto di riaprire tutto e di non esagerare: è stato un messaggio devastante, e non ci si può sorprendere se poi qualcuno nel weekend è andato a sciare. L’altro importante elemento che secondo me è mancato, dal punto di vista comunicativo, è la capacità delle diverse istituzioni coinvolte nella gestione del rischio di “parlare a una sola voce” per offrire un messaggio chiaro e coerente.
Da cosa dipende questa incoerenza nella comunicazione dell’emergenza?
L’incoerenza dei messaggi e le difficoltà nel gestire l'incertezza si amplificano se non c’è una guida chiara. Se manca un punto di riferimento, aumenterà lo spazio per altre voci; è quel che l’OMS ha chiamato infodemia. È un fenomeno in parte inevitabile e in parte legato a un vuoto comunicativo lasciato dalle istituzioni che favorisce il proliferare di altre voci. Queste voci possono appartenere a un esperto che sa cosa dice, a più esperti in contraddizione tra loro o, peggio ancora, a qualcuno che mette in giro cose non vere. Se si investisse di più nella comunicazione istituzionale, questo problema diventerebbe marginale durante l’emergenza.
Quali sono gli elementi fondamentali di una buona comunicazione dell’emergenza?
Secondo me ci sono tre aspetti principali. Innanzitutto, come anticipato, non bisogna mai sminuire il rischio, ma tenere alta la guardia delle persone attraverso una comunicazione trasparente. In secondo luogo, è importante un coordinamento tra le istituzioni per offrire ai cittadini messaggi chiari, verificati e coerenti. Terzo, è fondamentale ammettere le incertezze delle conoscenze disponibili, ovvero saper dire: «Siamo di fronte a un fenomeno nuovo, di cui non conosciamo tutto, ma in base a quel che sappiamo secondo noi è importante fare attenzione a questo e quest’altro, ma vi terremo sempre aggiornati sugli sviluppi della situazione». Talvolta le istituzioni e gli esperti non seguono questi principi per paura di pregiudicare la propria credibilità, ma gli studi smentiscono questi timori: al contrario, nel momento in cui si chiarisce cosa si sa e cosa non si sa, dimostrando onestà e trasparenza, si genera fiducia. È una cosa difficile: dal punto di vista comunicativo, ogni volta che si ammette un'incertezza si deve essere accorti, perché c’è differenza tra dire «non lo so» e «questo non lo sa ancora nessuno», oppure «non lo sappiamo ancora, ma stiamo studiando per capirlo, e non appena avremo maggiori informazioni le condivideremo con voi» o ancora «abbiamo comunque abbastanza elementi per dire che possiamo agire in questo modo». In ogni caso, l’incertezza non dovrebbe mai essere una scusa per non agire in base alle conoscenze disponibili. Nel caso della comunicazione del rischio, nelle situazioni di incertezza c’è una semplice regola: sbilanciarsi dalla parte della sicurezza. Rimandare una decisione spesso significa fare la scelta sbagliata. Non dobbiamo rimandare, ma imparare ad agire e comunicare in condizioni di incertezza. Mai negare quel che potrebbe accadere, ma fare in modo di essere pronti anche in quel caso. È anche un modo di dimostrare che si prende seriamente il rischio e che si sta facendo tutto il possibile per proteggere la vita e la sicurezza delle persone. Di certo, a livello culturale c’è ancora tantissimo da fare.
È possibile che, in queste situazioni di tensione e allarme, l’infodemia nasca anche perché le persone sentono un intenso bisogno di informazioni?
Sono assolutamente d’accordo. Nasce da un bisogno molto umano di colmare le nostre incertezze con informazioni che ci permettano di salvarci la vita. Lo dico spesso: la comunicazione del rischio probabilmente è nata intorno al fuoco quando qualcuno ha raccontato agli altri membri del clan come si è salvato da un incendio nella foresta o da una tigre coi denti a sciabola. Sapere cosa possiamo fare per proteggerci è un bisogno primario. Di fronte a un nuovo rischio, questo catalizza la nostra attenzione e l’unica cosa che possiamo fare è cercare informazioni. Mentre un tempo il problema era la mancanza di informazioni, oggi ne abbiamo in sovrabbondanza. Anche da parte della scienza stessa: ogni settimana vengono pubblicati migliaia di nuovi paper e può essere difficile riuscire a discernere fra cosa sia utile e cosa no. Perciò è vero, oggi abbiamo tanta informazione, ma non so se possiamo definirla "troppa". Da un lato secondo me dobbiamo esserne grati, dato che è il nostro grande vantaggio sul virus: possiamo scambiarci le informazioni e agire come collettività umana globale. Dall’altro, è chiaro che siamo di fronte a un problema nuovo che sarà interessante studiare: come riuscire a gestire, sia a livello personale sia a livello delle istituzioni, della comunità scientifica e dei mass media, questa sovrabbondanza di informazioni che durante un’emergenza diventa preponderante.
Il fatto che certi messaggi possano essere strumentalizzati può influire sulla difficoltà a rivelare gli elementi di debolezza, di incertezza o di fragilità del sistema o della conoscenza?
Sì. È un problema che non riguarda solo l’Italia. Accade spesso che, non appena finisce la fase più acuta dell’emergenza, inizi la politicizzazione del problema. Su questo non ho una soluzione, è un tema che andrebbe approfondito. Trovo difficile escludere la politica. D’altro canto si parla di figure politiche, quindi c’è sempre un momento in cui si passa da un ruolo di protezione della comunità a un altro ruolo con diverse prerogative. Questo viene amplificato dal fatto che queste figure non hanno nel loro staff esperti di comunicazione del rischio e dell’emergenza, ma si affidano a dei comunicatori politici. Sono circondati da persone che hanno una visione politica della comunicazione, quindi è ancora più facile cadere nella strumentalizzazione.
Quali sono stati secondo te gli esempi di buone pratiche? Dove sono state adottate, e quali figure le hanno attuate?
Per argomentare questo tipo di risposte ci sarebbe bisogno di buona ricerca, che in questo momento non so sia stata fatta. È molto più facile evidenziare gli errori che le gestioni efficaci. Posso dire, avendo letto un po’ di letteratura internazionale, che alcuni errori sono stati commessi quasi ovunque. Mentre gran parte del lavoro ben fatto resta invisibile: come talvolta si dice, magari esagerando un po’ ma di certo con un fondo di verità, la prevenzione efficace è un’emergenza che non si verifica. A volte questo problema può coinvolgere la scienza stessa, ad esempio quando alcuni modelli epidemiologici avevano previsto un elevato numero di morti che per fortuna poi non si sono verificati: ma quegli scenari si basavano sull’ipotesi che non venissero introdotte misure di contenimento dell’epidemia, mentre aver preso quelle misure, e magari proprio sulla spinta di quei terrificanti scenari previsionali, ha cambiato le cose. Quando le misure funzionano sembra che non sia successo niente, invece è spesso il frutto di qualcosa che è stato fatto; ma per riuscire a metterlo in evidenza servono analisi più approfondite.
A proposito della questione degli scienziati che litigano in TV, hai scritto che in Germania questi conflitti non hanno fatto diminuire la fiducia negli scienziati. In uno studio è stato osservato che le persone oggi si fidano ugualmente della scienza, ma un po’ meno degli scienziati. Secondo te, in Italia qual è stato l’impatto di queste controversie?
La mia personale impressione è che abbiano alimentato il disorientamento. C’è un problema di fondo: la scienza è fatta di dibattiti e controversie interne, talvolta anche spietate. La differenza è che normalmente queste si svolgono ai congressi o nelle riviste scientifiche, non su Facebook o in TV.
Ritieni che sarebbe meglio che la scienza mostrasse meno i propri conflitti interni in pubblico?
Senza teorie contrastanti non ci sarebbe scienza. La comunità scientifica passa attraverso le dispute per stabilire, almeno provvisoriamente, quel che chiamiamo consenso scientifico. Secondo me è questo il bello della scienza: è un’impresa collettiva che non si ferma alle opinioni e alle posizioni personali ma riesce a estrapolare indicazioni condivise e verificabili sui fenomeni. È un lavoro collettivo che passa attraverso un dibattito conflittuale, a cui non è estranea neppure la comunicazione della scienza. In fondo anche Galileo Galilei, quando scrisse la prima grande opera di divulgazione scientifica, il «Dialogo sui massimi sistemi», mise in scena un conflitto tra due teorie. Secondo me il dibattito è costitutivo sia della scienza, sia della comunicazione della scienza perché è un potente motore narrativo, capace di far appassionare il pubblico.
Poi c’è il conflitto fra discipline: ad esempio, i virologi hanno una visione del problema diversa dagli immunologi, dagli epidemiologi, dai clinici o dagli esperti di altri settori. In generale, non credo che mettere a nudo il modo in cui funziona la scienza sia un male. Essere consapevoli che la scienza è anche conflitto e dubbio è importante, e forse più veritiero di un’idea idealizzata di una scienza monolitica capace di offrire certezze inconfutabili. Certo, leggere gli insulti su Facebook o Twitter è un’altra cosa: quelli sono eccessi molto umani, in fondo ci ricordano che anche gli scienziati sono persone con virtù e difetti, talvolta non estranei alla vanità.
C’è chi ritiene che questo tipo di conflitti pubblici non sia scienza, ma si tratti semplicemente di persone che esprimono i loro pareri. Che cosa ne pensi?
È un’opinione legittima. È chiaro che uno scienziato che fa un’intervista in TV non sta facendo scienza in quel momento. Nei dibattiti pubblici possiamo osservare delle dinamiche tra esperti che normalmente avvenivano altrove ma che secondo me oggi fanno parte integrante del fare scienza. Finora avevamo visto gli scienziati discutere con i non esperti sui social, ma ora discutono anche fra di loro, talvolta accanitamente, e da queste discussioni emergono posizioni importanti. Quindi secondo me anche questo, a suo modo, è scienza. Quel che prima avveniva a un congresso o nel processo di peer review con uno scambio di lettere o di email, oggi può avvenire con uno scambio di tweet, in altre forme, spazi e luoghi. Decine di scienziati a volte discutono tra loro sulla fondatezza di una ricerca, e oggi tutto questo è visibile perché avviene in uno spazio pubblico in cui anche i non esperti possono osservare il processo, e magari addirittura intervenire. Secondo me questo è fare scienza in uno spazio diverso, quello pubblico.
Nelle comunicazioni di questa pandemia di COVID è stata attribuita molta importanza ai dati e ai numeri. Questa attenzione è caratteristica della comunicazione del rischio o è stata accidentale?
Penso che i numeri piacciano molto sia agli scienziati sia ai non esperti, anche a chi non ha gli strumenti per comprenderne il significato, perché danno un senso di controllo. Con l’analisi del rischio si è iniziato a calcolare le probabilità che qualcosa andasse storto e a quantificare i possibili danni. Quel numeretto che permette di prendere l’incertezza e portarla in un campo di probabilità è spesso un feticcio. Lo abbiamo coltivato per lungo tempo, poi ci siamo accorti che in molti casi l’incertezza è talmente grande che quel numero perde ogni significato. Non vale solo per le epidemie, è un fenomeno presente anche in economia, ad esempio quando si cerca di prevedere la variazione del PIL a lungo termine. Il numero culla l’idea di avere controllo sulle cose, per cui conto quante persone ogni giorno si ammalano, quante guariscono: questo è il motivo per cui non si riesce più a smettere, altrimenti si ha l’impressione di non avere più controllo. I numeri hanno un potere in parte illusorio, in parte sono un’espressione della nostra potenza scientifica: affrontiamo problemi che non potremmo affrontare senza le conoscenze attuali, questo non va dimenticato. Comunicare le probabilità però serve a poco. Se l’obiettivo è salvare vite, divulgare le statistiche sulle alluvioni può risultare meno utile rispetto ad andare a casa delle persone e avvertirle che, in caso di piogge intense, in meno di un’ora l’acqua arriverà a una certa altezza, sommergendo quel che si trova più in basso: nel momento in cui la persona vede l’acqua, non ha semplicemente un’informazione, ma inizia a pensare ad agire. Non ha bisogno di un’infinità di numeri, ma di uno solo: l’altezza a cui arriverà l’acqua. Sono un fisico di formazione e amo i numeri, ma occorre sempre spiegare bene alle persone cosa vogliono dire, il che richiede uno sforzo. Il mio è un punto di vista molto pratico, da comunicatore del rischio che lavora sui territori con l’obiettivo di convincere le persone e le istituzioni ad agire per salvare vite. La conoscenza, da sola, spesso non basta; purtroppo non c’è un legame diretto tra sapere e agire: servono strategie più sofisticate che devono stimolare anche aspetti emotivi e raramente passano attraverso le statistiche. Sono essenziali soprattutto nella prevenzione che, se ben fatta, in caso di emergenza può fare la differenza fra la vita e la morte.