Il mastino di Darwin
Alessandro Chiometti
Dalia Edizioni, 2016
pp. 158, € 12
Recensione di Maria Pia Viscomi
«Dai, Yuri, dovrai pur ammettere che qualcosa che non si spiega con la tua scienza e la tua razionalità esiste!»
«Io sono disposto solo ad ammettere che c’è qualche fenomeno di cui non abbiamo individuato le cause, ma basta studiarlo con i dovuti mezzi, che attualmente potremmo ancora non avere, e prima o poi lo spiegheremo con le leggi razionali e scientifiche, come abbiamo fatto con il resto dell’universo.»
Quante volte noi scettici razionalisti ci siamo trovati ad affrontare un dialogo simile? Nei panni del guastafeste questa voltasi trova Yuri Doubbos, il protagonista di un avventuroso quanto paradossale thriller. Razionale e agnostico fino al midollo, Yuri sembra essere un tipo a posto: ricco e con un lavoro accademico da traduttore di libri, colto e affascinante ma con una particolarità biologica rara: l’appartenenza alla specie Homo vampirus, ramo evolutivo biforcatosi dai sapiens a causa di una mutazione genetica casuale.
Antagonista del seducente vampiro è Abramo Cantainferno, ispettore di polizia e amante del cinema, impegnato da anni in un’estenuante ricerca attraverso tutta l’Italia di un serial killer di prostitute. Si ritrova ora a Perugia, teatro di nuovi efferati femminicidi. Se il cognome dell’ispettore vi suona strano, provate a tradurlo in inglese e vi ricorderà qualcuno.
Che cosa lega i due personaggi allora? L’ispettore, accortosi delle incongruenze nei vari delitti e di come questi siano stati compiuti da un sadico o da un autentico succhiasangue, decide di mettersi a caccia del vampiro traendo il suo modus operandi dalla passione cinefila per i vecchi film vampireschi come il Bram Stoker’s Dracula di Coppola e l’Ammazzavampiri di Holland.
Yuri, infatti, nonostante non rispecchi i classici stereotipi vampireschi (come la repulsione per aglio e crocifissi o la dissoluzione in cenere se esposti ai raggi solari) necessita del plasma per sopravvivere e quindi non solo ruba le sacche delle trasfusioni dagli ospedali, ma uccide per istinto primordiale le donne di strada ai fini di procurarsi il sostentamento.
Classica storia tipicamente vittoriana alla Dr. Jeckyll e Mr. Hyde o alla Jack the Ripper direste...
In realtà i protagonisti indiscussi di questa vicenda sembrano essere altri, e cioè i principi della teoria evoluzionistica darwiniana.
Lo stesso titolo del romanzo infatti, Il mastino di Darwin, richiama il soprannome che era stato affibbiato a Thomas Henry Huxley,lo scienziato che si batté incessantemente per il superamento del fissismo teologico e, da convinto sostenitore dell'evoluzionismo darwiniano, lo difese dalle accuse della Chiesa soprattutto contro Samuel Wilberforce, vescovo di Oxford.
Il personaggio di Yuri si fa portavoce proprio di quei principi cardine della teoria evolutiva tanto cari a Huxley: in primis la sopravvivenza della specie che, come insegna Darwin, è un meccanismo crudele di adattamento e selezione naturale poiché non sopravvive il più forte bensì chi ha il migliore successo riproduttivo e chi è più reattivo ai cambiamenti. Tra Huxley e Darwin, però, c’era anche qualche differenza di opinione: se volete saperne di più,potete leggere l’interessante articolo di Telmo Pievani al riguardo sul sito Pikaia.
Anche il nostro Yuri, durante la sua vita plurisecolare, ha avuto l’onore di incontrare Huxley e interessante è lo scambio di battute tra i due:
«Abbiamo un empirista galileiano qui!»
«Un fautore del metodo scientifico, e mi creda quando dico che Darwin ha dato e sta dando un senso alla mia vita con la sua teoria e il suo lavoro!»
Da tre secoli, infatti, Yuri è alla ricerca della donna perfetta, che troverà in Federica, per perpetuare la specie. C’è però un grosso problema di matrice biologica: non si conosce l’esistenza di vampire donne e quindi, molto probabilmente, il gene vampiresco che attiva la mutazione è presente solo sul cromosoma Y. Per permettere un’ibridazione fertile, la donna sapiens deve presentare mutazioni genomiche particolari tali da permettere il concepimento di un piccolo Homo vampirus (e se ci è riuscita la nostra specie con i Neandhertal non vedo perché non possa farlo anche un vampiro!). Inoltre la natura di vampiro non dà solo vantaggi, ma anche punti deboli con i quali il nostro Yuri dovrà avere a che fare per tutto l’arco del racconto.
Insomma, Il mastino di Darwin è un modo originale per trasformare la teoria dell’evoluzione in un romanzo, con ironia e passione. Se volete sapere se Yuri riuscirà a evitare la cattura e a trasmettere i geni di Homo vampirus, non vi resta che leggerlo.
Plant revolution
Stefano Mancuso
Giunti Editore, 2017
pp. 272, € 24
Recensione di Marco Giorgerini
Con Plant Revolution, opera vincitrice del Premio Galileo per la divulgazione scientifica, Stefano Mancuso ci diagnostica una grave forma di cecità – una «persistente e inspiegabile plant blindness» (p. 218) – e al tempo stesso ci offre la cura.
Il suo libro getta luce su un mondo, quello delle piante, con cui entriamo in contatto quotidianamente e da cui dipende, né più né meno, la nostra esistenza. Come l’autore ci ricorda nella prefazione, ci serviamo di più di 31.000 specie vegetali per gli usi più disparati: dall’alimentazione alle medicine, dalle fibre tessili alle fonti energetiche. Perché, nonostante ciò, molti sono così ciechi da relegare alberi, erbe e arbusti al ruolo di simpatiche decorazioni o poco più?
Il punto è che i vegetali sono talmente diversi da noi da rappresentare, per il nostro sguardo antropocentrico che assume come unico metro di riferimento l’essere umano, una sorta di entità aliene.
Plant Revolution da un lato evidenzia l’enorme differenza tra umani e piante, dall’altro dimostra quanto abbiamo da imparare da queste ultime.
In uno stile brillante e colloquiale (forse fin troppo, considerando espressioni come «Ah, figo l’erodio!», p. 108, e la ricorrente personificazione delle piante), lo studioso enuclea alcuni aspetti che meritano di essere oggetto di una riflessione tutta incentrata sul presente.
L’architettura urbana, ad esempio, avrebbe tutto da guadagnare se facesse tesoro dei silenziosi insegnamenti delle piante. In realtà, i vegetali l’hanno già più volte ispirata. Basti pensare all’idea rivoluzionaria che permise a Joseph Paxton di progettare una struttura in grado di ospitare la prima Esposizione universale. Nel 1851, a Londra, vide la luce nel giro di pochi mesi l’imponente fabbricato che sarebbe diventato celebre col nome di Crystal Palace. Ebbene, nulla del genere sarebbe stato possibile senza il ricorso a una costruzione modulare che permetteva di rinunciare ai muri portanti e che, soprattutto, consentiva un risparmio di tempo mai così prezioso. Non solo: la volta dell’edificio mostrava un’insolita struttura radiale che lasciò di stucco gli oltre cinque milioni di visitatori.
Alla base di entrambe le idee vi furono le mirabili proprietà della Victoria amazonica, ninfea gigante dotata di foglie in grado di reggere un carico di quarantacinque chili.
Anche l’esplorazione spaziale potrebbe beneficiare degli effetti positivi che le piante esercitano sulla nostra mente. Sappiamo a quali livelli di stress sarebbe sottoposta la psiche di chi fosse costretto a vivere per mesi in un ambiente di pochi metri quadrati insieme ad altri membri dell’equipaggio. Mancuso pensa a un viaggio su Marte, ipotesi a oggi improbabile più per il fattore umano che per difficoltà legate alle tecnologie disponibili. Naturalmente, al di là del benessere mentale che le piante saprebbero produrre (assunto forse non così lapalissiano che meriterebbe di essere ulteriormente approfondito), l’elemento vegetale sarebbe fondamentale in quanto capace di produrre ossigeno rimuovendo anidride carbonica e, naturalmente, come fonte di cibo.
In uno dei capitoli più densi e stimolanti del libro l’autore riconnette alle caratteristiche delle piante concetti apparentemente irrelati come quelli di democrazia, di intelligenza di gruppo e di rete Internet. Con un flusso argomentativo sapientemente costruito, prende in esame il sistema decentrato costituito dalle radici. Così come in certi gruppi animali si riscontrano «comportamenti da sciame» che hanno proprietà specifiche non associabili ai singoli individui, anche gli apici radicali agiscono «come una grande matrice integrata di sensori» (p. 174). Per dirla con Edgar Morin, filosofo e teorico della complessità, «l’organizzazione in sistema produce delle qualità o proprietà sconosciute nelle parti concepite isolatamente: le emergenze» (La sfida della complessità, Firenze, Le Lettere, 2011). Da qui al web, in cui ognuno di noi è parte di un insieme la cui impersonale “intelligenza” trascende la mera sommatoria delle intelligenze dei singoli, poi, il passo è breve.
Questi esempi, e molti altri che i lettori potranno trovare in queste pagine, ci danno la misura di quanto siano sorprendenti ed evolute le strategie che le piante mettono in campo per rispondere ai problemi che di volta in volta si trovano ad affrontare. Esse apprendono dalle esperienze, memorizzano le informazioni (è il caso, pare, della Mimosa pudica). e possono realizzare movimenti passivi di incredibile complessità (si veda cosa riescono a fare i semi dell’Erodium cicutarium). Sono persino capaci di adescare animali e di comandarli a bacchetta (le acacie modulano le quantità di alcaloidi contenuti nel nettare extrafloreale e modificano così i comportamenti delle formiche, che presto sviluppano una vera propria dipendenza).
Lo avreste mai detto? No, perché siete – siamo – affetti dalla plant blindness. Leggete due volte al dì questo libro, dopo i pasti, fino alla totale remissione dei sintomi. Vedrete, le cose miglioreranno in breve.
Le voci dentro
Charles Fernyhough
Raffaello Cortina editore, seconda edizione 2018
pp. 288, € 24
Recensione di Marco Giorgerini
Charles Fernyhough, docente di Psicologia all’università di Durham e fondatore del progetto di ricerca Hearing the Voice, firma un lavoro che coniuga una rigorosa documentazione (testimoniata dal ricchissimo apparato di note, al cui interno confluiscono anche le indicazioni bibliografiche) a un alto tasso di leggibilità.
L’idea di fondo di Le voci dentro. Storia e scienza del dialogo interiore è che le voci allucinatorie possano derivare dal dialogo interiore, o self-talk, in cui un Sé frammentato è inconsapevole di gestire entrambi i poli della comunicazione.
Naturalmente, già supporre che i pensieri abbiano una natura verbale, premessa necessaria perché sia possibile parlare di dialogo, dà la stura a una serie di interrogativi. Come pensano, ad esempio, le persone affette da mutismo fin dalla nascita?
L’apertura al dubbio è una costante: l’autore formula ipotesi, riporta studi che sembrano comprovarle e studi che le smentiscono; azzarda correzioni e supposizioni ulteriori, si interroga ancora e lascia ai lettori la viva percezione della smisurata complessità nascosta dietro a ciò che chiamiamo sbrigativamente «pensieri». Provate a contare i punti interrogativi presenti in queste pagine. Tendono a infinito, ed è un ottimo segno. Con buona pace di chi, nel tentativo di sminuirne il valore, dà della scienza l’immagine di un dogma costruito e imposto da scienziati incapaci di mettere in discussione le loro teorie.
Un buon metodo per capire cosa stia succedendo nella nostra testa è quello messo a punto da Russell T. Hurlburt. Lo scienziato – un trombettista mancato che, con una laurea in Ingegneria, riesce rocambolescamente a ottenere un dottorato in Psicologia – crea il metodo Descriptive Experience Sampling (DES). In buona sostanza, si tratta di indossare un semplice cicalino che suona più volte nel corso della giornata. Nel momento in cui l’apparecchio si attiva, il soggetto non deve far altro che trascrivere le immagini, i suoni, le parole che fluiscono nella sua mente. I limiti sono molteplici, ma è un passo avanti nell’esplorazione di una futura «scienza delle voci interiori».
A quanto pare, il dialogo interiore può arrivare a costituire la metà dei nostri pensieri. Quali sono, allora, i suoi vantaggi? E prima ancora, qual è la natura del self-talk, che numerosi esperimenti rilevano anche tra i bambini più piccoli?
La sua prima caratteristica è probabilmente quella di avere una natura sociale. Fernyhough avvalora la nota tesi di L. Vigotskj, secondo il quale – in contrapposizione a Piaget che sottolineava l’«egocentrismo del bambino» e la sua tendenza a essere «fissato al proprio punto di vista» (n. 5, p. 245) – il pensiero che produciamo incessantemente altro non è che l’interiorizzazione dei dialoghi a cui abbiamo assistito fin dai nostri primi giorni di vita (durante tale interiorizzazione avverrebbero tuttavia sostanziali trasformazioni, tramite i processi di condensazione e di abbreviazione).
L’effettiva disposizione sociale del linguaggio privato risulterebbe ben visibile se consideriamo i modi in cui i bambini, quando borbottando tra sé vocalizzano appena i propri pensieri, si rivolgono a se stessi con parole «che in altre occasioni sarebbero state utilizzate per regolare il comportamento altrui» (p. 55). Ecco, una delle funzioni del self-talk sembra proprio quella di pianificare il comportamento. Alcuni studi dimostrano poi come esso sia fondamentale in ambito sportivo (pare acclarato che gli atleti di maggior successo parlino moltissimo con se stessi). Di più: il self-talk può integrare i diversi modi in cui il cervello elabora le informazioni. La sua funzione, l’ennesima, sarebbe quella di «legare insieme gli outpout di sistemi cerebrali autonomi e separati» (p. 229). Inoltre, avrebbe anche un ruolo nella creatività di molti artisti e potrebbe essere essenziale per la memoria.
E le voci, dunque? Forse derivano, appunto, da un’insolita elaborazione del linguaggio interiore (in modi e forme che sarebbe impossibile approfondire in questa sede), ma potrebbero anche essere originate da eventi traumatici che hanno generato problemi emotivi irrisolti.
Ci sarebbe molto altro da dire su Le voci dentro, a partire dall’excursus sulle vite di Margery Kempe e Giuliana di Norwich, due mistiche medievali inglesi (Margery, tra l’altro, è l’autrice della prima autobiografia in lingua inglese), fino ai riferimenti alle più innovative tecniche di neuroimaging e ai contributi apportati dal loro impiego; dall’utilizzo del linguaggio privato da parte di celeberrimi scrittori che hanno ammesso di «sentire le voci» fino alle apparentemente paradossali «voci che non parlano».
È un libro, questo, che i lettori di Query e gli amici del CICAP apprezzeranno anche per un altro non trascurabile motivo: quanti «uditori di voci» credono in buonafede o fingono di credere di avere poteri soprannaturali?
Sei donne che hanno cambiato il mondo
Gabriella Greison
Bollati Boringhieri editore, 2017
pp. 212, € 15
Recensione di Valentina Sordoni
Ci sono libri che colpiscono all’istante, perché senza orpelli retorici focalizzano un concetto porgendolo al lettore nella propria autenticità. È il caso di Sei donne che hanno cambiato il mondo. Le grandi scienziate della fisica del XX secolo, firmato da Gabriella Greison per Bollati Boringhieri.
La sua è una storia della scienza tutta al femminile, il racconto di sei vite inconsuete di menti straordinarie, che cristallizzano nel proprio nome la combattività di un amore consacrato alla scienza: Marie Curie, Lise Meitner, Emmy Noether, Rosalind Franklin, Hedy Lamarr e Mileva Marić. Sei esperienze diverse,ma affini nella stessa battaglia contro un maschilismo prevaricatore, incline a risolvere il merito in un’ignobile questione di sesso, ad appiattire in definizioni trancianti la donna, scienziata compresa, ridotta al ruolo satellite “della moglie di, della figlia di”.
Apre la narrazione Marie Curie, simbolo della forza oltre il senso comune; unica donna a conquistare il premio Nobel in due ambiti distinti: per la fisica nel 1903- condiviso con Antoine Henri Bequerel e Pierre Curie- e per la chimica nel 1911.
Eppure l’Accademia stenta inizialmente ad apprezzarne le capacità e per molto tempo è il riflesso opaco del marito. La successiva relazione con Paul Langevin, fisico dalla reputazione ineccepibile ma sposato e padre di quattro figli, travolge solo lei nello scandalo, la femme della coppia, peraltro ormai vedova, cortesemente invitata a non ritirare il suo secondo Nobel evitando imbarazzi ributtanti. Finché un caldo incoraggiamento di Albert Einstein la persuade a partire e a Stoccolma si presenta orgogliosa alla giuria.
Comune la sorte di Lise Meitner e Rosalind Franklin, escluse invece dal Nobel. Per i contributi alla fissione nucleare la prima ealla scoperta del DNA la seconda, annunciata il 25 aprile 1953 su «Nature» da James Watson e Francis Crick, che ne sottacciono il nome.
Madre del «Teorema di Noether», la giovane Emmy prima di affermarsi nella geometria algebrica scontò l’ostilità di un mondo accademico ancora contrario ad abilitare studiose promettenti. Conseguito il titolo, riceve l’umiliazione di lavorare gratuitamente, accanto a colleghi retribuiti. Si piega alla tenacia che infine ricompensa, e a Gottinga arriva il successo insieme alle folte platee provenienti da ogni angolo del mondo per ascoltarla.
Divisa tra cinema e fisica, censure erotiche e brevetti è la biografia di Hedy Lamarr, tra le attrici più sensuali di Hollywood ma anche fine inventrice: sua è l’intuizione delle frequenze variabili, che accolta dalla comunità scientifica le spalanca le porte dei migliori riconoscimenti.
Del tutto oscurata dalla fama di Albert Einstein è la memoria della moglie, la fisica serba Milena Marić, sua assistente di ricerca. I risultati ottenuti dalla studiosa sul moto browniano avrebbero addirittura influenzato i futuri lavori dello scienziato, ma la scarsa documentazione complica l’approfondimento biografico privandoci di contenuti probabilmente interessanti.
Sei storie di femminilità tradotta in potenza, modello inesauribile ancora oggi, non solo nella fisica, dove, chiosa Greison, la situazione è lentamente cambiata e «Le donne [...] sono sempre più visibili, non più nascoste o ascoltatrici in ombra» (p. 217). Protagoniste di imprese scientifiche eccezionali, le personalità raccontate nel volume sono innanzitutto icone di battaglie appassionate che superano l’ostacolo, in nome del rispetto, che dovrebbe rappresentare per ogni donna un diritto innegoziabile. Sono «Piccole dittatrici dei loro sogni» (Ibidem) per l’autrice. E non solo per lei.