E si salvò anche la madre. L'evento che rivoluzionò il parto cesareo Paolo Mazzarello Bollati Boringhieri, 2015 pp. 196 € 16,00
Recensione e intervista di Andrea Albini
A qualche anno di distanza dal delizioso libretto sui rapporti tra Cesare Lombroso e Tolstoj e dalla ponderosa "biografia ufficiale" di Camillo Golgi, Paolo Mazzarello, storico della medicina all'Università di Pavia, torna a parlarci dei medici che operarono presso l'ateneo ticinense sulla fine dell'Ottocento, senza trascurare di descrivere come le influenze sociali del tempo incisero sulla vita e l'opera di questi scienziati.
Quando fu ricoverata presso il reparto ostetrico dell'ospedale di Pavia, nella primavera del 1876, Giulia Cavallini si trovò in un luogo che doveva apparire a dir poco temibile. A quell'epoca i parti erano portati a termine nella relativa tranquillità domestica mentre la clinica ospitava in prevalenza gravide nubili, sottoposte al pericolo della febbre puerperale: una grave infezione batterica dell'apparato riproduttivo femminile il cui decorso è descritto con terribile vividezza nel volume. Questa affezione era trasmessa inconsapevolmente, per mancanza di igiene, dai medici dei reparti contigui che venivano a contatto con i cadaveri, ed era curata con salassi e impiastri inefficaci.
A dimostrare quanto fosse difficile rompere una prassi medica consolidata, consideriamo che questa situazione si verificava mezzo secolo prima che fossero scoperti gli antibiotici; ma anche 11 anni dopo la morte di Ignaz Semmelweis: il medico ungherese che aveva individuato l'origine e le misure antisettiche adatte a prevenire la febbre puerperale.
Il caso di Giulia era particolare: il suo viso intelligente – che sfidava le teorie dell'epoca sulla cosiddetta "degenerazione" – sorreggeva un corpo rachitico in cui il canale del parto era notevolmente ridotto a causa delle deformazioni ossee.
Per la donna, che dopo essersi innamorata di un cantante si era trovata incinta, a nulla era servito un "matrimonio riparatore" avvenuto quando i segni della gravidanza erano evidenti. Trovandosi in pericolo di vita si era rivolta al ginecologo e ostetrico Edoardo Porro che, considerate le sue malformazioni pelviche, aveva escluso un intervento di embriotomia: un aborto terapeutico effettuato con appositi e terribili strumenti al settimo e ottavo mese, che non era sicuro neppure per la gestante visti i pericoli di esposizione alle infezioni. Non rimaneva che effettuare il taglio cesareo, un'operazione chirurgica che salvava il nascituro ma aveva esiti quasi invariabilmente infausti per la madre; la quale, nella pratica, era dolorosamente lasciata al suo destino di morte.
Fermamente convinto che "bisognava salvare anche la madre", Porro eseguì un intervento che comportava anche l'asportazione dell'utero ferito perché questo era una pericolosa fonte di infezioni ed emorragie. L'innovativa operazione riuscì perfettamente e Giulia poté tornare a casa sana e salva con la piccola Maria Alessandra Cesarina.
Il "metodo Porro" causava però la sterilità delle pazienti e nella comunità medica dell'epoca – non priva di invidie e rivalità – alcuni colleghi accusarono il luminare di "immoralità". Per difendersi, Porro – che univa uno spirito politicamente radicale a una fede religiosa che derivava dal suo contatto quotidiano con il dolore – pensò di rivolgersi al vescovo di Pavia, Lucido Maria Parocchi. Sebbene fosse noto per il suo conservatorismo e la sua intransigenza, questi avallò la liceità di «sacrificare una parte (la capacità riproduttiva) per la salute del tutto (la vita della madre)»; e affermò inoltre che se per secoli la Chiesa aveva fatto uso dei castrati per cantare la gloria di Dio (la pratica era stata proibita solo con l'unità d'Italia) un medico poteva tranquillamente eseguire una simile operazione su una donna allo scopo di salvarle la vita.
Per quanto minuzioso negli aspetti medici e nella descrizione degli interventi, il libro di Mazzarello mostra un'agilità narrativa che lo rende raccomandabile non solo agli addetti ai lavori o agli appassionati di storia della medicina ma a un pubblico più vasto.
Nella sua sobrietà e nel non limitarsi ad illustrare gli aspetti professionali dell'attività di Edoardo Porro, il volume offre molteplici spunti di riflessione sulle radici e sull'evoluzione culturale della pratica medica e dell'attività scientifica in generale, cogliendo appieno lo scopo che la storia della scienza deve svolgere non solo in ambito accademico ma anche nel più vasto panorama divulgativo. Approfondiamo ora alcune questioni direttamente con l'autore.
INTERVISTA
Il suo libro offre sicuramente elementi di riflessione per chi è contrario alla "medicina ufficiale: pensiamo solo al rifiuto delle vaccinazioni oggi così di moda. Forse vedere com'era la medicina 140 anni fa, con le sue sofferenze "inutili" ma inevitabili, a causa dell'arretratezza delle conoscenze scientifiche sulle patologie e sui meccanismi biologici e chimici sottostanti, ci riconcilia con il progresso e ci fa ringraziare di essere nati ai nostri giorni. Quali sono le differenze che contraddistinguono un medico specialista ottocentesco da uno di oggi?
Quando si leggono o si sentono commenti radicalmente negativi sulla medicina odierna bisognerebbe voltarsi indietro e considerare le terribili situazioni in cui vivevano i nostri antenati. La vita media era bassissima, in ogni famiglia si generavano molti bambini ma solo una minoranza di loro era destinata a sopravvivere, la tisi consumava le vite, per un'appendicite si avevano alte probabilità di morire. Le conquiste della medicina sono state lente e spesso drammatiche, come dimostra la storia che ho raccontato, spesso dovute al superamento di pregiudizi inveterati, come quelli riguardanti l'igiene e l'antisepsi, la storia di Semmelweis che fa capolino nel libro lo dimostra bene. L'Ottocento è anche il secolo in cui si iniziano a sviluppare le specializzazioni, legate spesso anche all'invenzione di strumenti particolari, come l'oftalmoscopio e il laringoscopio. L'ostetricia, come disciplina specialistica era comunque già individualizzata fin dalla seconda metà del Settecento con insegnamenti universitari attivati, anche se si sviluppa pienamente soltanto nel corso del secolo successivo. Specializzazioni più particolari prenderanno forma compiuta soltanto nel corso del Novecento, come risultato dell'applicazione sistematica della microscopia, di nuovi strumenti diagnostici come l'elettrocardiogramma e della medicina di laboratorio che affianca sempre la clinica.
Il medico dell'Ottocento, ancora più che l'attuale, è un testimone di tragedie. A quell'epoca gli interventi chirurgici avevano una "componente spettacolare"; erano effettuati nel più breve tempo possibile per scongiurare infezioni, con un elevato numero di assistenti e un ancor più elevato pubblico di studenti di medicina, che imparavano "dal vivo" osservando con curiosità, passività e distacco, operazioni chirurgiche che molto spesso conducevano alla morte del paziente.
Porro trova un equilibrio tra il necessario distacco professionale e l'empatia per le sue sfortunate gestanti forse a causa della malattia che aveva contratto nel "corso del suo dovere". Da cosa era affetto e come può avere influito la patologia di cui soffriva sulle sue scelte?
Nel giugno 1871, durante una manovra ostetrica, Porro contrasse la sifilide da una paziente, aveva ventinove anni. La sua vita, con alti e bassi, ne fu segnata. Probabilmente la malattia, che può rimanere silente per anni prima di esplodere nella forma terziaria, generò una vasculite, una infiammazione dei vasi sanguigni, che intaccò il rene e alla fine provocò una nefrite sifilitica alla quale dovette soccombere nel 1902, quando aveva sessant'anni. Certamente la malattia - che si portò dietro per molti anni - lo fece diventare più empatico nei confronti delle sue pazienti, lo predispose maggiormente a condividere con loro gli stati di sofferenza.
La figura di Edoardo Porro è particolarmente sorprendente: spirito risorgimentale in gioventù, medico al seguito di Garibaldi, tenace e amante delle sfide, politicamente sempre vicino ai radicali, non si vergogna di proclamare la propria fede e adesione al cattolicesimo, senza smettere di essere amico degli anticlericali. Come si spiega questa contraddizione in un periodo storico in cui le contrapposizioni tra credenti e liberi pensatori erano molto forti?
Penso che ci fosse in realtà una sua coerenza cristiana negli atteggiamenti di Porro. A ben guardare non vi era nella sostanza, ma solo negli aspetti politici superficiali, una contraddizione fra lo spirito risorgimentale - anche di lotta garibaldina - e l'adesione alla fede religiosa cristiana. Porro aveva forse visto più lontano delle scelte politiche della chiesa dell'epoca, fautrice di un ampio ed esteso potere temporale. Era amico degli anticlericali, quando questi combattevano la presenza di elementi certamente non molto evangelici nelle scelte frequenti dell'istituzione religiosa. Ma le contraddizioni fra l'essenza del cristianesimo e la pratica chiesastica non mettevano in discussione la sua adesione allo spirito profondo della fede religiosa nella quale si era formato.
Un altro lato sorprendente di Porro è il suo coraggio in campo scientifico unito al desiderio di cercare il consenso dei colleghi, che definisce nel suo libro "ponderatamente audace". Crede che questa caratteristica abbia contribuito al successo dell'intervento ostetrico ideato dal medico pavese, anche a livello internazionale?
Penso di sì. Porro era un medico cauto ma, contemporaneamente, anche audace. Come tutti i medici ostetrici dell'epoca aveva avuto esperienze negative. Ma la sua forza fu di non fermarsi ai dati di fatto ma di cercare il superamento del limite della medicina ostetrica interventistica. Una cautela ragionevole in un intervento, poi andato male, sarebbe diventata colpevole in una analoga o simile operazione successiva. Porro fu abile nel superare i suoi pregiudizi, nell'essere audace in maniera calcolata (o "ponderata" come scrivo nel libro) e tentare, sulla base delle sue esperienze negative (oltre alla precisa disanima dei risultati della letteratura scientifica), un nuovo programma di intervento. Era insomma un medico dotato di una grande dote, la "capacità gerarchica di giudizio", fondamentale per l'esercizio della medicina, che permette di graduare le scelte sulla base dei rischi e di pesare l'importanza relativa del dato clinico.
Esistono notevoli differenze tra la medicina di oggi e quella di 140 anni fa. Ad esempio, sembra che Porro non fosse troppo favorevole al "consenso informato" dei pazienti, così come lo intendiamo ora. Forse perché la chirurgia era così cruenta e insicura da spaventare chiunque ne avesse piena coscienza?
Sicuramente questa ne è una ragione. Non possiamo comunque giudicare con il metro attuale le scelte dell'epoca. I pazienti erano più indifesi, volevano il luminare che si prendesse le responsabilità e non le scaricasse su di loro. Il medico era sostanzialmente l'unico attore che potesse giudicare sul bene o sul male di una scelta terapeutica. Il rapporto medico-paziente, soprattutto in ambito chirurgico, non aveva gli aspetti dialettici che ha acquisito nel corso del Novecento.
A partire dalla fine dell'Ottocento la medicina ebbe uno sviluppo accelerato che non si è più arrestato. L'intervento cesareo "alla Porro", concepito come operazione chirurgica d'urgenza, fu sostituito, dopo un paio di decenni, dagli interventi conservativi. Cosa accadde nella tecnica operatoria? L'intervento originario di Porro trova ancora impiego ai nostri giorni?
Qualche anno dopo l'intervento ideato da Porro si sviluppò il taglio cesareo conservativo che permette di mantenere la capacità generativa della donna operata. Tuttavia, come dimostra la cronaca e come sappiamo dai parti effettuati in condizioni estreme, quando un'emorragia è irrefrenabile e non si ha la possibilità di trasfondere d'urgenza una donna la cui vita cade in uno stato di imminente pericolo, l'unica possibilità di salvarla dipende dalla rimozione dell'utero, l'organo da cui si sviluppa il massivo flusso emorragico. Tuttora l'intervento, in casi particolari e in condizioni disagiate, come in alcuni ambulatori di frontiera dell'Africa, viene occasionalmente eseguito. Il contributo di Porro fa ancora parte pienamente del bagaglio tecnico culturale di un medico ostetrico contemporaneo.
Da ultimo Giulia Cavallini, la giovane salvata dall'intervento rivoluzionario di Porro, motivato dall'osservazione sperimentale che la laparatomia addominale funzionava, e che poteva essere adattata per salvare le donne che subivano il taglio cesareo anche se andava contro "i libri e la prassi". Si sono conservate tracce del suo destino dopo l'intervento chirurgico?
La donna guarì e, come testimoniato da Porro, raggiunse un perfetto stato di salute come anche dimostrano le due fotografie che abbiamo con la cicatrice addominale ormai perfettamente riparata. Le tracce di Giulia Cavallini scompaiono da Gambolò a qualche mese dall'intervento. Spero che in futuro, nel corso di ulteriori ricerche, la sua figura riappaia in qualche archivio o in qualche registro parrocchiale.
Il passato è una bestia feroce Massimo Polidoro Piemme, 2015 pp. 416 € 17,00 rilegato € 6,99 ebook
Recensione di Anna Rita Longo
Da appassionato lettore di thriller ad autore di un romanzo di questo genere: di solito il risultato di una simile operazione – editor e agenti letterari lo potranno confermare – delude le aspettative.
Penetrare i segreti di un genere letterario e riuscire a rapportarsi con le sue caratteristiche senza cadere nella banalità è tutt'altro che scontato.
Nel presentare il proprio lavoro, Massimo Polidoro, che pure è uno scrittore affermato e di grande successo, confessa l'emozione di trovarsi per la prima volta alle prese con un genere tanto amato, ma, nel contempo, decisamente lontano da quelli abitualmente frequentati, come il saggio o il romanzo costruito sulla base di avvenimenti storici o episodi di cronaca. Ma la maestria del narratore, tanto più presente quanto meno risulta visibile agli occhi del lettore, è evidente anche in tutto il lavoro preparatorio, di cui hanno parlato molti grandi autori e al quale accenna nel suo blog anche lo stesso Polidoro, che fa riferimento al lungo studio, fatto di lettura e riflessione, del genere letterario in cui andava a inserirsi.
È una dimostrazione di umiltà e padronanza del "mestiere di scrivere" inusuale in questi tempi in cui molti hanno il vezzo di presentarsi come virtuosi della scrittura che non devono a nulla la propria innata arte. Peccato che le biografie dei grandi del passato smentiscano categoricamente questa visione, ricordando come la padronanza dei mezzi narrativi sia frutto di un duro lavoro.
Il passato è una bestia feroce è l'esito di questa felice incursione di Massimo Polidoro nel terreno del thriller, che rivela l'indubbio talento dell'autore per la suspense. Nell'impianto narrativo messo insieme da Polidoro la descrizione degli ambienti ha lo stesso rilievo della storia: il grigiore e le ombre della periferia con la sua varia umanità; l'ambiente competitivo e, a tratti, soffocante della redazione di un giornale; la quotidianità di una caserma dei carabinieri o di un reparto d'ospedale sono delineati con pochi, scarni tratti, che calano il lettore nel vivo della vicenda perché evitano di cavalcare i luoghi comuni. Il discorso vale anche per i protagonisti, che non sono monodimensionali come spesso capita nella narrativa di genere, ma complessi e ricchi di sfumature.
L'intreccio ruota intorno alla figura di Bruno Jordan, giornalista specializzato in cronaca nera, in difficoltà nella vita privata e nel lavoro. Un uomo irrisolto, un antieroe che risulta attraente per il lettore proprio per l'umanità della sua imperfezione. Ma come suggerisce il titolo, il vero protagonista della storia è il passato. Che non accetta di restare confinato in un recesso della memoria o in una pagina ingiallita di giornale. Che riaffiora in una lettera scritta trent'anni prima, giunta non si sa come e spedita da non si sa quale mano.
Che si scorge negli occhi di un padre nel cui mondo non si riesce a entrare e che non si può dimenticare. Che è, nonostante tutto, vivo e presente nei gesti amorevoli di una madre che non può accettare che sua figlia non ci sia più e che, trent'anni dopo, ancora la attende, simile alla dickensiana Miss Havisham che si consuma nell'attesa disperata del suo sposo, eppure, alla fine, così diversa.
Il lettore che ammira il Polidoro "indagatore del mistero" si divertirà a sbrogliare l'intricato enigma che sostiene la storia, ricomponendo in un quadro sintetico gli indizi disseminati qua e là. Nel farlo, all'appassionato di letteratura sembrerà di scorgere precedenti, citazioni, rivisitazioni. Si tratta in tutti e due i casi di un ottimo esercizio per la mente e della prova che ci troviamo di fronte a un libro che merita di essere letto, come tutti quelli che ci spingono a mettere in moto i neuroni.
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La realtà non è come ci appare Carlo Rovelli Raffaello Cortina, 2014 pp. 241 € 22,00
Recensione di Renato Serafini
Nelle Sette brevi lezioni di fisica ( recensito in un passato numero di Query) Carlo Rovelli, un fisico italiano molto noto che lavora in Francia, ha introdotto il problema della gravità quantistica, delineando la soluzione su cui sta lavorando il suo gruppo di ricerca, denominata "gravità quantistica a loop" (LQG=Loop Quantum Gravity).
Nel libro La realtà non è come ci appare il tema viene sviluppato più in dettaglio, aggiornandolo ai più recenti contributi, pur rimanendo in un ambito assolutamente divulgativo.
Ricordiamo che la gravità quantistica è il tentativo di trovare una teoria che "unifichi" la relatività generale e la meccanica quantistica, le due più importanti teorie fisiche sviluppate nella prima parte del secolo scorso. Come ricorda l'autore, il problema nasce dal fatto che «il campo gravitazionale è descritto nella relatività generale senza tenere conto che i campi sono quantizzati, mentre la meccanica quantistica è formulata senza tenere conto che lo spazio-tempo della relatività si incurva in presenza di masse».
Viene ricostruita storicamente la posizione granulare sulla struttura fisica del nostro mondo, a partire da Democrito (460-370 a. C. circa) fino ad arrivare ai due lavori di Einstein del 1905, in cui viene dimostrato che la materia è granulare (il lavoro sul moto browniano) ma che anche la luce lo è (il lavoro sull'esistenza dei fotoni, per il quale gli viene assegnato il Nobel), lavori che schiudono le porte, insieme ai contributi di Planck, alla meccanica quantistica.
Secondo l'autore una qualunque teoria di gravità quantistica deve inglobare i risultati sia della meccanica quantistica che della relatività generale, visto che queste teorie si sono dimostrate valide nei loro ambiti e sono state sottoposte ormai ad un secolo di verifiche sperimentali.
Quindi deve essere una teoria che eredita la curvatura dello spazio in presenza di masse dalla relatività generale e la granularità (o struttura quantizzata/discreta) di tutte le variabili fisiche dalla meccanica quantistica.
Secondo l'ipotesi della LQG, tutto è granulare, non solo la materia, la luce e l'energia, ma anche lo spazio. Non possiamo suddividere lo spazio in componenti sempre più piccoli, perché a scale molto piccole (ad una scala detta di Planck) lo spazio risulterebbe fatto di pezzettini non ulteriormente divisibili. Insomma "la granularità della natura sembra essere qualcosa di molto generale".
Il fatto che a piccole scale (quella di Planck) lo spazio non risulta più divisibile risolve poi i problemi delle singolarità che compaiono nella relatività generale quando una massa collassa in una regione infinitamente piccola, visto che nella LQG uno spazio non può essere "infinitamente piccolo".
L'autore ci tiene a precisare che al momento siamo ancora ben lontani dal poter eseguire esperimenti che possano validare una teoria di gravità quantistica, sia essa la LQG o la teoria delle stringhe, un approccio alternativo della gravità quantistica sviluppatosi a partire dagli anni '70 del secolo scorso.
L'autore ritiene peraltro che gli ultimi risultati del 2013 del più grande acceleratore di particelle del CERN di Ginevra (conosciuto come LHC=Large Hadron Collider) hanno fornito indizi a favore della LQG, in quanto ad esempio le cosiddette particelle super-simmetriche previste dalla teoria delle stringhe non sarebbero state individuate.
L'autore approfondisce quindi il problema della certezza e dell'incertezza delle teorie fisiche; sottolineando che anche in una disciplina rigorosa come la fisica più che parlare di certezza, si può più realisticamente parlare di diversi livelli di certezza.
La fisica, ci dice l'autore, è bella proprio perché periodicamente qualcuno scopre qualcosa che mette in discussione le nostre certezze e, dopo un successivo periodo di incertezza che stimola nuovi filoni di ricerca, viene elaborata una nuova teoria che ci fa comprendere meglio il mondo, generalizzando, unendo o sintetizzando precedenti teorie.
È insomma per sua natura aperta alle novità e priva di pregiudizi.
Così è avvenuto storicamente in molti casi:
- Newton ha unito le osservazioni di Galileo, che aveva studiato il moto dei corpi sulla terra, con quelle di Keplero, che aveva studiato il moto dei pianeti, riconoscendo che si trattava della medesima legge di gravitazione universale;
- Maxwell e Faraday hanno unito le conoscenze sui campi magnetici e quelle sui campi elettrici, assemblandole nella elegante teoria del campo elettromagnetico, rappresentata dalle equazioni di Maxwell (1864);
- nel 1905, Einstein ha trovato la sintesi tra la fisica di Newton e la teoria del campo elettromagnetico con la relatività speciale; il principio di conservazione della massa e quello di conservazione della energia sono stati "integrati" in un unico principio più generale di conservazione dell'energia, data l'equivalenza tra massa ed energia evidenziata nella famosa formula E = m c², evidenziando così che la massa si poteva trasformare in energia e viceversa, in accordo alla formula suddetta;
- nella prima metà del secolo scorso la teoria quantistica dei campi (sintesi tra la relatività speciale e la meccanica quantistica) ha prodotto il cosiddetto "modello standard", la migliore sintesi del mondo microscopico di cui disponiamo al momento.
La scienza, evidenzia l'autore, non ci dà risposte certe, ma solo risposte affidabili, cioè le migliori disponibili al momento. Sono le migliori ma non le consideriamo definitive.
Vivere nell'incertezza, sottolinea l'autore, è difficile; c'è chi preferisce una certezza qualunque all'incertezza che viene dal rendersi conto dei propri limiti. Ma essere sempre pronti a mettere in discussione le proprie certezze è un approccio che in fondo rigetta ogni fondamentalismo, che si caratterizza invece nel sostenere di detenere una Verità certa ed immutabile nel tempo.
Si può quindi concludere dicendo che la ricerca nel campo della gravità quantistica è attualmente in uno stato di incertezza, ma ci sono indizi che, a giudizio dell'autore, potrebbero portare la LQG ad un livello di certezza molto più elevato nei prossimi anni.
SOS fata Piero Paolicchi ETS, 2014 pp. 86 € 8,50
Recensione di Elisa Frei
Il manuale di Paolicchi incuriosisce a partire dal titolo, che cita appunto le "fate" a cui nel corso delle varie epoche l'essere umano è ricorso per tentare di spiegare l'inspiegabile o per risolvere situazioni difficili.
Paolicchi suddivide il suo libro in una serie di brevi capitoli che si occupano di un tema specifico: il primo è dedicato al nesso inscindibile sapere-potere.
"Conoscere" è sempre un atto di fede, in partenza: noi non "sappiamo" per nostra esperienza ma perché l'abbiamo letto o sentito dai nostri predecessori.
Non sempre i sensi ci possono aiutare a confermare le nostre idee, e, al tempo stesso, l'essere umano ha la pericolosa tendenza a completare da sé l'informazione in base ai dati che possiede. Insomma quello della conoscenza è un campo in cui uno scetticismo globale è impossibile a praticarsi, ma ciò non significa che bisogna credere a tutto quello che ci viene raccontato.
Il metodo sperimentale infatti ci insegna che, quando una teoria ritenuta valida viene smentita sulla base di prove scientifiche, essa va abbandonata senza rimorsi.
Al giorno d'oggi, però, – paradossalmente, vista la facilità di reperire informazioni di ogni genere grazie a internet – è sempre più complicato risalire a dati attendibili e correttamente interpretabili anche da un profano: la diffusione in rete non è infatti sinonimo di affidabilità, anzi, purtroppo costruire degli "aloni di fiducia" online è semplice per chi si rivolge al giusto esperto di marketing, potendo in questo modo trarre in inganno un numero di visitatori sprovveduti ben maggiore che in passato.
Nel secondo capitolo, Paolicchi nota come da sempre nella storia umana siano intervenute figure maschili o femminili ad indicare la giusta via al protagonista che di volta in volta era indeciso su come muoversi in un contesto difficile.
La figura maschile, solitamente, spronava il personaggio a non piangersi addosso e ad agire; quella femminile invece era più materna e misericordiosa e prometteva risultati anche a chi si limitava solo a credere. "Maghi" e "fate", per quanto sembri anacronistico, anche ai giorni nostri continuano ad attrarre schiere di persone insicure e disperate, approfittando per di più delle tecniche di vendita che si sono affinate nel corso dei secoli, adattandosi anche ai nuovi mezzi di comunicazione.
È interessante notare come anche nel campo scientifico, in teoria al riparo da simili ciarlatani, vi sia sempre chi si dichiari incompreso, ghettizzato, tenuto ai margini dalla comunità "ufficiale" che vuole impedire una maggiore e universale diffusione della conoscenza della realtà.
Questi pseudo-scienziati sono accomunati dal non aver quasi mai compiuto studi universitari riconosciuti, ma soprattutto, curiosamente, dalla tendenza a evitare di fornire prove concrete dei risultati che proclamano di aver ottenuto con i loro metodi alternativi.
Paolicchi si sofferma sulla miriade di fedi che si sono diffuse negli ultimi decenni: ognuno di noi ha bisogno di determinate rassicurazioni e in un contesto così variegato (ac)cedere ad un culto che sembra proprio fare al caso nostro è una tentazione molto forte.
L'autore dedica infine un capitolo al "kit del bravo mago" ossia agli strumenti che questi personaggi devono possedere: il primo, significativamente, è una buona capacità retorica, con cui convincere i loro adepti facendoli andare anche contro il senso comune e l'evidenza.
Le tematiche e l'ottica del libro sono assolutamente in linea con i principi del CICAP: l'autore è uno scettico, che con equilibrio e moderazione passa in rassegna svariati fenomeni di creduloneria umana contemporanea analizzandoli criticamente. Un campo di studi così vasto non può essere trattato con completezza, ed è forse questo il limite principale del testo, il quale è un'introduzione a qualcosa che sembra, però, non giungere pienamente.
A tal riguardo credo di poter avanzare un'altra osservazione: se il manuale è indirizzato a scettici "già esperti", questi non vi troveranno trattati casi nuovi o poco noti, poiché la trattazione si focalizza su vicende molto conosciute per questi lettori e che vengono presentate in modo semplice e, nel complesso, senza un particolare approfondimento.
Se invece il target consta di "novizi" dello scetticismo, anch'essi potrebbero avere delle ragioni di non completa soddisfazione perché, non appena l'autore inizia a raccontare un episodio interessante e loro vorranno conoscerne i dettagli, all'improvviso la narrazione finirà e a loro potranno restare dubbi e curiosità inevase: "Ma chi è quest'uomo che piegava i cucchiai? Che cosa è successo alla suora rimasta incinta a Medjugorje?". Questo è peraltro secondo me il principale limite di questo libro di Paolicchi, lo scarso approfondimento che viene dedicato ai temi trattati. Per il resto si tratta di una lettura introduttiva piacevole e veloce.