Nel 1574 suor Mansueta, monaca di clausura nel monastero di S. Croce in Venezia, aveva circa trent'anni. Era entrata in convento attorno al 1564 non
per vocazione ma per ubbidire alla volontà della famiglia, come succedeva di solito alle figlie minori del patriziato veneziano. Se ne era pentita immediatamente: per alcuni anni aveva cercato sollievo nella preghiera invocando dal Buon Dio la grazia di essere liberata, ma col passare del tempo la speranza si era mutata in ribellione.
Suor Mansueta ripensava sempre più spesso ai giorni felici, quando poteva uscire per le calli e i campielli ammirata e ammirante. Ricordava con struggente nostalgia, mista a un profondo senso di colpa, quel ragazzo che tanti anni prima l'aveva invano implorata di sposarlo ed era morto di dolore. Lei non era stata insensibile alla corte del giovane, anzi una volta gli aveva ceduto e ora riviveva con la fantasia quei momenti. Aveva rifiutato il matrimonio per senso del dovere verso il convento e la propria famiglia, ma dopo tanti anni di segregazione l'idea di tornare libera era divenuta ossessiva. Suor Mansueta voleva uscire, avere un uomo che acquietasse il tormentoso desiderio sessuale e pregava Dio di esaudirla. Quando capì che le sue preghiere non avevano effetto, si rivolse al Demonio.
Un giorno, mentre tornava al posto dopo
essersi comunicata, un colpo tra capo e collo datele a tradimento dal Diavolo le fece espellere l'ostia che teneva in bocca. Suor Mansueta la raccolse nel fazzoletto non vista dalle consorelle: finalmente avrebbe potuto provare l'esistenza di Dio. Chiusa nella propria cella prende l'ostia e la stropiccia fra le mani aspettandosi di vedersele almeno dissecare. Nulla succede: è la prova che Dio non esiste. Allora non resta che Satana e suor Mansueta lo invoca presso all'immondezzaio dell'orto, il luogo più indicato per le apparizioni demoniache.
Il Diavolo, che per certe cose sembra più affidabile del Buon Dio, non tarda ad apparire. Si presenta in veste di eremita e giorno e notte la costringe a reiterati quanto soddisfacenti amplessi, nei quali pare fosse coinvolta anche una giovane consorella.
Il convento mormora e la superiora, suor Cornelia Dona, tenta di soffocare lo scandalo confinando la monaca in una cella sotterranea (ogni convento aveva le proprie prigioni) con mani e piedi legati per tenerla lontana dal peccato. Ma nulla può fermare il Demonio, che incurante di ceppi e catenacci, torna sempre più spesso a far visita all'amante.
La superiora ricorre allora a fra Piero da Venezia, confessore del monastero, ma nemmeno il frate riesce a domare la suora ormai in preda a Satana. Non resta che chiedere l'intervento delle massime autorità ecclesiastiche e affidare a loro la sorte di suor Mansueta.
L'interesse dimostrato dal Patriarca, davanti al quale è portata la suora, illude la poveretta di essere presto dimessa dal convento. La rassicura il fatto di essere stata costretta a vestire abiti civili per compiere il breve tragitto dal monastero alla chiesa dei SS. Simeone e Giuda, dove attendono i prelati, ai quali con semplicità e fiducia racconta del suo antico spasimante, dei rapporti col Diavolo e dei peccati carnali commessi con lui, convinta che quegli alti giudici la considereranno
inadatta alla vita conventuale e la restituiranno al secolo. Ma i prelati non si lasciano impressionare, o meglio: sono talmente impressionati dal racconto della monaca che si convincono di essere in presenza del Demonio e convocano in tutta fretta un esorcista.
L'esorcismo di suor Mansueta dura due settimane. Il caso è difficile e la battaglia strenua. Il diavolo capo che ha preso possesso della suora si chiama Franceschin, un nome alquanto casalingo, ma i giudici credono fermamente che l'esorcista sia capace di strappare la verità anche al Principe della Menzogna. Contro la suora, anzi contro il suo corpo che è diventato strumento diabolico, l'esorcista mette in atto una serie di violenze contemplate dal rituale: costringe la donna a restare ore in ginocchio con le mani legate ad ascoltare interminabili preghiere con imposizioni di reliquie, spruzzate d'acqua santa e nuvole di incenso.
davanti all'esorcista, il quale con un piede sul suo corpo nella classica posa di Maria che calpesta il serpente (ma anche del grande cacciatore bianco con la sua preda) legge il salmo Qui habitat.
Quindici giorni durò la lotta, con alterne vicende. A un certo punto l'esorcista riuscì a confinare il Diavolo Capo nella lingua della donna. Subito la lingua venne legata e lasciata nera e gonfia fuori dalla bocca per oltre un quarto d'ora. Si notò che in questo modo il Demonio non poteva più parlare, mentre appena la lingua fu slegata cominciò a gemere. Nel trambusto caddero a terra le reliquie che l'esorcista teneva sopra la donna e le dovè raccogliere con la bocca come si conveniva a una bestia. Negli ultimi giorni si susseguono preghiere e scongiuri seguiti da convulsioni, svenimenti, atti animaleschi. Alla fine i demoni! sono intrappolati nell'alluce sinistro che si contorce mentre il resto del corpo spasima e sussulta. Il Diavolo Capo tenta un'ultima resistenza ridendo con la faccia contorta, ma l'esorcista se ne avvede, slega la lingua e costringe il Capo a raggiungere le sue schiere confinate nel ditone. A questo punto il corpo torna umano e suor Mansueta, liberata, ringrazia l'esorcista e ritorna in monastero.
Suor Mansueta fu esorcizzata fra 1'8 e il 17 febbraio 1574. L'esorcismo vincente è il settimo presentato nel Flagellum Daemonum di Girolamo Mengo. L'incartamento riguardante suor Mansueta è conservato nell'Archivio di Stato di Venezia, fondo S. Uffizio, b. 38, ed è stato da me pubblicato in Quaderni Veneti, 7, 1988.
Marisa Milani,
docente di letteratura delle tradizioni popolari all'Università di Padova, è Presidente del Gruppo Veneto del Cicap.