Astrofisica per chi va di fretta
di Neil deGrasse Tyson
Raffaello Cortina Editore, 2018
pp. 140, € 14
Recensione di Marco Giorgerini
La cosa peggiore del libro è il titolo. La migliore è l’efficace psicoterapia da cui il lettore, che ingenuamente penserà di avere a che fare con un testo di divulgazione scientifica, trae un indubbio beneficio. Lo dico un po’ provocatoriamente, ma non mi discosto molto dal vero.
Astrofisica per chi va di fretta è, per la verità, un buon lavoro divulgativo. Neil de Grasse Tyson ha il pregio della chiarezza e sa bene che vince chi espone in modo limpido e scorrevole concetti complessi e non chi costruisce circonlocuzioni a effetto per intorbidire le acque e per tentare invano di rendere interessante un contenuto di poco valore.
Il titolo, dicevo, fa temere il peggio (ed è responsabilità dell’autore o, comunque, non della casa editrice italiana: l’originale è l’equivalente Astrophysics for People in a Hurry). A dirla tutta, fa pensare a una sorta di Astrofisica for dummies, l’ennesima americanata brillante nello stile e povera nella sostanza, ma buona per far cassa in un periodo in cui parlare di fisica è sufficientemente cool.
Niente del genere: in 140 pagine e 12 brevissimi capitoli Tyson incuriosisce chi legge e trasmette tutta la sua passione per questa disciplina. E non si limita a questo, naturalmente. Vengono affrontati diversi argomenti in maniera inevitabilmente (troppo) rapida ma senza scadimenti in semplificazioni grossolane. La loro varietà, unitamente a una vena ironica che affiora in più luoghi e a un certo gusto per gli aneddoti, rende la lettura godibile anche per gli appassionati meno ferrati in materia.
L’astrofisico ci conduce nell’Universo primordiale («Quando tutto ebbe inizio [...], tutto lo spazio, tutta la materia e tutta l’energia dell’Universo conosciuto erano contenuti in un volume inferiore a un milionesimo di milionesimo di quello occupato dal punto che conclude questa frase», p. 15) e ci presenta alcuni interrogativi che animano oggi il dibattito scientifico (penso agli ammassi di galassie che si muovono con velocità maggiore della velocità di fuga senza disgregarsi, ovvero a «ciò che resta a oggi il mistero più a lungo irrisolto in astrofisica», p. 51, e che ha portato a ipotizzare l’esistenza della materia oscura). Affronta quella specie di “gravità negativa” che si contrappone alla gravità cosmica e che permette all’Universo di espandersi sempre più (mi riferisco all’energia oscura), ci propone una gustosa ricognizione degli elementi chimici fabbricati dal Big Bang o prodotti nei cuori roventi delle stelle e ci informa sugli esopianeti (una quarantina di miliardi solo nella Via Lattea).
Insomma, Tyson fa quel che può, considerando anche il poco spazio a disposizione. Il risultato è decoroso, ma ovviamente rappresenta poco più che uno sprone all’approfondimento. E, del resto, non è forse questo il miglior risultato ottenibile con una pubblicazione del genere? Il vero punto di forza, però, sta nell’insistito ridimensionamento dell’ego del lettore.
Lo scienziato, a volte con sadico e malcelato compiacimento, sgretola la presunzione dell’uomo di sentirsi in qualche modo speciale: «In un’anonima parte dell’Universo (alla periferia del Superammasso della Vergine), in un’anonima Galassia (la Via Lattea), in un’anonima regione (il braccio di Orione), si formò un’anonima stella (il Sole)» (p. 22).
Nell’ultimo capitolo racconta di aver ricevuto una lettera da un professore di psicologia, docente in un’università della Ivy League, «esperto di cose che fanno sentire le persone insignificanti» (p. 123). Molti spettatori, scriveva il professore, erano rimasti turbati dopo aver assistito allo spettacolo sullo spazio ospitato nel 2000 dall’Hayden Planetarium di New York. In quell’occasione avevano avuto modo di osservare il nostro pianeta, il Sole e le altre stelle. Tutto si rimpiccioliva col variare del livello di zoom e della scala di osservazione. Dalla Terra alle stelle, dalle stelle alle galassie e ai superammassi di galassie… Tutto diventava un punto insignificante sperduto nelle sconfinate geometrie celesti.
Evidentemente, obietta lo studioso, l’ego del professore e delle persone scioccate da quell’esperienza era «ingiustificatamente grande, gonfiato da illusioni di significato e nutrito dal preconcetto culturale che gli esseri umani sono più importanti di qualsiasi altra cosa dell’Universo», eppure «ci sono più batteri vivi e attivi in un centimetro del mio colon di tutti gli esseri umani che siano mai esistiti al mondo» (p. 124).
Astrofisica per chi va di fretta è una vertigine destabilizzante per ego ipertrofici. È un invito a relativizzare, a mettere in prospettiva, ad abbandonare pretese di senso e illusioni finalistiche.
In esergo una considerazione emblematica che meriterebbe di essere mandata a memoria e recitata più volte al giorno: «L’Universo non è obbligato ad avere un senso per te».
LSD
di Agnese Codignola
UTET, 2018
pp. 270, € 19
Recensione di Marco Giorgerini
Si intitola LSD. Da Albert Hofmann a Steve Jobs, da Timothy Leary a Robin Carhart-Harris: storia di una sostanza stupefacente, ma l’ultimo lavoro di Agnese Codignola avrebbe potuto intitolarsi anche LSD. Storia di uno stigma al tempo di Internet e dell’Intelligenza artificiale.
Di questo si tratta, secondo l’autrice: una demonizzazione moralistica che non prende in considerazione gli studi scientifici e che conosce solo la lingua dei divieti ha investito per decenni l’allucinogeno più famoso al mondo. Ultimamente, però, le cose stanno cambiando.
Beninteso, c’è chi non ha mai smesso di studiare l’LSD, tra mille ostacoli, ma questi anni sembrerebbero caratterizzati da una Psychedelic Renaissance. La storia, a grandi linee, è nota.
Nella primavera del 1943 Albert Hofmann, chimico svizzero attivo alla Sandoz di Basilea, lavora su un composto da lui sintetizzato cinque anni prima e accantonato perché ritenuto privo d’interesse. Allora lo scienziato si stava dedicando allo studio di un fungo, la Claviceps purpurea, in grado di provocare nei cereali una malattia nota come «segale cornuta». Quando nel 1943 torna a fare esperimenti con la dietilammide-25 dell’acido lisergico (LSD è la sua sigla, 25 il numero della provetta in cui è contenuta) ne assorbe involontariamente una piccola quantità, probabilmente tramite il contatto con le mani, ed è colto da vertigini e irrequietezza. Ha anche una sorprendente visione. Spaventato e incuriosito – mosso da quello spirito scientifico che lo porterà a sperimentare su se stesso gli effetti ancora ignoti di molti allucinogeni e che contribuirà al suo inserimento in testa alla classifica dei cento geni viventi più importanti di sempre stilata nel 2007 dal forum Creators Synectics – decide di assumerne una dose massiccia.
È il 19 aprile 1943 (data ricordata ancora oggi come «giorno della bicicletta») e il chimico è il primo uomo nella storia ad assumere intenzionalmente LSD. Le visioni lo sorprenderanno mentre guida la sua bicicletta per tornare a casa. Lo studioso si accorge che lo psichedelico coinvolge uno specifico neurotrasmettitore, la serotonina, e subito pensa a come impiegare la molecola per curare vari disturbi psichici.
Le potenzialità del composto sono studiate da psichiatri di tutto il mondo. Si tratta, invero, di ricerche tutt’altro che ineccepibili sul piano metodologico, ma nondimeno rivelatrici di un clima di apertura e interesse verso il «bambino difficile » (questa è la definizione dell’LSD che il chimico elvetico adopera in un suo noto libro). Il primo studio è datato 1947, e nel 1951 sono già oltre un centinaio gli articoli pubblicati. In anni di poco successivi se ne occuperà, ma è solo un esempio tra mille possibili, lo psichiatra Humphry Osmond. Noto per aver iniziato all’LSD lo scrittore Aldous Huxley e per aver coniato il termine «psichedelico», è anche colui che si è speso moltissimo per divulgare le nuove terapie (psichedelica e psicolitica) che contemplano l’uso dell’allucinogeno.
Nel 1966 la sostanza è messa al bando e lo stigma la segnerà, praticamente, fino ai giorni nostri. A contribuire a ciò vi è l’operato di personaggi celebri che, certo senza averne l’intenzione, hanno concorso a screditare l’acido lisergico e le molecole dagli effetti simili (la psilocina e la psilocibina dei “funghi magici”). Dal divo di Hollywood Cary Grant fino all’istrionico psicologo, attore e scrittore Timothy Leary.
Ma cosa ci dicono gli ultimi studi? Oggi l’inglese Robin Carhart-Harris è una delle massime autorità in materia. È proprio il giovane ricercatore a presentare alla Royal Society di Londra, il 13 aprile del 2016, quello che è stato definito «il bosone di Higgs delle neuroscienze». Di fatto, Carhart-Harris conferma sperimentalmente le intuizioni di Hofmann sull’«Ego dissolution», di cui spiega il funzionamento biochimico.
L’LSD e la psilocibina sono cioè capaci di resettare le circuiterie cerebrali alla base di automatismi psichici dannosi. Con un adeguato sostegno psicologico, il paziente «una volta azzerati i circuiti patologici, [...] può ripartire con una costruzione di connessioni diverse» (p. 190).
Naturalmente esistono effetti negativi, anche gravi, e persino la remota possibilità di sviluppare un «disturbo persistente della percezione da allucinogeni» (HPPD), «uno stato in cui gli effetti visivi dell’alterazione della coscienza [...] persistono per giorni, o a volte per anni» (p. 121).
Ma è giusto ostacolare gli studi su sostanze che mostrano potenzialità cliniche positive solo perché serbiamo memoria dei danni che il loro uso dissennato e “fai da te” ha provocato? Chiaramente non si tratta di rivalutare l’uso dell’allucinogeno a scopo ricreativo. La ricerca, non ostacolata da resistenze anacronistiche, potrebbe, però, condurre a un suo utilizzo controllato in ambito medico. L’LSD sembra, infatti, fornire un contributo prezioso nel caso di dipendenze da superare, nel disturbo posttraumatico da stress e per alleviare l’angoscia dei malati terminali.
Il trucco c’è e si vede
di Beatrice Mautino
Chiarelettere, 2018
pp. 240, € 15
Recensione di Simone Raho
Se, con un’analisi frettolosa e superficiale, credete che questo libro sia semplicemente una versione un po’ più corposa di certe riviste patinate di moda e gossip che si trovano in edicola, lo dico chiaramente, vi sbagliate di grosso.
Tutt’altro: il testo va a coprire, a parer mio, un vuoto editoriale che finalmente riesce a essere colmato: quello di un’informazione attendibile sui cosmetici.
Partendo dal presupposto che, a oggi, studi affidabili e imparziali sui trattamenti cosmetici non ve ne sono, in quanto molto spesso programmati dalle stesse ditte produttrici, l’autrice ci prende per mano e ci accompagna in un viaggio intrigante alla scoperta degli stratagemmi adottati dalle aziende per convincerci che i loro prodotti sono validi ed efficienti.
Viviamo nell’era dell’informazione “mordi e fuggi”, il battage pubblicitario è spesso aggressivo e ambiguo, e pertanto non è facile discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Beatrice Mautino, divulgatrice avvezza a certi tipi di strategie, svela in maniera semplice e chiara cosa può fare il consumatore per non essere ingannato da queste tecniche di marketing aziendale. Stesso discorso per quel che riguarda il mondo del “bio” o del “naturale”, molto spesso idolatrato oppure visto come panacea di tutti i mali: perché, si sa, questi termini sono tranquillizzanti, positivi e, sotto ogni punto di vista, contribuiscono a dare un senso di sicurezza al consumatore. Anche in questo caso, però, il messaggio può essere artificioso o sfruttato indebitamente dalle aziende: l’autrice è perfettamente a suo agio nel dipanare la questione e svelare trucchi e inganni che subdolamente possono annidarsi nel patinato mondo delle campagne pubblicitarie. Ne è un perfetto esempio il cosiddetto Biodizionario, osannato in rete quale bibbia imprescindibile per separare gli ingredienti contenuti nei cosmetici in accettabili o meno, attribuendo loro un contrassegno rosso, giallo o verde, come il più classico dei semafori in mezzo al traffico più caotico. In realtà l’autrice ci spiega che nessuna motivazione plausibile è fornita da parte di chi assegna tali bollini, e ciò fa sì che i giudizi assegnati siano del tutto arbitrari.
Lo stile adottato da Beatrice Mautino è diretto, senza fronzoli, in alcuni frangenti munito di un pizzico di sottile ironia, il che non guasta. Ciò nulla toglie, in ogni caso, alla rigorosità con cui sono trattati tutti gli argomenti, sempre provvisti di riferimenti ad articoli scientifici o rimandi a eventuali letture consigliate e approfondimenti.
Un libro utilissimo per chiunque voglia guardare oltre le etichette colorate e cercare di capirne qualcosa in più. Certo, dopo questa lettura magari qualche nostra convinzione sull’argomento cadrà, ma d’altronde, come ha modo di affermare la stessa autrice in un passo del libro, «tutti pensiamo che la scienza ci dia certezze, invece no. Il regalo più grande che ci fa è proprio non darci certezze».
L’architetto dell’invisibile
Marco Malvaldi
Raffaello Cortina editore, 2017
pp. 206, € 19
Recensione di Valentina Sordoni
Immaginare un architetto all’opera è un po’ come fantasticare sui progetti improbabili, stravaganti, raffinati – scegliete gli aggettivi che volete – che potrebbero uscire dalla sua testa, frutto dei mirabolanti voli della fantasia ma anche di precise misure matematiche, calcoli e congetture che danno forma alla meraviglia davanti ai nostri occhi, che sia un palazzo, una fontana o un portaombrelli poco importa.
Poi ci sono i chimici, che come qualsiasi architetto che si rispetti, lavorano con numeri alla mano e una costante vocazione alla bellezza, un’oscillazione tra quantità e qualità.
A raccontarcelo è Marco Malvaldi ne L’architetto dell’invisibile. Ovvero come pensa un chimico edito da Raffaello Cortina Editore. Un viaggio divertente nel mondo della chimica narrato con una buona dose di humour per scoprirne, insieme al linguaggio fatto di atomi, molecole, processi chimici e prodotti finali, i concetti-chiave alla base di una riflessione critica che non rischi di solubilizzare la chimica in banalità sconcertanti.
Per esempio, la sempreverde distinzione tra «naturale » e «artificiale» che, se arrovella i filosofi sui banchi accademici, fornisce molto spesso spunti appetitosi per la chiacchierata al BarLume (concedetemi l’omaggio). Allora, chiarire perché il chimico la rifiuti, significa riflettere oltre le comuni opinioni e sapere, per esempio, che una molecola di sintesi ha un’identica funzionalità della stessa distillata dalla pianta; ammettere il contrario, dichiara Malvaldi, è «come dire che la parola “fungo”, stampata in caratteri a piombo, ha due diversi significati a seconda che sia stata stampata con caratteri nuovi di zecca oppure comprati al mercatino dell’usato» (p.13). Significa intendersi sul significato di «artificiale» e sfuggire il fraintendimento, sempre dietro l’angolo e molto à la page, che «naturale» equivalga a benefico.
Significa intendersi, ancora, su «costi» e «benefici», per analizzare la funzione sociale della chimica stemperando i luoghi comuni con dati scientifici ufficiali, perché, scrive l’autore, «Non è giusto, né onesto, mettere dei cadaveri su una bilancia per giudicare l’operato di una disciplina, ma è necessario ricordare che i progressi della chimica, oltre ad aver avvelenato molte persone, hanno anche salvato la vita a molte altre» (p. 16). Malvaldi ci spiega tutto questo e molto altro, attraverso un iter dal mondo microscopico al macroscopico, dall’atomo al polimero, senza trascurare l’affascinante perfezione della tavola periodica. Un percorso ricco di riferimenti storici e similitudini spiritose, condito di aneddoti spassosi raccontati con l’entusiasmo dell’appassionato, convinto che un aggettivo sia davvero inappropriato per la chimica, quello di «noiosa».
La pitonessa, il pirata e l’acuto osservatore
di Francesco Paolo de Ceglia e Lorenzo Leporiere
Editrice Bibliografica, 2018
pp. 280, € 19,50
Recensione di Anna Rita Longo
Il 13 maggio 1918 si spegneva in solitudine e miseria una delle più famose medium di tutti i tempi e probabilmente la spiritista italiana più conosciuta nello scenario internazionale, anche per l’interesse manifestato nei suoi confronti da parte di noti scienziati. Si trattava di Eusapia Palladino, alla cui vicenda, cento anni dopo, gli storici della scienza Francesco Paolo de Ceglia e Lorenzo Leporiere hanno dedicato questo libro. Una figura particolare, quella di Eusapia, che l’esposizione di de Ceglia Leporiere restituisce in tutta la sua complessità. Dal punto di vista dei “signori” che ospitavano le sue sedute o vi assistevano, era facile fermarsi all’immagine dell’umile popolana che lavorava come domestica e non conosceva neppure l’ortografia del proprio nome, che infatti veniva molto spesso riportato come Sapia (non si sa bene se con l’accento del noto personaggio dantesco oppure no). Ma le circostanze storiche, che la mostrano destreggiarsi con abilità in situazioni anche difficili e persuadere delle sue facoltà medianiche anche scienziati famosi, sono la prova di un intelletto vivace, che è uno dei motivi alla base del suo successo. Un’altra importante ragione si trova nella temperie culturale caratteristica del Positivismo della seconda metà dell’Ottocento e del Novecento, indagata dagli autori in modo accurato e convincente. Il libro non si limita, infatti, a raccontare di Eusapia, ma è in primo luogo un saggio di storia della scienza e una riflessione epistemologica sul tema – difficile e molto dibattuto, anche tra le pagine di Query – della demarcazione tra scienza e pseudoscienza. Tra gli ammiratori di Eusapia (scettici in un primo momento, poi sempre più convinti) si annoverano le personalità più in vista della scienza ottocentesca, per esempio il premio Nobel Pierre Curie, oppure Cesare Lombroso che affermava: «i fatti esistono e io dei fatti mi vanto di essere schiavo». Una posizione la cui ingenuità oggi appare chiara, visto che è pressoché impossibile individuare e leggere un “fatto” senza un sistema di riferimento interpretativo, che può determinare travisamenti ed errori.
Nel seguire la parabola di Eusapia Palladino, gli autorisi soffermano a chiarire tutto il contesto, con ampio riferimento alla storia dello spiritismo, perché sia ben delineato il quadro in cui la storia della medium si va a inserire. E sebbene venga dichiarato di quali capitoli si sia occupato ciascun autore, non si notano cesure nello stile, che appare ben amalgamato dall’inizio alla fine.
La prosa è vivace e molto “visiva” e tratteggia efficacemente le diverse scene. Fa da collante un’ironia garbata, evidente anche nei titoli delle sezioni, spesso costruiti attorno a citazioni e strizzatine d’occhio al lettore.
Chi è vicino agli interessi del CICAP avrà modo di fare importanti riflessioni. Tra queste il fatto che nessun’epoca sia al riparo da derive irrazionalistiche, che sono connaturate all’uomo, che spesso – ricorda Massimo Polidoro nella prefazione – «preferisce bugie confortanti a verità scomode». Ma anche il fatto che la storia della scienza e l’epistemologia sono importanti esercizi del pensiero, senza i quali le fallacie logiche sono sempre in agguato. Anche quando presumiamo che i nostri ragionamenti siano perfettamente razionali.