Chi comunica in modo oscuro forse vuole nascondere qualcosa...
Nessuno ha mai fatto i conti del costo economico, sociale e culturale di una inadeguata comunicazione: ma si tratta probabilmente di una cifra astronomica. È come se all'interno del cervello i segnali nervosi circolassero con difficoltà. Una cattiva comunicazione rallenta tutto il processo di sviluppo e provoca danni all'intero sistema. Per non parlare dei danni politici. Solo una corretta comprensione dei problemi, infatti, consente di affrontare meglio certe questioni di interesse comune. E consente anche di poter contare su un'opinione pubblica più informata, capace di rispondere in modo più razionale a certe scelte, senza lasciarsi troppo influenzare da sollecitazioni emotive.
Curiosamente, si parla molto di partecipazione, intesa come uno strumento di sviluppo democratico, ma raramente si parla di divulgazione come condizione essenziale per capire e quindi per partecipare. La democrazia non può basarsi sull'ignoranza dei problemi, perché uno dei suoi grandi obiettivi è proprio quello di rendere i cittadini responsabili e consapevoli, in modo che possano esercitare i loro diritti utilizzando al meglio la loro capacità di capire.
Ogni volta, quindi, che si sottrae a qualcuno una parte della sua capacità di capire, lo si priva di una parte dei suoi diritti. È una censura mentale, una specie di furto neurologico che viene perpetrato in continuazione. Inconsapevolmente o consapevolmente.
Questo è tanto più grave quando la comunicazione, per definizione, deve essere di massa. Cioè destinata a tutti gli individui: soprattutto a quelli che ripongono in certi mezzi (in particolare la televisione) il solo aggancio culturale col proprio tempo. L'utente cambia "canale". Non riuscendo a capire le cose intelligenti e utili, dette però in un linguaggio che per lui potrebbe essere giapponese o finlandese, finisce per rifugiarsi in quelle meno intelligenti o di evasione, dette però in un linguaggio che gli è più familiare.
Per questa ragione, quando un lettore (o ancor più un telespettatore) non capisce, la colpa non è sua: ma è di chi non ha saputo comunicare. Cioè dell'autore. È stato lui a cacciarlo via.
Facendo questo lavoro da tanti anni, questi problemi me li sono posti continuamente. E ho cercato di sviluppare anche qualche tecnica per cercare di migliorare i risultati. Una di queste, naturalmente, è di riscrivere e correggere più volte lo stesso testo, fino a quando è sufficientemente purificato dalle spine linguistiche. Poi, quando sono in moviola, se ho dei dubbi sulla chiarezza di un passaggio o di una sequenza, chiamo il primo che passa nel corridoio (un montatore, una segretaria, un passafilm), mostro la sequenza e chiedo il loro parere. Se vedo un'ombra di dubbio nei loro occhi, rismonto e ricomincio da capo. Perché vuol dire che avevo sbagliato io.
Purtroppo molte persone ancora oggi (pur proclamando alti i principi della democrazia) in realtà scrivono, parlano e compongono programmi pensando più ai colleghi e ai critici che ai veri destinatari, cioè al pubblico. Questo fa sì che la comunicazione di massa non raggiunga il suo scopo primario, quello cioè di comunicare a vasti gruppi di cittadini, e non soltanto a pochi.
Ciò avviene, molto spesso, anche perché manca il cosiddetto feedback, la reazione di ritorno. Manca cioè una vera risposta di "mercato". Se per esempio una fabbrica di scarpe producesse soprattutto scarpe numero 33, 34 e 44, 45 rapidamente fallirebbe. Perché la "massa" dei piedi è compresa fra i numeri 35 e 43. Ovviamente molto prima di fallire modificherebbe la sua produzione, tenendo conto delle misure effettive dei clienti. Questa correzione purtroppo non si verifica invece nella comunicazione di massa, dove si può continuare impunemente a far scarpe fuori misura (o di misura solo per certi clienti), senza che nulla succeda. La maggioranza dei clienti, spesso, è così costretta a infilarsi le pantofole, o a rimanere a piedi nudi.
Resta da chiedersi quali possono essere le ragioni di questa mancanza di sensibilità ai problemi della divulgazione. O addirittura perché a volte si preferisce non farla. Le ragioni possono essere varie, e non sempre confessabili. Esiste infatti tutta una gamma di motivazioni che inducono a essere oscuri. Oppure a essere molto chiari.
Chiarezza e oscurità
Prendiamo due casi estremi: la pubblicità e i contratti assicurativi. Nella pubblicità l'imperativo è: farsi capire, far entrare nella testa del pubblico il messaggio che si vuol divulgare. nel modo più semplice. E farglielo ricordare. La tecnica della pubblicità è quindi in gran parte una tecnica di divulgazione (anche se in questo caso c'è una distorsione dei contenuti). Nessuna ditta pagherebbe mai un'agenzia pubblicitaria che producesse messaggi poco chiari. Ecco quindi che, nel caso della pubblicità, tutto lo sforzo è diretto a essere subito "leggibili", a evitare il linguaggio oscuro e la noia.
Nel caso di certi contratti assicurativi o di condizioni di vendita, invece, avviene esattamente l'opposto. Lo scopo, infatti (anche se non confessato), è a volte di essere poco chiari e, per quanto possibile, scoraggiare il cliente dalla lettura delle clausole, in modo che i punti a vantaggio della compagnia passino più inosservati.
Ecco allora uscire tutto l'armamentario dell'incomprensibilità: linguaggio oscuro, termini tecnici, frasi lunghissime, continui richiami a paragrafi precedenti e... caratteri tipografici piccolissimi (le cosiddette "clausole oftalmiche").
Tra questi due estremi esiste, come dicevamo, tutto un ventaglio di situazioni intermedie. C'è molta gente che parla e scrive in modo chiaro, altri in modo appena leggibile, altri in modo noioso e poco comprensibile. Altri addirittura illeggibile.
Perché si è incomprensibili? Per incapacità, negligenza, calcolo, ignoranza, desiderio di apparire colti, cattiva abitudine, disinteresse per il pubblico ecc. Tutte ragioni evidentemente condannabili. Infatti se è perfettamente legittimo che due medici o due ferrovieri parlino tra loro con un gergo professionale, non è più legittimo che essi siano incomprensibili quando parlano ai pazienti in ambulatorio o si rivolgono al pubblico dello sportello della biglietteria. La stessa cosa vale per gli economisti, per i politici, per gli intellettuali e per tutti coloro che si esprimono attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Quando parlano al pubblico devono obbligatoriamente cambiare linguaggio. Se non sono in grado di farlo devono farsi sostituire da altri. Siccome, però, da soli non prenderanno mai questa scomoda decisione, bisogna che siano i destinatari, cioè i "clienti", a protestare. A restituire le "scarpe" coi numeri sbagliati. E qualche volta, perché no?, a tirargliele...
Il guaio è che c'è ormai una tale assuefazione a questi linguaggi oscuri (scritti e parlati) che la gente li accetta come la pioggia o la nebbia: fanno parte del paesaggio. Oppure, peggio ancora, molti cadono in trappola: ritengono che siano quelle le regole della "cultura" e che quindi sia perfettamente giustificato che un uomo colto parli in modo non comprensibile. Altrimenti che uomo colto sarebbe? Se le cose che dice le capisce anche un ignorante, allora vorrebbe dire che le cose non sono così difficili, e che i sapienti non sono poi così sapienti...
Purtroppo questo incoraggia la già diffusa tendenza da parte di certe persone a usare il linguaggio come simbolo del potere.
A volte le cose vanno persino più in là. C'è gente che preferisce non capire anziché esigere chiarezza, perché sarebbe come ammettere che non è abbastanza intelligente e colta. La verità è che questa gente non ha abbastanza ricchezza interna per poter dire "Non ho capito".
Dire "Non ho capito", infatti, è una dimostrazione di forza. Significa dimostrare di non avere complessi di inferiorità. Ed è anche un'arma per costringere l'interlocutore a "scoprirsi".
Del resto, nessuno può essere esperto in tutti i campi. Un avvocato, cui si parla di genetica, è solitamente al livello di un intelligente quindicenne. E così un alto magistrato cui si parli di neurofisiologia del cervello.
Tutti hanno bisogno di divulgazione, sia le persone colte che quelle poco colte.
Eppure, la tradizione culturale del nostro paese, quella che è simboleggiata dai cavalli rampanti e dagli araldi effigiati sui frontoni dei nostri palazzi ufficiali, continua a incombere coi suoi "rumori" linguistici. E a condizionare persino coloro che dovrebbero essere i naturali nemici dell'incomprensione. Mi diceva un amico che, al momento dell'entrata in funzione delle USL, vide nell'elenco dei medici anche la voce "stomatologo". Chiese all'impiegato se non era meglio scrivere "dentista", in modo che tutti capissero. Trovò solo ostilità e rifiuti. Anzi, fu allontanato come un seccatore...
Io stesso, molte volte (specialmente in passato), ho sentito tra alcune persone del pubblico questa riluttanza ad accettare la divulgazione, quasi come uno status symbol negativo. Sono spesso quelle stesse persone che nello scaffale della libreria di casa hanno opere di prestigio che non leggeranno mai, ma che servono a fare "facciata".
Ma c'è una grande e crescente maggioranza di persone (anche di grande cultura) che hanno capito l'importanza e il ruolo della divulgazione, cioè della "traduzione": hanno capito che per poter accedere davvero a certe conoscenze occorre avere una chiave, e che è ridicolo far finta di conoscere il giapponese o il finlandese, quando in realtà non lo si capisce: sarebbe dare prova di poca intelligenza.
Ritengo che quando si sarà sufficientemente diffusa questa idea, cioè che la divulgazione è non soltanto una cosa utile ma anche un vero e proprio diritto, comincerà allora anche una selezione darwiniana per gli incapaci, i negligenti e i furbi che ci affliggono.
Per ora ce li dobbiamo tenere. Oppure... avete una scarpa a portata di mano?
Piero Angela
Giornalista e scrittore