In questo periodo di intensa comunicazione dell’emergenza COVID, ritieni che siano stati fatti dei passi avanti nel contrasto alle fake news?
La Commissione Anti-Fake News di cui faccio parte ha recentemente diffuso un documento in cui viene evidenziata l’importanza dei bias di conferma (NdR: 1 ). Siamo riusciti a far passare il messaggio che un elemento fondamentale della disinformazione non è solo chi la fa, ma come e perché ci si crede. È stata inoltre approvata l’idea di fare una campagna di informazione incentrata sul riconoscimento delle fake news non solo sulla base delle fonti da cui le notizie provengono o di altri criteri, ma anche di quanto queste notizie ci piacciano e vadano a favorire i nostri pregiudizi. Credo che questo approccio richieda più tempo, ma sia molto più efficace rispetto a qualunque forma di censura o controllo.
Recentemente, proprio un articolo che avevi condiviso sulla tua pagina Facebook è stato segnalato come fake news. Com’è accaduto?
Avevo condiviso un articolo della CNBC in cui si raccontava di come Maria Van Kerkhove, nella conferenza stampa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva messo in dubbio che il contagio da parte degli asintomatici fosse fondamentale. O meglio, aveva sottolineato come sia ancora incerto, non che possa accadere – questo è fuori discussione – ma il peso che il fenomeno può avere in termini di diffusione della pandemia. L’OMS ha sempre detto che non abbiamo ancora prove solide su questo punto e Kerkhova ha ribadito che ci sono studi in corso. Nel mio post ho ragionato a partire da quella notizia iniziale, ma il contenuto dell’articolo è apparso ai miei lettori coperto di grigio, con una scritta che ne denunciava la “bassa attendibilità”, accompagnato da un messaggio che lo indicava come disinformazione. Il problema non era il mio post, ma la notizia iniziale, “bollata” come poco attendibile dalla squadra di fact checker incaricata da Facebook di controllare quanto viene pubblicato negli Stati Uniti. In Italia se ne occupa «Pagella Politica» di Giovanni Zagni, che fa parte come me dell’Unità Anti Fake News; all’estero ci sono altre società pagate per farlo. Zagni mi ha detto che in Italia si usano criteri diversi e che sicuramente è stato un errore: la notizia non andava flaggata in quel modo. Ho mandato una mail, scrivendo che ero un membro dell’Unità Anti Fake News del Governo italiano e che la mia reputazione rischiava di venire compromessa da una vicenda del genere. Per fortuna, la segnalazione è stata subito rimossa, ma dopo due o tre episodi simili, Facebook riduce la visibilità dei tuoi post. La ritengo una forma di censura gravissima effettuata sulla base del parere di poche persone.
Quindi in questo caso non è stato un algoritmo, ma proprio qualcuno che l’ha letto.
Non so se agiscano dopo una prima selezione effettuata da un algoritmo, ma sono squadre di fact checkers che leggono e valutano le notizie, consultando degli esperti e dando un punteggio: totalmente falso, parzialmente falso, misto, cioè contenente cose false e vere, eccetera. Io sono sempre stata contraria a tutti questi meccanismi: alla fine, per la maggior parte delle notizie, è difficile affermare in assoluto cosa sia vero e cosa sia falso, tanto più in una situazione come questa, caratterizzata dall’incertezza. Ricordo che nei primi mesi, quando mi chiedevano dei pareri sulle fake news, una tra le poche voci che indicavamo come sicuramente falsa era quella secondo cui anche i gatti si ammalavano. Spiegavamo infatti che il coronavirus felino era diverso. In realtà si è poi scoperto che anche questi animali possono contrarre il virus umano. E non solo loro: in Olanda interi allevamenti di visoni sono stati colpiti e anche alcuni gatti che passavano da un allevamento all’altro sono risultati positivi. Qualcuno ha avanzato il sospetto che siano stati loro a trasmettere il virus. Non lo sappiamo, ma non mi stupirei se tra qualche mese venisse fuori che anche i gatti hanno contribuito alla diffusione. Oppure verrà escluso. La conoscenza va avanti a piccoli passi. Questo approccio vale anche per l’ipotesi del virus creato in laboratorio: all’inizio dicevo che era altamente improbabile, ma non si poteva escludere, perché i virus in laboratorio si fanno per tante ragioni di studio, anche creandone di più aggressivi. Ora ci sono tutti i dati per affermare che SARS-Cov-2 è emerso naturalmente, anche in base all’analisi del suo genoma. È difficile marchiare le affermazioni come «vere» o «false». In generale sono poche le cose a tinte nette. Più spesso ci sono sfumature, che io non riesco a ignorare. Certo, su alcune credenze, come quelle di chi sostiene che la terra sia piatta, occorrerebbero prove veramente forti per contraddire le evidenze ma, a parte questo, il bello della scienza sono i dubbi, le domande. Per sottolineare questo aspetto ho accettato di far parte dell’Unità Anti Fake News insieme con Fabiana Zollo, con cui collaboro a Ca’ Foscari in un progetto europeo sulla comunicazione della scienza (QUEST). Siamo entrambe combattive nel difendere questo approccio, ma ad essere onesti, nelle discussioni che abbiamo fatto nel gruppo, nessuno ha mai manifestato posizioni diverse. C'era anche David Puente, che, pur essendo un debunker, si è sempre trovato d’accordo con noi.
La commissione ha analizzato cosa stava succedendo in questi mesi per poi identificare degli obiettivi precisi?
Sì, l’obiettivo era di costruire policy per il futuro. Nel documento abbiamo suggerito alcune azioni concrete. Dato che si crea confusione tra i vari siti dell’Istituto Superiore di Sanità, quello del Ministero e quelli delle Regioni, abbiamo per esempio invitato a creare un unico portale dove i cittadini possano trovare FAQ semplici e chiare, con la possibilità di trasmettere queste notizie anche attraverso canali diversi. C’è una fascia della popolazione che non andrà mai sul sito del Ministero a cercare le domande, quindi io ho proposto di fare brevi video su YouTube con una risposta semplice ai dubbi più frequenti, con la possibilità di condividerli sui social. L’obiettivo è quindi quello di facilitare l’accesso a un’informazione fondata su dati scientifici, non bloccare quella che non lo è.
Alla diffusione delle fake news collaborano tante figure diverse; quali avete identificato e cosa proponete di fare ?
Occorre distinguere chi diffonde disinformazione volontariamente, per scopi politici, economici, di propaganda (in inglese “disinformation”), dai problemi legati al sistema informativo, con giornalisti che spesso alimentano la confusione con titoli a effetto ed eccessive semplificazioni (“misinformation”). C’è poi la “malinformation”, in cui notizie vere sono presentate in modo strumentale. Nell’insieme si parla oggi più correttamente di “information disorder”. Per affrontarlo, al di là delle fonti, con la task force spero che siamo riusciti a far passare il messaggio secondo cui abbiamo problemi anche sul fronte del ricevente. Siamo riusciti a introdurre questo elemento non solo in termini di media literacy, cioè di capacità di interpretare, ma anche di approccio psicologico, nel senso di capire quali sono le nostre tendenze a credere a certe storie piuttosto che ad altre. È stata approvata l’idea di una campagna che aiuti i cittadini a capire quali sono gli errori che facciamo nell’interpretare le notizie, proprio per come ci poniamo nei loro confronti. Mi sembra una rivoluzione interessante, anche se passata sottotono e non ben spiegata nei pochi articoli che hanno riferito del nostro lavoro. Non conosco iniziative simili, neanche all’estero, per cui considero la nostra una conquista importante.
Avete valutato la possibilità di condurre sperimentazioni pilota all’interno di contesti di tipo educativo?
So che ci sono già alcune iniziative a livello scolastico, per esempio da parte di Fondazione AIRC. In questa prima fase del nostro incarico, che durerà 12 mesi, abbiamo pensato più a iniziative rivolte a giornalisti e comunicatori, individuandoli come uno snodo prioritario. La nostra missione è limitata all’emergenza COVID, quindi siamo chiamati ad agire sull'oggi più che sulle competenze future, anche se la campagna di cui ho parlato è il risultato di una visione che guarda al di là dell’effetto immediato.
A proposito del venir meno dell’intermediazione giornalistica nel rapporto diretto fra scienziati, è possibile fare un parallelismo con la politica? Così come in politica si tende a saltare l’intermediazione giornalistica fra il politico e il suo elettorato, qui salta l’intermediazione fra gli scienziati e l’opinione pubblica.
Quello della disintermediazione è un grande tema dei social network e di internet, in termini “ascendenti”: tramite Google il cittadino può accedere a qualunque informazione senza l’intermediazione da parte dell’esperto. Vale però anche in senso “discendente”: gli scienziati oggi parlano direttamente al pubblico, senza l’intermediazione di un giornalista o di un comunicatore. Nelle trasmissioni televisive o sui quotidiani i giornalisti per lo più fanno da semplici portavoce. Nonostante la natura eminentemente “scientifica” della situazione, i giornalisti scientifici hanno trovato pochissimo spazio. Io sono stata intervistata in televisione alcune volte, ma sempre in qualità di “esperta”, per la mia laurea in medicina e per aver lavorato su questi temi. Mi hanno chiamato un po’ per cercare di riequilibrare il pesante gender gap di quelle trasmissioni, un po’ forse perché spiegavo le cose in modo più facile, ma solo in rare occasioni ho potuto rivolgere domande scomode a medici e ricercatori. Tanto meno definire la scaletta di un programma. Per questo servono competenze specifiche. Occorre conoscere il contesto per aiutare a fare chiarezza. È assurdo che in un’occasione in cui la scienza ha riempito tutti i media ed è stata l’argomento principale per mesi, i giornalisti scientifici, tranne rare eccezioni, siano stati tenuti in disparte. Sarebbe come avere le Olimpiadi coperte solo da giornalisti economici.
Secondo te a cosa sono dovuti questi problemi nella comunicazione?
Per come la vedo io, il problema fondamentale in questa crisi è stata la difficoltà di comunicare l’incertezza, che è tipica della scienza, ma lo è ancora di più davanti a un virus sconosciuto. Su questo ho insistito, nel mio piccolo, sin dal primo giorno. Bisogna sempre parlare al condizionale e aggiungere che parliamo per quello che sappiamo oggi, ma consapevoli del fatto che nel futuro potrebbero uscire studi che smentiscono le affermazioni di oggi. Questa trasparenza a mio parere non compromette, ma accresce, la fiducia. Invece alcuni, e penso a certi accademici in particolare, forse per timore di sentirsi sminuiti, tendono a comunicare certezze anche quando certezze non ci sono, passando al pubblico le loro opinioni come se fossero dati confermati.
Questo deriva anche da una carenza di familiarità con la scienza e con il metodo scientifico, col vero senso della scienza, da parte non solo dei cittadini ma anche da parte della classe medica italiana. Non dimentichiamo che le bufale sui vaccini sono state ampiamente sostenute da medici. Ancora oggi, dopo anni di campagne di informazione a tutti i livelli, si trovano pediatri che consigliano di evitare di fare subito certe vaccinazioni perché indebolirebbero il sistema immunitario, o ginecologi che sconsigliano il vaccino per l’HPV. Oltre a «disintermediazione» e «incertezza», poi, l’altra parola chiave è «complessità». Nel caso del COVID le competenze mediche coinvolte sono molte, e a queste si aggiungono quelle di virologi, epidemiologi, modellisti matematici, economisti, psicologi sociali, sociologi, esperti di comunicazione e di molti altri campi: il fenomeno richiede un approccio multidisciplinare. Per questo ritengo che l’OMS, che racchiude tutte queste competenze, riesca a gestire meglio la situazione. Invece alcuni nostri scienziati cosa fanno? Il virologo va in televisione e parla della sequenza genetica del virus, e da lì trae conclusioni su tutto il panorama; l’infettivologo parla da infettivologo; il clinico ha la rianimazione vuota e non vede più il problema; il matematico ha il suo modello e non vede che i numeri ignorano i comportamenti delle persone. Ognuno osserva la situazione dal proprio punto di vista. È mancata la capacità di comunicare la complessità.
E c’è anche una componente di genere, che durante questa pandemia è stata eclatante: questa crisi è stata gestita e comunicata tutta al maschile. Infatti, potremmo discutere delle metafore belliche che hanno caratterizzato la comunicazione dell’emergenza.
È possibile che questi errori siano dovuti anche a un modo sbagliato di intendere i ruoli dirigenziali, come se il ruolo di un dirigente fosse quello di rassicurare la popolazione dicendo di avere la situazione sotto controllo e certezze assolute?
Certamente in Italia la leadership viene intesa in maniera paternalista e si associa all’idea che si debba rassicurare, altrimenti le persone si fanno prendere dal panico. Tenere sotto segreto i verbali della Commissione Tecnico Scientifica è un altro aspetto di questa visione, per me inaccettabile. Il paternalismo secondo me è stato fondamentale (e deleterio) non solo nella comunicazione, ma anche nella gestione di questa crisi, a tutti i livelli. E non sempre si è manifestato col volto rassicurante, ma a volte anche autoritario. In alcuni Paesi, durante il lockdown, si è raccomandato di uscire tutti i giorni all’aperto a distanza dagli altri per fare una passeggiata, perché fa bene alla salute fisica e mentale. In Italia invece si inseguivano i runner solitari con i droni, perché si partiva dal presupposto che dando alla popolazione un dito, si sarebbero presi il braccio. Questo però poi lo paghiamo in termini di fiducia, oltre che di salute mentale.
L’uso politico delle questioni scientifiche nasce col COVID?
Ma no, per la legge sui vaccini è stato uguale. Anche in quell’occasione si è usato da tutte le parti politiche un tema di salute pubblica per cercare di ottenere consenso, da un lato amplificando i rischi legati a un calo delle coperture vaccinali, dall’altro attribuendo interamente il fenomeno, che aveva molte cause, all’azione dei movimenti antivax, da un’altra ancora cavalcando proprio le mozioni di questa ristretta minoranza della popolazione, incattivita dalla questione dell’obbligo.
Un altro elemento che ha caratterizzato questa crisi sono le varie controversie sulle mascherine, sulla resistenza del virus sulle superfici, sul ruolo degli asintomatici, sulla responsabilità di gruppi specifici. Perché così tante questioni sono diventate oggetto di controversie comunicative?
Per il motivo che dicevo prima: il non saper comunicare l’incertezza fa sembrare che ci siano controversie dove in realtà non ci sono. Sembra che in Italia non si possa dire che non abbiamo prove solide sull’efficacia delle mascherine all’aperto, ma che si possono usare come protezione collettiva in più negli ambienti chiusi e affollati. Al contrario, si sostiene che sono lo strumento fondamentale di protezione dalla pandemia anche negli spazi aperti, in qualche modo forse anche per far ricadere sui cittadini la responsabilità di una difficoltà di controllo che risiede fondamentalmente nei sistemi sanitari.
Così la mancanza di comunicazione dell’incertezza nelle questioni in cui il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto fa sì che all’uno si comunichi come mezzo pieno, all’altro come mezzo vuoto. Ora c’è chi dice che il virus è scomparso e chi dice che aspettiamo la seconda ondata: ma non ha senso montare questa contrapposizione. È vero che ora clinicamente non abbiamo più i pazienti gravi di due mesi fa, i casi sono pochissimi, ma il virus continua a circolare e, come vediamo guardando appena al di là dei nostri confini, è senz’altro vero che questi numeri possono tornare a risalire anche in Italia. Ma questo non è il tipo di comunicazione che interessa alla stampa, perché non fa audience, non acchiappa click: alla fine quello che paga è la polarizzazione. Tanto meno ha senso attribuire ai due approcci significati politici: ora sembra che sia di destra dire che avremmo dovuto riaprire tutto prima, di sinistra chiedere prudenza. Credo che le controversie derivino dal non accettare l’incertezza e dal pensare che le persone non possano capire le sfumature.
L’uso che Trump fa del COVID sembra somigliare al caso italiano, in termini di strumentalizzazione e di costruzione della complessità.
Direi che negli Stati Uniti le cose sono andate sicuramente peggio, anche perché, al di là delle caratteristiche del personaggio, lì l’agenda politica è strettissima: ci sono le elezioni, quindi Trump si sta giocando tutto su questo virus. Ma in generale l’evento è talmente epocale, e ha un tale impatto sull’economia e sulla società, che la connotazione politica è inevitabile, non solo a livello nazionale, ma anche di equilibri globali. Si pensi solo al ruolo della Cina, in tutto questo.
Dato che abbiamo nominato una serie di criticità e citato altri Paesi, dove hai visto pratiche positive comunicative, se ne hai viste?
Vado controcorrente, ma ho trovato esemplari le conferenze stampa dell’OMS, nel comunicare l’incertezza in maniera positiva ma trasparente, empatica ma scientificamente ineccepibile. All’inizio, pur non avendo particolare simpatia per il personaggio, ho apprezzato anche le prime, criticatissime, conferenze stampa di Boris Johnson, affiancato dal consulente medico e scientifico a cui lasciava la parola sugli aspetti tecnici: le avevo trovate chiare e piene di rispetto, con un’importante insistenza sull’espressione «we have a plan». In effetti, nel Regno Unito avevano veramente un piano, anche se poi probabilmente hanno sbagliato i tempi di attuazione delle misure e non sono riusciti a mettere in pratica molte buone pratiche, visto che il servizio sanitario inglese è messo forse peggio del nostro. Ma dal punto di vista della progettazione, il Regno Unito aveva almeno un piano pandemico che ha cercato di attuare, con l’idea di dire chiaramente chi doveva fare che cosa.
Da noi invece, nelle prime fasi della crisi, quando le persone erano in ansia e non sapevano che cosa fare, la comunicazione istituzionale era tutta incentrata sulle riunioni del Presidente del Consiglio con le Regioni o sugli incontri del ministro Speranza con l’uno o l’altro Comitato.
Con quali effetti secondo te?
Ho partecipato alla presentazione dei risultati dell’Istituto Mario Negri sulle condizioni psicologiche delle persone durante il lockdown. Un sondaggio online con un campione non rappresentativo, fatto su base volontaria, ma al quale hanno partecipato 35.000 persone, che non sono poche, di cui 20.000 che hanno completato il questionario. La provenienza dei partecipanti ha avuto un fortissimo gradiente nord-sud, con una maggiore rappresentanza delle zone più colpite. Il sondaggio è stato condotto durante il confinamento, in un momento quindi in cui il disagio era anche una naturale risposta alla situazione. Bisognerebbe vedere quanto si è mantenuto nel tempo, se e quanto sia diventato un problema reale. Però ritengo plausibile l’ipotesi di una coda di disagio psicologico a quel che abbiamo vissuto, soprattutto per le fasce più economicamente o socialmente svantaggiate. Ci sono danni alla salute che potremo valutare solo nel tempo.
D’altra parte sono dell’idea che il lockdown fosse indispensabile. Quando è stato annunciato ho tirato un sospiro di sollievo. Avrei solo voluto meno paternalismo, più rispetto delle persone, maggiori riconoscimenti di come gli italiani si sono comportati rispettando le regole anche in regioni dove il contagio era minimo. Avrei voluto vedere meno sorveglianza sui cittadini, ma più ispettori negli ospedali dove ci sono volute settimane per ottenere misure capaci di ridurre il rischio di contagio.
Il vaccino non è ancora stato individuato ed è già oggetto di controversie, fra chi non vuole farlo perché sperimentato in tempi troppo brevi e chi dice che devono farlo tutti per non mettere in pericolo gli altri. Dobbiamo aspettarci che si replichino le stesse dinamiche?
Purtroppo anche questo è frutto di una comunicazione mirata a polarizzare. Non sappiamo nemmeno se il vaccino ci sarà: questo va detto. Non abbiamo il vaccino contro la SARS e la MERS, e non sappiamo se è stato solo perché non serviva più, per cui non ci si è investito. Non abbiamo nemmeno il vaccino contro HIV e di soldi, in questo caso, ne sono stati messi sul tavolo tanti. O ancora, abbiamo quelli contro l’influenza, che però servono a poco. Occorre anche tenere presente che molti saranno prodotti completamente nuovi. Non come i vaccini per le pandemie influenzali, che possono partire da basi note, le piattaforme per l’influenza, cambiando solo alcuni antigeni. Avere un vaccino efficace in tempi così brevi è veramente una scommessa: abbiamo tante nuove tecnologie e ci speriamo tutti, però non è assolutamente certo che arriverà, e con le caratteristiche che speriamo. Qui stiamo parlando, in molti casi, di metodologie mai o poco sperimentate sugli esseri umani: parlo sia dei candidati vaccini a RNA, sia di quelli con i virus come vettori, di cui abbiamo solo il vaccino contro Ebola, sperimentato in condizioni molto particolari. È giusto quindi chiedere che l’approvazione segua le normali procedure per garantire sicurezza ed efficacia, senza bruciare troppo in fretta le tappe sulla scia dell’emergenza.
Invece è molto probabile che, nel momento in cui il primo vaccino dovesse essere sviluppato e approvato, ne avremo una quantità limitata, per cui i Paesi se ne contenderanno le dosi. Già ora è partita la corsa a prenotarlo. Il dibattito quindi dovrebbe vertere su chi ne avrà diritto prima: le persone a rischio, gli operatori sanitari, eccetera. Nonostante ciò, alcuni esponenti politici hanno già affermato che, quando il vaccino ci sarà, sarà obbligatorio, scatenando comprensibilmente l’ira delle persone, spaventate. È legittimo sperare che un vaccino sia presto disponibile, ma puntare tutta la comunicazione sul vaccino e sull’attesa che arrivi innesca una polarizzazione che a mio avviso è controproducente.
La Commissione Anti-Fake News di cui faccio parte ha recentemente diffuso un documento in cui viene evidenziata l’importanza dei bias di conferma (NdR: 1 ). Siamo riusciti a far passare il messaggio che un elemento fondamentale della disinformazione non è solo chi la fa, ma come e perché ci si crede. È stata inoltre approvata l’idea di fare una campagna di informazione incentrata sul riconoscimento delle fake news non solo sulla base delle fonti da cui le notizie provengono o di altri criteri, ma anche di quanto queste notizie ci piacciano e vadano a favorire i nostri pregiudizi. Credo che questo approccio richieda più tempo, ma sia molto più efficace rispetto a qualunque forma di censura o controllo.
Recentemente, proprio un articolo che avevi condiviso sulla tua pagina Facebook è stato segnalato come fake news. Com’è accaduto?
Avevo condiviso un articolo della CNBC in cui si raccontava di come Maria Van Kerkhove, nella conferenza stampa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva messo in dubbio che il contagio da parte degli asintomatici fosse fondamentale. O meglio, aveva sottolineato come sia ancora incerto, non che possa accadere – questo è fuori discussione – ma il peso che il fenomeno può avere in termini di diffusione della pandemia. L’OMS ha sempre detto che non abbiamo ancora prove solide su questo punto e Kerkhova ha ribadito che ci sono studi in corso. Nel mio post ho ragionato a partire da quella notizia iniziale, ma il contenuto dell’articolo è apparso ai miei lettori coperto di grigio, con una scritta che ne denunciava la “bassa attendibilità”, accompagnato da un messaggio che lo indicava come disinformazione. Il problema non era il mio post, ma la notizia iniziale, “bollata” come poco attendibile dalla squadra di fact checker incaricata da Facebook di controllare quanto viene pubblicato negli Stati Uniti. In Italia se ne occupa «Pagella Politica» di Giovanni Zagni, che fa parte come me dell’Unità Anti Fake News; all’estero ci sono altre società pagate per farlo. Zagni mi ha detto che in Italia si usano criteri diversi e che sicuramente è stato un errore: la notizia non andava flaggata in quel modo. Ho mandato una mail, scrivendo che ero un membro dell’Unità Anti Fake News del Governo italiano e che la mia reputazione rischiava di venire compromessa da una vicenda del genere. Per fortuna, la segnalazione è stata subito rimossa, ma dopo due o tre episodi simili, Facebook riduce la visibilità dei tuoi post. La ritengo una forma di censura gravissima effettuata sulla base del parere di poche persone.
Quindi in questo caso non è stato un algoritmo, ma proprio qualcuno che l’ha letto.
Non so se agiscano dopo una prima selezione effettuata da un algoritmo, ma sono squadre di fact checkers che leggono e valutano le notizie, consultando degli esperti e dando un punteggio: totalmente falso, parzialmente falso, misto, cioè contenente cose false e vere, eccetera. Io sono sempre stata contraria a tutti questi meccanismi: alla fine, per la maggior parte delle notizie, è difficile affermare in assoluto cosa sia vero e cosa sia falso, tanto più in una situazione come questa, caratterizzata dall’incertezza. Ricordo che nei primi mesi, quando mi chiedevano dei pareri sulle fake news, una tra le poche voci che indicavamo come sicuramente falsa era quella secondo cui anche i gatti si ammalavano. Spiegavamo infatti che il coronavirus felino era diverso. In realtà si è poi scoperto che anche questi animali possono contrarre il virus umano. E non solo loro: in Olanda interi allevamenti di visoni sono stati colpiti e anche alcuni gatti che passavano da un allevamento all’altro sono risultati positivi. Qualcuno ha avanzato il sospetto che siano stati loro a trasmettere il virus. Non lo sappiamo, ma non mi stupirei se tra qualche mese venisse fuori che anche i gatti hanno contribuito alla diffusione. Oppure verrà escluso. La conoscenza va avanti a piccoli passi. Questo approccio vale anche per l’ipotesi del virus creato in laboratorio: all’inizio dicevo che era altamente improbabile, ma non si poteva escludere, perché i virus in laboratorio si fanno per tante ragioni di studio, anche creandone di più aggressivi. Ora ci sono tutti i dati per affermare che SARS-Cov-2 è emerso naturalmente, anche in base all’analisi del suo genoma. È difficile marchiare le affermazioni come «vere» o «false». In generale sono poche le cose a tinte nette. Più spesso ci sono sfumature, che io non riesco a ignorare. Certo, su alcune credenze, come quelle di chi sostiene che la terra sia piatta, occorrerebbero prove veramente forti per contraddire le evidenze ma, a parte questo, il bello della scienza sono i dubbi, le domande. Per sottolineare questo aspetto ho accettato di far parte dell’Unità Anti Fake News insieme con Fabiana Zollo, con cui collaboro a Ca’ Foscari in un progetto europeo sulla comunicazione della scienza (QUEST). Siamo entrambe combattive nel difendere questo approccio, ma ad essere onesti, nelle discussioni che abbiamo fatto nel gruppo, nessuno ha mai manifestato posizioni diverse. C'era anche David Puente, che, pur essendo un debunker, si è sempre trovato d’accordo con noi.
La commissione ha analizzato cosa stava succedendo in questi mesi per poi identificare degli obiettivi precisi?
Sì, l’obiettivo era di costruire policy per il futuro. Nel documento abbiamo suggerito alcune azioni concrete. Dato che si crea confusione tra i vari siti dell’Istituto Superiore di Sanità, quello del Ministero e quelli delle Regioni, abbiamo per esempio invitato a creare un unico portale dove i cittadini possano trovare FAQ semplici e chiare, con la possibilità di trasmettere queste notizie anche attraverso canali diversi. C’è una fascia della popolazione che non andrà mai sul sito del Ministero a cercare le domande, quindi io ho proposto di fare brevi video su YouTube con una risposta semplice ai dubbi più frequenti, con la possibilità di condividerli sui social. L’obiettivo è quindi quello di facilitare l’accesso a un’informazione fondata su dati scientifici, non bloccare quella che non lo è.
Alla diffusione delle fake news collaborano tante figure diverse; quali avete identificato e cosa proponete di fare ?
Occorre distinguere chi diffonde disinformazione volontariamente, per scopi politici, economici, di propaganda (in inglese “disinformation”), dai problemi legati al sistema informativo, con giornalisti che spesso alimentano la confusione con titoli a effetto ed eccessive semplificazioni (“misinformation”). C’è poi la “malinformation”, in cui notizie vere sono presentate in modo strumentale. Nell’insieme si parla oggi più correttamente di “information disorder”. Per affrontarlo, al di là delle fonti, con la task force spero che siamo riusciti a far passare il messaggio secondo cui abbiamo problemi anche sul fronte del ricevente. Siamo riusciti a introdurre questo elemento non solo in termini di media literacy, cioè di capacità di interpretare, ma anche di approccio psicologico, nel senso di capire quali sono le nostre tendenze a credere a certe storie piuttosto che ad altre. È stata approvata l’idea di una campagna che aiuti i cittadini a capire quali sono gli errori che facciamo nell’interpretare le notizie, proprio per come ci poniamo nei loro confronti. Mi sembra una rivoluzione interessante, anche se passata sottotono e non ben spiegata nei pochi articoli che hanno riferito del nostro lavoro. Non conosco iniziative simili, neanche all’estero, per cui considero la nostra una conquista importante.
Avete valutato la possibilità di condurre sperimentazioni pilota all’interno di contesti di tipo educativo?
So che ci sono già alcune iniziative a livello scolastico, per esempio da parte di Fondazione AIRC. In questa prima fase del nostro incarico, che durerà 12 mesi, abbiamo pensato più a iniziative rivolte a giornalisti e comunicatori, individuandoli come uno snodo prioritario. La nostra missione è limitata all’emergenza COVID, quindi siamo chiamati ad agire sull'oggi più che sulle competenze future, anche se la campagna di cui ho parlato è il risultato di una visione che guarda al di là dell’effetto immediato.
A proposito del venir meno dell’intermediazione giornalistica nel rapporto diretto fra scienziati, è possibile fare un parallelismo con la politica? Così come in politica si tende a saltare l’intermediazione giornalistica fra il politico e il suo elettorato, qui salta l’intermediazione fra gli scienziati e l’opinione pubblica.
Quello della disintermediazione è un grande tema dei social network e di internet, in termini “ascendenti”: tramite Google il cittadino può accedere a qualunque informazione senza l’intermediazione da parte dell’esperto. Vale però anche in senso “discendente”: gli scienziati oggi parlano direttamente al pubblico, senza l’intermediazione di un giornalista o di un comunicatore. Nelle trasmissioni televisive o sui quotidiani i giornalisti per lo più fanno da semplici portavoce. Nonostante la natura eminentemente “scientifica” della situazione, i giornalisti scientifici hanno trovato pochissimo spazio. Io sono stata intervistata in televisione alcune volte, ma sempre in qualità di “esperta”, per la mia laurea in medicina e per aver lavorato su questi temi. Mi hanno chiamato un po’ per cercare di riequilibrare il pesante gender gap di quelle trasmissioni, un po’ forse perché spiegavo le cose in modo più facile, ma solo in rare occasioni ho potuto rivolgere domande scomode a medici e ricercatori. Tanto meno definire la scaletta di un programma. Per questo servono competenze specifiche. Occorre conoscere il contesto per aiutare a fare chiarezza. È assurdo che in un’occasione in cui la scienza ha riempito tutti i media ed è stata l’argomento principale per mesi, i giornalisti scientifici, tranne rare eccezioni, siano stati tenuti in disparte. Sarebbe come avere le Olimpiadi coperte solo da giornalisti economici.
Secondo te a cosa sono dovuti questi problemi nella comunicazione?
Per come la vedo io, il problema fondamentale in questa crisi è stata la difficoltà di comunicare l’incertezza, che è tipica della scienza, ma lo è ancora di più davanti a un virus sconosciuto. Su questo ho insistito, nel mio piccolo, sin dal primo giorno. Bisogna sempre parlare al condizionale e aggiungere che parliamo per quello che sappiamo oggi, ma consapevoli del fatto che nel futuro potrebbero uscire studi che smentiscono le affermazioni di oggi. Questa trasparenza a mio parere non compromette, ma accresce, la fiducia. Invece alcuni, e penso a certi accademici in particolare, forse per timore di sentirsi sminuiti, tendono a comunicare certezze anche quando certezze non ci sono, passando al pubblico le loro opinioni come se fossero dati confermati.
Questo deriva anche da una carenza di familiarità con la scienza e con il metodo scientifico, col vero senso della scienza, da parte non solo dei cittadini ma anche da parte della classe medica italiana. Non dimentichiamo che le bufale sui vaccini sono state ampiamente sostenute da medici. Ancora oggi, dopo anni di campagne di informazione a tutti i livelli, si trovano pediatri che consigliano di evitare di fare subito certe vaccinazioni perché indebolirebbero il sistema immunitario, o ginecologi che sconsigliano il vaccino per l’HPV. Oltre a «disintermediazione» e «incertezza», poi, l’altra parola chiave è «complessità». Nel caso del COVID le competenze mediche coinvolte sono molte, e a queste si aggiungono quelle di virologi, epidemiologi, modellisti matematici, economisti, psicologi sociali, sociologi, esperti di comunicazione e di molti altri campi: il fenomeno richiede un approccio multidisciplinare. Per questo ritengo che l’OMS, che racchiude tutte queste competenze, riesca a gestire meglio la situazione. Invece alcuni nostri scienziati cosa fanno? Il virologo va in televisione e parla della sequenza genetica del virus, e da lì trae conclusioni su tutto il panorama; l’infettivologo parla da infettivologo; il clinico ha la rianimazione vuota e non vede più il problema; il matematico ha il suo modello e non vede che i numeri ignorano i comportamenti delle persone. Ognuno osserva la situazione dal proprio punto di vista. È mancata la capacità di comunicare la complessità.
E c’è anche una componente di genere, che durante questa pandemia è stata eclatante: questa crisi è stata gestita e comunicata tutta al maschile. Infatti, potremmo discutere delle metafore belliche che hanno caratterizzato la comunicazione dell’emergenza.
È possibile che questi errori siano dovuti anche a un modo sbagliato di intendere i ruoli dirigenziali, come se il ruolo di un dirigente fosse quello di rassicurare la popolazione dicendo di avere la situazione sotto controllo e certezze assolute?
Certamente in Italia la leadership viene intesa in maniera paternalista e si associa all’idea che si debba rassicurare, altrimenti le persone si fanno prendere dal panico. Tenere sotto segreto i verbali della Commissione Tecnico Scientifica è un altro aspetto di questa visione, per me inaccettabile. Il paternalismo secondo me è stato fondamentale (e deleterio) non solo nella comunicazione, ma anche nella gestione di questa crisi, a tutti i livelli. E non sempre si è manifestato col volto rassicurante, ma a volte anche autoritario. In alcuni Paesi, durante il lockdown, si è raccomandato di uscire tutti i giorni all’aperto a distanza dagli altri per fare una passeggiata, perché fa bene alla salute fisica e mentale. In Italia invece si inseguivano i runner solitari con i droni, perché si partiva dal presupposto che dando alla popolazione un dito, si sarebbero presi il braccio. Questo però poi lo paghiamo in termini di fiducia, oltre che di salute mentale.
L’uso politico delle questioni scientifiche nasce col COVID?
Ma no, per la legge sui vaccini è stato uguale. Anche in quell’occasione si è usato da tutte le parti politiche un tema di salute pubblica per cercare di ottenere consenso, da un lato amplificando i rischi legati a un calo delle coperture vaccinali, dall’altro attribuendo interamente il fenomeno, che aveva molte cause, all’azione dei movimenti antivax, da un’altra ancora cavalcando proprio le mozioni di questa ristretta minoranza della popolazione, incattivita dalla questione dell’obbligo.
Un altro elemento che ha caratterizzato questa crisi sono le varie controversie sulle mascherine, sulla resistenza del virus sulle superfici, sul ruolo degli asintomatici, sulla responsabilità di gruppi specifici. Perché così tante questioni sono diventate oggetto di controversie comunicative?
Per il motivo che dicevo prima: il non saper comunicare l’incertezza fa sembrare che ci siano controversie dove in realtà non ci sono. Sembra che in Italia non si possa dire che non abbiamo prove solide sull’efficacia delle mascherine all’aperto, ma che si possono usare come protezione collettiva in più negli ambienti chiusi e affollati. Al contrario, si sostiene che sono lo strumento fondamentale di protezione dalla pandemia anche negli spazi aperti, in qualche modo forse anche per far ricadere sui cittadini la responsabilità di una difficoltà di controllo che risiede fondamentalmente nei sistemi sanitari.
Così la mancanza di comunicazione dell’incertezza nelle questioni in cui il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto fa sì che all’uno si comunichi come mezzo pieno, all’altro come mezzo vuoto. Ora c’è chi dice che il virus è scomparso e chi dice che aspettiamo la seconda ondata: ma non ha senso montare questa contrapposizione. È vero che ora clinicamente non abbiamo più i pazienti gravi di due mesi fa, i casi sono pochissimi, ma il virus continua a circolare e, come vediamo guardando appena al di là dei nostri confini, è senz’altro vero che questi numeri possono tornare a risalire anche in Italia. Ma questo non è il tipo di comunicazione che interessa alla stampa, perché non fa audience, non acchiappa click: alla fine quello che paga è la polarizzazione. Tanto meno ha senso attribuire ai due approcci significati politici: ora sembra che sia di destra dire che avremmo dovuto riaprire tutto prima, di sinistra chiedere prudenza. Credo che le controversie derivino dal non accettare l’incertezza e dal pensare che le persone non possano capire le sfumature.
L’uso che Trump fa del COVID sembra somigliare al caso italiano, in termini di strumentalizzazione e di costruzione della complessità.
Direi che negli Stati Uniti le cose sono andate sicuramente peggio, anche perché, al di là delle caratteristiche del personaggio, lì l’agenda politica è strettissima: ci sono le elezioni, quindi Trump si sta giocando tutto su questo virus. Ma in generale l’evento è talmente epocale, e ha un tale impatto sull’economia e sulla società, che la connotazione politica è inevitabile, non solo a livello nazionale, ma anche di equilibri globali. Si pensi solo al ruolo della Cina, in tutto questo.
Dato che abbiamo nominato una serie di criticità e citato altri Paesi, dove hai visto pratiche positive comunicative, se ne hai viste?
Vado controcorrente, ma ho trovato esemplari le conferenze stampa dell’OMS, nel comunicare l’incertezza in maniera positiva ma trasparente, empatica ma scientificamente ineccepibile. All’inizio, pur non avendo particolare simpatia per il personaggio, ho apprezzato anche le prime, criticatissime, conferenze stampa di Boris Johnson, affiancato dal consulente medico e scientifico a cui lasciava la parola sugli aspetti tecnici: le avevo trovate chiare e piene di rispetto, con un’importante insistenza sull’espressione «we have a plan». In effetti, nel Regno Unito avevano veramente un piano, anche se poi probabilmente hanno sbagliato i tempi di attuazione delle misure e non sono riusciti a mettere in pratica molte buone pratiche, visto che il servizio sanitario inglese è messo forse peggio del nostro. Ma dal punto di vista della progettazione, il Regno Unito aveva almeno un piano pandemico che ha cercato di attuare, con l’idea di dire chiaramente chi doveva fare che cosa.
Da noi invece, nelle prime fasi della crisi, quando le persone erano in ansia e non sapevano che cosa fare, la comunicazione istituzionale era tutta incentrata sulle riunioni del Presidente del Consiglio con le Regioni o sugli incontri del ministro Speranza con l’uno o l’altro Comitato.
Con quali effetti secondo te?
Ho partecipato alla presentazione dei risultati dell’Istituto Mario Negri sulle condizioni psicologiche delle persone durante il lockdown. Un sondaggio online con un campione non rappresentativo, fatto su base volontaria, ma al quale hanno partecipato 35.000 persone, che non sono poche, di cui 20.000 che hanno completato il questionario. La provenienza dei partecipanti ha avuto un fortissimo gradiente nord-sud, con una maggiore rappresentanza delle zone più colpite. Il sondaggio è stato condotto durante il confinamento, in un momento quindi in cui il disagio era anche una naturale risposta alla situazione. Bisognerebbe vedere quanto si è mantenuto nel tempo, se e quanto sia diventato un problema reale. Però ritengo plausibile l’ipotesi di una coda di disagio psicologico a quel che abbiamo vissuto, soprattutto per le fasce più economicamente o socialmente svantaggiate. Ci sono danni alla salute che potremo valutare solo nel tempo.
D’altra parte sono dell’idea che il lockdown fosse indispensabile. Quando è stato annunciato ho tirato un sospiro di sollievo. Avrei solo voluto meno paternalismo, più rispetto delle persone, maggiori riconoscimenti di come gli italiani si sono comportati rispettando le regole anche in regioni dove il contagio era minimo. Avrei voluto vedere meno sorveglianza sui cittadini, ma più ispettori negli ospedali dove ci sono volute settimane per ottenere misure capaci di ridurre il rischio di contagio.
Il vaccino non è ancora stato individuato ed è già oggetto di controversie, fra chi non vuole farlo perché sperimentato in tempi troppo brevi e chi dice che devono farlo tutti per non mettere in pericolo gli altri. Dobbiamo aspettarci che si replichino le stesse dinamiche?
Purtroppo anche questo è frutto di una comunicazione mirata a polarizzare. Non sappiamo nemmeno se il vaccino ci sarà: questo va detto. Non abbiamo il vaccino contro la SARS e la MERS, e non sappiamo se è stato solo perché non serviva più, per cui non ci si è investito. Non abbiamo nemmeno il vaccino contro HIV e di soldi, in questo caso, ne sono stati messi sul tavolo tanti. O ancora, abbiamo quelli contro l’influenza, che però servono a poco. Occorre anche tenere presente che molti saranno prodotti completamente nuovi. Non come i vaccini per le pandemie influenzali, che possono partire da basi note, le piattaforme per l’influenza, cambiando solo alcuni antigeni. Avere un vaccino efficace in tempi così brevi è veramente una scommessa: abbiamo tante nuove tecnologie e ci speriamo tutti, però non è assolutamente certo che arriverà, e con le caratteristiche che speriamo. Qui stiamo parlando, in molti casi, di metodologie mai o poco sperimentate sugli esseri umani: parlo sia dei candidati vaccini a RNA, sia di quelli con i virus come vettori, di cui abbiamo solo il vaccino contro Ebola, sperimentato in condizioni molto particolari. È giusto quindi chiedere che l’approvazione segua le normali procedure per garantire sicurezza ed efficacia, senza bruciare troppo in fretta le tappe sulla scia dell’emergenza.
Invece è molto probabile che, nel momento in cui il primo vaccino dovesse essere sviluppato e approvato, ne avremo una quantità limitata, per cui i Paesi se ne contenderanno le dosi. Già ora è partita la corsa a prenotarlo. Il dibattito quindi dovrebbe vertere su chi ne avrà diritto prima: le persone a rischio, gli operatori sanitari, eccetera. Nonostante ciò, alcuni esponenti politici hanno già affermato che, quando il vaccino ci sarà, sarà obbligatorio, scatenando comprensibilmente l’ira delle persone, spaventate. È legittimo sperare che un vaccino sia presto disponibile, ma puntare tutta la comunicazione sul vaccino e sull’attesa che arrivi innesca una polarizzazione che a mio avviso è controproducente.