Guida alle equazioni di Maxwell
di Daniel Fleisch
Editori Riuniti, 2014
pp. 135, € 18,50
Recensione di Renato Serafini
Le equazioni pubblicate nel 1865 da James Clerk Maxwell hanno rappresentato l’unificazione dei fenomeni elettrici e magnetici, studiati in buona parte separatamente nel corso del diciannovesimo secolo, portando a una teoria generale unificata del campo elettromagnetico.
La vita di tutti i giorni è permeata da applicazioni delle equazioni di Maxwell, che spiegano per esempio il funzionamento dei motori elettrici presenti negli elettrodomestici, nell’ascensore o nell’asciugacapelli, nonché dei trasformatori elettrici e degli alimentatori dei numerosi apparati che utilizziamo giornalmente, come i computer portatili, i tablet e i telefonini. Ancora, l’alternatore della nostra automobile genera la corrente necessaria al funzionamento del motore e di tutti gli apparati elettrici dell’automobile, in accordo con la terza equazione di Maxwell.
Anche la risonanza magnetica sfrutta le proprietà del campo magnetico a fini diagnostici; non a caso, è sconsigliata per i portatori di pacemaker cardiaco, per l’influenza che i campi magnetici possono esercitare sui campi elettrici, alla base del funzionamento dei pacemaker.
Le equazioni di Maxwell hanno inoltre aperto il campo alle innumerevoli applicazioni delle onde elettromagnetiche, che sono alla base di tutte le comunicazioni senza fili, tra le quali la diffusione dei segnali televisivi, il funzionamento dei nostri cellulari e delle reti wi-fi.
Il grande merito di questo libretto di sole 130 pagine in piccolo formato è la modalità con cui vengono spiegate le equazioni di Maxwell, una modalità intuitiva, arricchita da molte figure, ma nello stesso tempo rigorosa, tenuto conto che sia l’autore sia il traduttore sono fisici professionisti.
Inoltre il libro, pur presupponendo una conoscenza di base dell’analisi matematica, introduce e spiega in dettaglio lo strumentario matematico necessario alla comprensione delle equazioni, anche questo in una modalità intuitiva e con molte figure esplicative.
Le equazioni di Maxwell sono quattro: la legge di Gauss per i campi elettrici; la legge di Gauss per i campi magnetici; la legge di Faraday e la legge di Ampere-Maxwell. Le prime due equazioni descrivono le caratteristiche del campo elettrico e del campo magnetico. La terza equazione descrive come un campo magnetico variabile produca un campo elettrico. La quarta equazione descrive due fenomeni: il primo è la produzione di un campo magnetico da parte di una corrente elettrica costante (per esempio, un filo percorso da una corrente continua produce un campo magnetico), fenomeno ben conosciuto già prima di Maxwell; il secondo fenomeno, evidenziato per la prima volta dallo stesso Maxwell, è il fenomeno simmetrico di quello descritto dalla legge di Faraday: anche un campo elettrico che cambia nel tempo produce un campo magnetico. È il fenomeno sfruttato nei motori elettrici, come già ricordato. Ogni equazione è presentata in un capitolo dedicato, sia nella forma integrale che differenziale.
Come si accennava in premessa, la comprensione di questo testo prevede una conoscenza di base dell’analisi matematica. Tutte le altre nozioni necessarie alla comprensione sono comunque spiegate nel testo. In particolare, sono trattati i concetti di prodotto scalare e vettoriale, di integrale di linea, di superficie e di volume. Sono poi illustrati gli operatori gradiente, divergenza e rotore, nonché il teorema della divergenza (che lega integrali di superficie a integrali di volume) e quello di Stokes (che lega integrali di linea a integrali di superficie). Se l’enunciazione astratta di questi teoremi può apparire in prima battuta complicata, la loro rappresentazione grafica consente di comprendere in modo molto intuitivo il significato di queste relazioni, senza dover ricorrere alle dimostrazioni formali (peraltro disponibili su qualunque libro di testo universitario). L’ultimo capitolo descrive come Maxwell sia riuscito a dimostrare per via matematica l’esistenza delle onde elettromagnetiche, a partire dalle quattro equazioni: si tratta di uno dei risultati più significativi del suo lavoro. In fisica si creano infatti due possibili situazioni sperimentali. In alcuni casi un esperimento non spiegabile con le teorie correnti porta all’elaborazione di una nuova teoria, o al raffinamento di una teoria precedente. Ad esempio, la fisica classica di fine ’800 non fu in grado di spiegare il comportamento del corpo nero; solo nel 1900 Max Planck ipotizzò una soluzione che aprì poi le porte allo sviluppo della meccanica quantistica nei primi decenni del Novecento. In altri casi una teoria predice un qualche fenomeno nuovo che viene poi verificato sperimentalmente in un momento successivo. Questo è, per l’appunto, accaduto con le equazioni di Maxwell che hanno “predetto” l’esistenza delle onde elettromagnetiche, verificate poi sperimentalmente alcuni anni più tardi (intorno al 1887) da Heinrich Rudolf Hertz. Un altro esempio molto celebre al riguardo (e piuttosto recente) è la verifica dell’esistenza delle onde gravitazionali, predette dalla relatività generale di Einstein (1916) ma verificate sperimentalmente solo nel 2016 (100 anni dopo la previsione teorica!) grazie a sofisticati apparati, frutto didella collaborazione tra un gruppo di ricerca italiano (progetto VIRGO) e uno americano (progetto LIGO). In questo caso la teoria ha aiutato a identificare il livello di sensibilità che dovevano raggiungere gli apparati di VIRGO e LIGO per poter rilevare onde gravitazionali dovute a eventi cosmici di rilievo, come la collisione di due buchi neri. Può essere interessante notare una certa simmetria tra la scoperta delle onde elettromagnetiche e quella delle onde gravitazionali. In entrambi i casi le equazioni retrostanti (di Maxwell e della relatività generale) predicevano l’esistenza di queste onde; nel caso delle onde gravitazionali, la verifica sperimentale è tardata per la necessità di costruire rivelatori molto sensibili, che hanno richiesto decine di anni di studio e di sperimentazione.
In sintesi, questo volume ha il pregio di presentare in modo molto chiaro e intuitivo gli aspetti fisici e matematici delle equazioni di Maxwell, presupponendo solo una conoscenza di base dell’analisi matematica. Può quindi essere consigliato da un lato a studenti che desiderino migliorare la propria comprensione dei fenomeni elettromagnetici in una prospettiva unitaria prima di addentrarsi nelle dimostrazioni formali (che a questo punto risulteranno molto più semplici) richieste dal loro corso di studi; dall’altro lato, il libro può essere consigliato a qualunque appassionato di fisica che abbia una conoscenza di base dell’analisi matematica e che desideri approfondire le equazioni di Maxwell, senza bisogno di rivolgersi a testi universitari.
Frammenti di chimica
di Pellegrino Conte
C1V editore, 2018
pp. 236, € 15,00
Recensione di Simone Raho
Una breve premessa: il libro, come sottolinea lo stesso autore nell’introduzione, risulterà di non facile comprensione a chi sia completamente digiuno di chimica. Ma personalmente non considero tutto ciò necessariamente uno svantaggio, né il lettore incuriosito e alle prime armi deve farsi scoraggiare da quanto appena detto: infatti, le semplici conoscenze delle scuole superiori saranno più che sufficienti per seguire agevolmente la lettura. E, d’altronde, proprio uno dei messaggi-chiave che l’autore vuol far passare con la lettura di questo volume, è che «la scienza non è per nulla facile», intendendo con ciò che, per poter comprendere e padroneggiare agevolmente uno qualunque dei suoi settori, sono indispensabili anni di studio e sacrifici.
Ma si sa, viviamo nell’era dell’informazione “mordi e fuggi”, dove più che la qualità, il rigore e l’affidabilità delle notizie, sono il sensazionalismo, il clamore, la condivisione social, il clickbaiting a occupare un ruolo di grande rilievo; non è importante che ciò che si dice sia vero o corretto, ma piuttosto che faccia scalpore: il sensazionalismo gridato che vince sulla pacata correttezza.
In questo sconfortante quadro generale, il libro di Pellegrino Conte è come un’àncora di salvezza, un faro di luce in mezzo a un mare di ignoranza e fake news. E si sa che le bufale in ambito scientifico possono essere molto pericolose.
L’autore, professore ordinario di Chimica agraria presso l’Università degli studi di Palermo, è già noto al pubblico in quanto gestisce da tempo una pagina Facebook e un blog a carattere scientifico. Pertanto questo libro completa e amplia l’attività divulgativa che da qualche anno vede impegnato Pellegrino Conte. Tra gli argomenti centrali del suo volume trovano ampio risalto le presunte proprietà benefiche di alcuni tipi di acqua (e l’importanza di saper leggere correttamente le etichette), una analisi dettagliata di ciò che si sa sull’omeopatia e un dettagliato capitolo sugli zuccheri e i dolcificanti, argomento molto di moda tra i consumatori.
Il libro, visti anche gli argomenti trattati, è estremamente rigoroso pur mantenendo il suo carattere divulgativo. I tecnicismi, quando presenti, non sono mai ridondanti, o fini a se stessi; tutt’altro: risultano pienamente funzionali e ben integrati nel testo, e in ogni caso sono ben spiegati e chiariti dall’autore.
Al di là dei singoli argomenti tecnici trattati, il volume è una interessante descrizione di cosa sia la scienza e di come operi, che consente di apprezzare l’importanza dei dati oggettivi rispetto alle opinioni personali. Grazie a questo suo impianto, il testo aiuta anche a sviluppare quell’utilissimo spirito critico che può aiutare a contenere, o quantomeno limitare, i danni provocati dalla diffusione di teorie o informazioni pseudoscientifiche. Il che non mi sembra cosa di poco conto.
I numeri e la nascita delle civiltà
di Caleb Everett
FrancoAngeli editore, 2018
pp. 282, € 25,00
Recensione di Marco Giorgerini
Le zone ibride, si sa, sono le più interessanti. L’ultimo lavoro di Caleb Everett non lascia dubbi in proposito: se ne sta lì, immobile, all’incrocio tra psicologia, antropologia e linguistica (e matematica, in qualche misura, e biologia...). Del resto, non potrebbe essere altrimenti, considerando che il suo scopo è quello di ragguagliarci sullo stato delle conoscenze relative all’invenzione dei numeri nella millenaria storia delle civiltà umane.
Naturalmente, l’autore – docente di Antropologia all’Università di Miami – non si limita a informarci sugli studi altrui, ma avanza anche una propria ipotesi riccamente argomentata e parzialmente accennata già nel sottotitolo: «Un’invenzione che ha cambiato il corso della storia».
I sostenitori dell’ipotesi innatista ritengono che l’essere umano sia, per così dire, naturalmente portato a sviluppare un senso numerico; chi avversa questo punto di vista sottolinea invece l’importanza della cultura matematica e i suoi effetti su chi nasce in un contesto in cui è parlata una lingua numerica. Passa da qui, evidentemente, la differenza tra scoperta e invenzione dei numeri.
Prima di tutto, però, dobbiamo chiederci che cosa siano i numeri.
Potremmo pensare che essi siano strumenti per quantificare il mondo, e sarebbe una supposizione ragionevole. Tuttavia, una definizione del genere non considererebbe la loro natura simbolica. I numeri, insomma, sono “strumenti cognitivi”, sono concetti astratti e non semplici fotografie del mondo. Le quantità che la realtà ci presenta ogni giorno nelle più varie forme (dalle quattro stagioni ai ventinove giorni del ciclo lunare) esistono indipendentemente dal nostro sguardo, ma le quantità non sono ancora numeri. Sono la base, il punto di partenza, l’innesco che dà il via a un fondamentale processo mentale: «Le quantità e la corrispondenza tra quantità esistono indipendentemente dall’esperienza mentale degli esseri umani [...]. I numeri, però, sono le parole e altre rappresentazioni simboliche che usiamo per discriminare le quantità» (p. 30). Si tratta ora di capire come sia stato possibile percorrere la strada che dalle quantità porta al simbolo numerico. Naturalmente, non ci sono risposte definitive. Ciò che Everett (insieme a molti altri studiosi) immagina è che tutto parta dalle mani. In un certo senso, la capacità di inventare i numeri sarebbe un effetto secondario del bipedismo. Gli altri primati che usano gli arti superiori per deambulare non possono contemplare le loro estremità con la stessa autentica ossessione che caratterizza la nostra specie. «Siamo una specie ossessionata dalle mani» (p. 49), scrive l’autore. E aggiunge: «Trasferire il conteggio con le dita ai sistemi di calcolo materiali richiede un salto cognitivo meno impegnativo rispetto a quello necessario per la creazione di qualsivoglia altra forma di rappresentazione visuale di concetti astratti» (p. 50).
I nostri antenati, insomma, avrebbero colto una corrispondenza tra le proprie dita e alcune quantità. Una volta stabilito tale rapporto, è stato necessario dare un nome alle quantità non ancora concettualizzate. Attenzione, però: le parole non sono semplici etichette da apporre a concetti già esistenti. Il loro ruolo, cioè, sarebbe quello di segnaposti per concetti non ancora pienamente sviluppati, il cui significato potrà essere completamente formato solo dopo che le parole, appunto, li avranno resi definibili e definiti. Ha luogo quella fitta rete di feedback tra linguaggio, pensiero e corpo visibile anche nel caso della cosiddetta embodied cogniton (cognizione incarnata). I nostri schemi mentali hanno spesso un’origine eminentemente corporea. L’«influenza fisica sul pensiero» (p. 82) emerge in maniera particolarmente evidente nel pensiero quantitativo.
I numeri sono dunque una pura invenzione? Non esattamente. In realtà Everett ribadisce più volte un punto fondamentale. Lo fa molto spesso, con una ripetitività che tuttavia non infastidisce e che, anzi, agevola la memorizzazione. Gli umani – e, pare, alcune altre specie animali – sono dotati di due sensi numerici geneticamente dati: il senso numerico approssimato e il senso dei numeri esatto. In altre parole, siamo capaci fin dagli albori della nostra vita di distinguere le piccole quantità in modo preciso e di approssimare quelle più grandi.
Serve però la trasmissione delle conoscenze numeriche perché possa dispiegarsi il «potenziale dei due sensi dei numeri» (p. 171), servono le parole che definiscono i numeri (esistono anche rarissime civiltà anumeriche: è il caso dei Pirahā, popolazione indigena dell’Amazzonia).
C’è molto altro, in queste pagine. Il lettore che si chieda quando abbiamo iniziato a usare i numeri e quale legame essi abbiano con l’agricoltura e persino con le religioni, quale sia il ruolo dello zero e a quando risalga la sua invenzione, troverà qui ogni risposta. E troverà, soprattutto, nuove domande da porre. Ed è forse questa la cosa più importante.
La verità su Medjugorje
di Marco Corvaglia
Lindau editore, 2018
pp. 360, € 22,00
Recensione di Marco Giorgerini
Immagino che quasi ogni lettore di Query consideri le presunte apparizioni della Madonna a Medjugorje un inganno che va avanti da quasi quarant’anni. Il punto, però, è definire meglio le sue dimensioni, la sua natura, le sue conseguenze. Per farlo è necessario leggere La verità su Medjugorje, documentatissimo volume di Marco Corvaglia (si tratta della seconda edizione, riveduta e ampliata, del testo pubblicato nel 2007).
Com’è noto, la piccola località rurale bosniaca è assurta agli onori delle cronache a partire dall’estate del 1981, quando sei ragazzi di età compresa tra i dieci e i diciassette anni e tutti imparentati tra loro affermarono di aver visto la Madonna e di averle parlato. Oggi Medjugorje è una delle principali mete di pellegrinaggio: accoglie oltre un milione di pellegrini all’anno, due terzi dei quali sono italiani.
Tutto ebbe inizio quando, il 24 giugno 1981, Ivanka Ivanković e Mirjana Dragićević fecero una passeggiata verso il Podbrdo, la modesta altura che sovrasta Medjugorje. In quell’occasione, stando alle loro dichiarazioni, alle due ragazze sarebbe apparsa la Signora (Gospa, in lingua croata) circonfusa di luce. È questo, per così dire, l’atto fondativo del fenomeno, e già emergono contraddizioni sospette.
Intervistata nel 2001 da padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, Mirjana smentì categoricamente la «vecchia storiella» secondo la quale lei e Ivanka avrebbero lasciato il villaggio per andare a fumare. In realtà, nota l’autore, «la vecchia storiella era stata precedentemente ammessa da lei stessa e immortalata su nastro magnetico» (p. 17).
Naturalmente, si tratta di una piccola menzogna di per sé trascurabile. Vi faccio riferimento, però, perché è emblematica: è la prima timida autosmentita che dà la stura a una serie di «stranezze e contraddizioni» (è il titolo del primo capitolo del libro), tali da spingere quantomeno a un moderato scetticismo anche il più accanito dei credenti. Ciò non succede, lo sappiamo, per motivi meramente psicologici, che si radicano nell’innato bisogno di credere e di cercare sollievo sentendosi parte di un disegno superiore. Non è possibile passare in rassegna tutte le incongruenze e le “retromarce” che, se osservate con occhio disincantato, risultano sorprendenti. L’abuso della credulità popolare tocca vette inimmaginabili, ma come vedremo è solo un aspetto – e forse neppure il più grave – che caratterizza il maggior circo Barnum della religione che religione non è. Cosa sarebbe, infatti, più offensivo e irrispettoso verso un’ipotetica divinità di questa concezione svilente e tutta materialistica, di questo ridurre le grandi domande di senso alle puntuali apparizioni di una Madonna pronta a dettare messaggi ai veggenti?
Siamo di fronte a individui che sostengono candidamente di essere ascesi in Paradiso. E non durante una trance mistica, beninteso. Il 19 novembre 1981 (ma ci sono incertezze sull’anno, eppure sembra strano che esperienze così importanti siano soggette alla dimenticanza) sarebbero stati presi per mano dalla Gospa e portati fisicamente in cielo: «In un attimo il tetto della casa si è aperto [...] e abbiamo cominciato a volare» (pp. 102-103). Una grande porta di legno segnava l’ingresso del Paradiso, e accanto «vi era un uomo piccolo, un po’ tarchiato, con i capelli e la barba» (p. 103), ovvero san Pietro.
Mirjana riferisce persino di aver ricevuto dalla Madonna in persona una sorta di pergamena magica fatta di un materiale non esistente sulla Terra. Ovviamente, per volere della Vergine tale reperto non può essere mostrato. Per inciso, colui che è stato a lungo ritenuto una guida dei veggenti e che poi è caduto in disgrazia, Tomislav Vlašić, sostiene di occuparsi in gran segreto dell’evangelizzazione di altri pianeti.
Oltre a ciò, dicevo, c’è il fattore economico. Come prevedibile, i veggenti hanno tratto profitto dalla loro attività. Marija ha edificato su un terreno di sua proprietà un albergo (il Magnificat) con 54 camere, una sala per le conferenze e una cappella; Ivan è proprietario di una villa imponente e di un terreno di quasi 1300 metri quadrati...
Non solo: l’indotto Medjugorje registra sistematicamente un’evasione fiscale massiccia (tra il 1981 e il 2013, stando al ricercatore croato Čuljak, «il 32% delle entrate totali è stato ottenuto legalmente e il 68% illegalmente» (p. 187), e l’assunzione di lavoratori in nero è una pratica diffusa.
Ad oggi, le commissioni incaricate di indagare sulle apparizioni hanno decretato che non constat de supernaturalitate (non è evidente la soprannaturalità). Le conclusioni dell’ultima, voluta nel 2010 da Benedetto XVI, non sono ancora state divulgate. C’è da aspettarsi, comunque, che nessuna parola chiara e definitiva verrà pronunciata sulla questione Medjugorje. È prevedibile che tutto continui così, «senza approvazioni ufficiali ma anche senza divieti (il che è ciò che più interessa alle schiere di devoti)» (p. 288).
L’officina di Nostradamus
di Paolo Cortesi
Carocci editore, 2018
pp. 183, € 17,00
Recensione di Anna Rita Longo
È il protagonista di una bibliografia fittissima, che ogni anno, ai quattro angoli del pianeta, propone nuove interpretazioni della sua opera. Gli vengono dedicate trasmissioni televisive, che ne ripercorrono sotto una luce sempre nuova la vicenda e gli scritti, e il suo nome è su una quantità incredibile di titoli di giornale. In Giappone, paese nel quale è popolarissimo, ha fatto capolino anche nei manga. Ma è internet il suo vero regno, con una quantità sempre crescente di siti dedicati al più noto veggente di tutti i tempi: Nostradamus. Una rapida rassegna della sconfinata produzione web dedicata all’astrologo provenzale del XVI secolo è sufficiente per rendersi conto che se c’è un concetto sistematicamente associato a Nostradamus questo è quello di “infallibilità”. Nostradamus non sbaglia, si legge, e questo non vale tanto o solo in riferimento ai suoi tempi, ma soprattutto quando si parla del futuro. Futuro in rapporto all’astrologo, chiaramente, anche se, a ben vedere, quando si individua la profezia del veggente, l’evento, per così dire, “previsto” appartiene già al passato. Le centurie di Nostradamus sembrano, infatti, gravate dalla strana maledizione per la quale ciò a cui sembrano fare riferimento è chiaro solo a posteriori. Un altro fenomeno è quello della fluidità di questa interpretazione, che tende a variare nel corso del tempo, per cui la stessa centuria è stata soggetta a decine di diverse letture secolo dopo secolo, senza però che la presunta infallibilità del veggente ne venisse scalfita.
D’altra parte, se non mancano, per quanto minoritarie, le letture scettiche dell’opera di Nostradamus, quello di cui ancora si sentiva la mancanza è un’opera che affrontasse il mito di Nostradamus servendosi degli strumenti critici della ricerca storica e che riportasse la figura del veggente provenzale a una testimonianza del periodo e del contesto in cui è vissuto, e ci presentasse un Nostradamus uomo tra gli uomini del proprio tempo. È questo che sembra l’intento di Paolo Cortesi, che, in questo libro, si propone di liberare la figura del veggente rinascimentale dalle sovrastrutture del mito per restituirci un Nostradamus che ci parla del suo tempo e del suo tempo è espressione. E, come l’autore mette chiaramente in evidenza, Nostradamus fu in effetti il tipico intellettuale del Rinascimento, periodo in cui il furor profetico andava diffondendosi a macchia d’olio. Dell’epoca storica in cui viveva è anche prodotto – nota Cortesi – il mito della monarchia universale, che l’autore individua come tema centrale delle centurie. Ma nelle profezie si notano anche altri elementi dei suoi tempi, come l’acceso eurocentrismo o i riflessi dei conflitti religiosi tra cattolici e protestanti. Se i posteri hanno fantasticato molto per trovare corrispondenze tra eventi del futuro e versi delle centurie, in realtà è molto più immediato notare come sia dei propri tempi che l’astrologo sta parlando. E se si lascia andare l’idea dell’infallibilità, si scopre un Nostradamus fallibile e umanissimo, non particolarmente versato nei calcoli astrologici, ansioso di compiacere i propri committenti e preoccupato di evitare i problemi legati ai conflitti tipici della sua epoca. Nel restituire l’umanità della figura, Cortesi contribuisce anche a spazzare via l’idea di un futuro ineluttabile, cristallizzato nelle centurie. Che, a ben guardare, parlano di Nostradamus e dei suoi tempi, non dei nostri, che è responsabilità degli uomini di oggi costruire.