L'ultimo censimento dice che in Italia, grosso modo, ci sono un milione e duecentomila analfabeti, sei milioni di persone che non hanno raggiunto la quinta elementare, e 17 milioni di persone che hanno soltanto la quinta elementare. In altre parole 24 milioni di persone (più della metà della popolazione adulta) hanno dalla quinta elementare in giù. Senza contare altri milioni di persone che hanno perso ogni contatto con la cultura.
Questi dati dovrebbero sempre costituire il punto di partenza, quando si parla di televisione nel nostro paese. Uniti ad altri dati altrettanto significativi: un indice di lettura dei quotidiani tra i più bassi (se si defalcano i quotidiani sportivi), e un indice ancora più sconfortante per quanto riguarda i libri (50 per cento delle famiglie non compra un solo libro l'anno).
È questa Italia che sta navigando in Europa, per affrontare sfide crescenti e confrontarsi con concorrenti molto agguerriti, in un mondo dove la conoscenza sarà il bene più prezioso.
Un'Italia dove la televisione, per una grandissima parte della popolazione, rappresenta l'unico aggancio culturale col proprio tempo, per capire un mondo in rapida trasformazione e per aprirsi a nuovi stimoli e opportunità.
In questo periodo si parla moltissimo di nuove tecnologie digitali, di nuove prospettive del mercato televisivo, di nuovi protagonisti che entrano in campo. E anche di nuove regole che sono allo studio. Ma per andare dove? Il dibattito per un po' è sembrato incentrato quasi unicamente sui diritti delle partite di calcio: chi li avrà, in quale misura, a quale prezzo. Ma al di là del calcio, che cosa si scorge? Altro intrattenimento, altri film, altro sport. Non solo ma, come previsto, al terzo polo televisivo, dopo Rai e Mediaset, è approdato Rupert Murdoch, un imprenditore che sa benissimo che i buoni affari in televisione si fanno con l'intrattenimento, e con una politica "aggressiva" degli ascolti. Chiunque altro dovesse approdare, del resto, farebbe altrettanto.
Non è difficile immaginare che tutto ciò porterà a una ulteriore rincorsa delle altre reti verso un modello sempre più commerciale, per far quadrare i conti della pubblicità.
Questa sembra essere, al momento, la logica conclusione del processo di trasformazione in corso nel settore televisivo. Bisogna quindi rassegnarsi a questa evoluzione?
Se si ritiene di sì, il discorso è bell'e chiuso (con buona pace, però, di almeno una parte del canone Rai, non più giustificabile). Se invece si ritiene che questa evoluzione non sia inevitabile, qualche riflessione può essere fatta per trovare una correzione di rotta (finché si è in tempo).
Ho già avuto modo in passato di esprimere le mie forti perplessità sulla efficacia di convogliare i programmi culturali sulla Terza rete, come previsto da una legge varata senza un vero dibattito nel paese: è un po' come abolire l'informazione culturale sui quotidiani e relegarla su un unico quotidiano specializzato (destinato a un pubblico ristretto). È invece essenziale che l'informazione culturale sia presente sull'insieme delle reti Rai, non soltanto per giustificare il ruolo di servizio pubblico e il relativo canone, ma perché si tratta di un'erogazione di ossigeno vitale per il paese. È un discorso, del resto, che vale anche per le televisioni private.
Ma come fare? Ecco una possibile correzione di rotta (ma è solo un esempio: possono esservi altre idee).
Per ottenere la licenza di trasmettere sul territorio nazionale, le reti generaliste (sia pubbliche che private) dovrebbero per legge garantire un minimo di informazione culturale, in ogni fascia oraria (evitando così che tali programmi siano relegati nelle ore notturne). Ma non ne soffrirebbero gli introiti pubblicitari?
No, perché il cosiddetto "bacino di utenza", cioè il numero totale dei telespettatori, non diminuirebbe (nessuno spegnerebbe il televisore perché su una delle reti c'è un programma culturale), e non diminuirebbe perciò il tanto prezioso gettito pubblicitario. Semplicemente si ridistribuirebbe in modo diverso, seguendo l'alternarsi delle varie rotazioni. Non è detto, inoltre, che i programmi culturali verrebbero sistematicamente penalizzati: il sistema, infatti, avvantaggerebbe i programmi culturali più interessanti e attraenti.
Va detto che parecchi inserzionisti (lo ripetono da tempo) sarebbero molto interessati anche a pubblici specializzati, "di nicchia" assai più redditizi di un pubblico generico (a chi vende computer non interessa molto il Festival di Sanremo).
Possono inoltre esservi altri modi, naturalmente per incentivare certi tipi di programmi, agendo sulla leva fiscale: per esempio attraverso la detassazione della pubblicità a essi collegata.
E le reti a pagamento via satellite? Anche qui potrebbero essere trovate correzioni di rotta: per esempio creando tariffe (o tassazioni) differenziate, a seconda del tipo di canale: per esempio tariffe (o tasse) più alte per i canali di film o di sport, a beneficio di canali culturali. In questi canali, così rivitalizzati, potrebbero trovare spazio programmi di "alta cultura" destinati a pochi, mentre le normali reti generaliste trasmetterebbero programmi di divulgazione culturale, destinati ai molti.
Insomma, esistono vari modi per evitare la discesa inarrestabile della qualità dei programmi, dovuta all'attuale sistema televisivo senza regole. O meglio, regolato solo sul modello dell' audience: ci sono altri modelli, che è possibile individuare con un po' di immaginazione. Sempre rimanendo nella logica della concorrenza e senza perturbare il mercato pubblicitario. Perché è bene ricordare che gli imprenditori televisivi non hanno alcuna vocazione perversa a fare programmi di bassa qualità: sono le regole del gioco che abbiamo dato noi (o che non abbiamo dato) a spingerli in questa direzione.
Con altre regole essi si muoverebbero in altre direzioni.
Stupisce che su questo argomento, così importante, ci sia tanto silenzio. Sarebbe una colpa gravissima, nel momento in cui si debbono prendere importanti decisioni, lasciare che le cose vadano così come stanno andando. È un problema che riguarda tutti. E che è fortemente sentito da molti. Anche e soprattutto, credo, dalle famiglie, che vorrebbero per i loro ragazzi qualcosa di più dei programmi che dilagano oggi. E che dilagheranno ancor più domani. Senza scampo.
Piero Angela
Giornalista e scrittore