In un libro pubblicato lo scorso aprile il genetista Brian C. Sykes (già professore di genetica umana all’University of Oxford) rivela che non si sarebbe imbarcato nell’Oxford-Lausanne Collateral Hominid Project da lui creato con l’entomologo Michael Sartori (Musée Zoologique, Lausanne) se non ci fosse stata “una possibilità realistica, per quanto piccola, di trovare un primate anomalo, anche se la maggior parte dei campioni si fosse rivelata qualcosa di più mondano”[1].
Scopo del progetto (come qualcuno ricorderà da | Query n. 10 ) era quello di raccogliere un certo numero di peli attribuiti a yeti, bigfoot, sasquatch e altri presunti primati sconosciuti alla scienza per poterli analizzare con le tecniche sviluppate dalla genetica forense e per lo studio del DNA antico (in particolare attraverso il sequenziamento del DNA mitocondriale -mtDNA-, quello passato per sola via materna) e per poterli quindi attribuire ad una specie.
Lo scorso agosto Sykes, Sartori e un gruppo eterogeneo di altri autori (una genetista, Terry W. Melton; un convinto sostenitore dell’esistenza di bigfoot, Rhettman A. Mullis, Jr; una guida alpina, Christophe Hagenmuller) sono riusciti a pubblicare i (primi?) risultati del progetto su una delle più prestigiose riviste scientifiche nel campo della biologia, Proceedings of the Royal Society B[2]. Dato lo status della rivista e il tema particolare, non stupisce che l’articolo abbia generato commenti sparsi su media tradizionali, su forum e su blog web. Può invece maggiormente sorprendere che, come vedremo, altri scienziati abbiano deciso di confrontarsi con i risultati sulle pagine di questo e di un altro periodico.
Chiariamo subito che il primate anomalo non è stato trovato. I campioni raccolti, però, hanno permesso di risolvere diversi misteri e, nel contempo, di portarne alla luce uno nuovo.
Chi ha fornito i campioni? La risposta dipende dall’area di provenienza. Negli Stati Uniti, ad esempio, è presente una folta comunità di appassionati della versione locale del primate anomalo, qui noto come bigfoot o sasquatch, nomi ormai diffusi anche nella cultura popolare internazionale. Questi, nel corso del tempo, hanno raccolto un numero indefinito di resti il cui legame con il presunto animale misterioso è spesso indiretto (come è il caso di peli raccolti in supposti luoghi di passaggio). Per aree più remote, invece, ad offrire il materiale sono stati piuttosto naturalisti e alpinisti impegnati sul campo oppure strutture museali. Perché la sua indagine avesse un qualche significato, Sykes sperava di raccogliere almeno venti campioni: ad oggi ne ha ricevuti novantacinque.
Una risposta del tutto inaspettata, che si è rivelata un problema: i fondi disponibili, in parte donati dal produttore di una serie di documentari che, nell’autunno del 2013, hanno anticipato i risultati dello studio, non erano infatti sufficienti a coprire i costi delle analisi di tutti i cinquantasette campioni giunti in tempo per essere considerati nell’articolo. Se due sono stati esclusi perché di origine non animale, altri diciotto sono invece stati scartati dopo una selezione che, secondo l’articolo, ha tenuto conto della provenienza e dell’interesse storico dei resti: la procedura può sembrare arbitraria e forse sarebbe stato preferibile un maggior dettaglio, anche per non lasciare dubbi al lettore sull’eventuale influenza, anche inconsapevole, di una narrabilità televisiva.
Presso la Mitotyping Technologies di State College in Pennsylvania (un’azienda specializzata in genetica forense fondata alla fine degli anni ‘90 da Melton dopo un periodo di collaborazione con Sykes ad Oxford) i campioni sono stati puliti per eliminare eventuali contaminazioni dovute a coloro che li hanno maneggiati nel corso del tempo. Si è poi proceduto ad amplificare una breve regione dell’mtDNA normalmente sufficiente a distinguere fra le diverse specie. Le sequenze così ottenute - trenta, perché da sette campioni non è stato possibile estrarre materiale genetico - sono state confrontate con quelle già depositate nel database pubblico GenBank.
Purtroppo gli autori hanno scelto di descrivere i campioni solo attraverso un’indicazione di origine geografica che non permette di valutare come sono stati reperiti e, quindi, la loro significatività all’interno del corpus delle narrazioni e dei resti organici attribuiti a primati anomali. Non risulta così neppure possibile capire se compaiono altrove in letteratura[3]. Comunque sia, diciotto campioni provenivano da diversi stati degli USA: cinque sequenze combaciano con quelle di orsi neri americani; quattro con un qualche esponente del genere Canis (lupi o coyoti o cani domestici); tre con buoi domestici; e una ciascuna con procioni, pecore, ursoni (una specie di istrice), cavalli, cervi della coda bianca (oppure cervi mulo) e, infine, uomini (e qui è stato fatto un controllo aggiuntivo: si tratta proprio di un Homo sapiens con avi materni di probabile origine europea). Otto dalla Russia, dove vivrebbe l’almas: qui tre sequenze erano associate con cavalli e due a orsi bruni, mentre le altre erano attribuibili ancora una volta a orsi neri americani, buoi domestici e procioni. L’unico campione proveniente dal Sud-est asiatico, precisamente da Sumatra, è attribuibile ad un tapiro della Malesia. Tre, infine, quelli provenienti dall’Asia meridionale: uno, nepalese, attribuito a capricorni di Sumatra, altri due invece a orsi polari (Ursus maritimus).
Che ci fanno questi ultimi in Asia? Il primo campione, identificato con il codice 25025, è stato fornito da uno dei co-autori, C. Hagenmuller, che l’avrebbe ricavato all’inizio del secolo dalla pelliccia di un animale non identificato ucciso una trentina di anni prima e oggi conservato in un villaggio non meglio precisato nei dintorni di Ladakh (India). L’altro, 25191, è invece quanto resta di un pelo che, intorno al 2001 in Bhutan, un biologo evoluzionista allora ad Oxford, Robert McCall, aveva recuperato da quello che una guida del posto aveva identificato come un covo di mi-go, il nome locale dell’”uomo selvatico”. Secondo gli autori le due sequenze combaciano con quella di un fossile di U. maritimus di circa 40.000 anni fa rinvenuto nelle Isole Svalbard, nel Mar Glaciale Artico e descritta in un articolo del 2010, ma non con quelle di esemplari moderni della specie. Avanzano quindi una serie di ipotesi per cercare di spiegare questi risultati: si potrebbe trattare di una specie di orso ad oggi non descritta, oppure di una variante di U. maritimus con una pelliccia di diverso colore (perché i peli analizzati non erano bianchi), o infine di un episodio di ibridazione fra orso bruno (U. arctos) e U. maritimus accaduto in passato e probabilmente diverso rispetto a quello documentato oggi in alcune isole dell’Alaska. “Se questi orsi”, chiosano gli autori, “sono ampiamente distribuiti nell’Himalaya, allora potrebbero certamente avere contribuito alla fondazione biologica della leggenda dello yeti”.
Altri studiosi la pensano diversamente: in due articoli, apparsi rispettivamente ancora su Proceedings of the Royal Society B (febbraio 2015, ma online da dicembre 2014) e sulla rivista di biologia open access ZooKeys (marzo 2015), prima la genetista Ceiridwen J. Edwards e il biologo molecolare Ross Barnett (rispettivamente del Research Laboratory for Archaeology and the History of Art sempre dell’University of Oxford e del museo di geologia dell'Università di Copenhagen), poi i biologi Eliécer E. Gutiérrez dello Smithsonian Institution e Ronald H. Pine dell’University of Kansas utilizzando metodi diversi hanno contestato queste conclusioni[4]. Secondo questi autori, infatti, partendo dalle sequenze genetiche ottenute da Sykes e collaboratori non sarebbe possibile discriminare fra Ursus arctos e U. maritimus, o perché, come suggeriscono i primi, la differenza potrebbe essere dovuta a DNA degradato o, come invece ritengono i secondi, perché i profili genetici delle due specie sono troppo simili. Per tutti questi critici l’ipotesi più economica è che la sequenza sia attribuibile a U. arctos, specie effettivamente presente nell’Himalaya: “Nessuna prova è mai stata presentata a sostegno dell’esistenza di una specie sconosciuta in Himalaya”, concludono Gutiérrez e Pine.
C’è anche da dire che il biologo evoluzionista Frank Hailer (allora al Biodiversität und Klima Forschungszentrum di Francoforte sul Meno, dove si è occupato di storia genetica degli orsi) e, in modo probabilmente indipendente, Edwards e Barnett hanno segnalato che Sykes e al. erano incorsi in una svista[5]. L’articolo del 2010 riportava infatti diverse sequenze genetiche di orsi polari, una soltanto delle quali relativa ad un fossile. GU573490, quella più simile ai campioni himalayani, è un esemplare moderno, delle Isole Diomede, nello Stretto di Bering. In una risposta a Edwards e Barnett, Melton, Sartori e Sykes hanno riconosciuto lo “sfortunato” errore (che, comunque, è sfuggito ai referee della rivista), ma ritengono che questo “non cambi la conclusione che le sequenze recuperate [...] siano in relazione con U. maritimus, né invalida le diverse ipotesi discusse nell’articolo”[6].
Per risolvere i dubbi sarebbe necessario ulteriore materiale genetico. Sul come recuperarlo gli studiosi divergono. In maniera più avventurosa, con una spedizione in Himalaya come propone Sykes in una serie di interventi extra-articolo (e in tal caso sarebbe forse utile impiegare anche degli antropologi culturali per cercare di far chiarezza sulle diverse etno-tassonomie che si ritrovano nel folklore). Oppure, come più prosaicamente suggeriscono Gutiérrez e Pine, limitandosi ad esaminare il DNA nucleare degli esemplari di orso bruno provenienti da quell’area conservati nei diversi musei di storia naturale del mondo, anche per comprendere il reale status tassonomico di una sottospecie descritta nel XIX secolo, U. arctos isabellinus. Questa, cui sono attribuite diverse piccole popolazioni diffuse nell’intera catena himalayana, è ritenuta da molti l’origine delle leggende sullo yeti e, per Edwards e Barnett, potrebbe essere la fonte dei due campioni anomali.
Al di là dei problemi sollevati e delle debolezze riscontrate, che lezione trarre allora da questa pubblicazione? Per un paleontologo del Natural History Museum di Londra, Norman MacLeod, “questo tipo di analisi apre la strada all’avviamento di un dialogo produttivo fra criptozoologi e bio-zoologi tradizionali. I criptozoologi devono ora accettare i risultati del gruppo di Sykes oppure mostrare dove sono sbagliati. Gli zoologi tradizionali devono ora invece riconoscere che [...] le affermazioni dei criptozoologi sono suscettibili di sperimentazione scientifica e verifica potenziale”[7]. Il materiale non mancherà, come ricordava Sykes parlando con la giornalista Sarah C. P. Williams per il sito web di Science: "Ho avuto un'ottima collaborazione con la comunità bigfoot, che è generalmente soddisfatta di avere ora un metodo per identificare la propria preda in un modo che sarebbe universalmente accolto [...]. Stanno tornando nelle foreste con rinnovato entusiasmo alla ricerca del "pelo d'oro" che dimostri quanto da loro creduto"[8].
Scopo del progetto (come qualcuno ricorderà da | Query n. 10 ) era quello di raccogliere un certo numero di peli attribuiti a yeti, bigfoot, sasquatch e altri presunti primati sconosciuti alla scienza per poterli analizzare con le tecniche sviluppate dalla genetica forense e per lo studio del DNA antico (in particolare attraverso il sequenziamento del DNA mitocondriale -mtDNA-, quello passato per sola via materna) e per poterli quindi attribuire ad una specie.
Lo scorso agosto Sykes, Sartori e un gruppo eterogeneo di altri autori (una genetista, Terry W. Melton; un convinto sostenitore dell’esistenza di bigfoot, Rhettman A. Mullis, Jr; una guida alpina, Christophe Hagenmuller) sono riusciti a pubblicare i (primi?) risultati del progetto su una delle più prestigiose riviste scientifiche nel campo della biologia, Proceedings of the Royal Society B[2]. Dato lo status della rivista e il tema particolare, non stupisce che l’articolo abbia generato commenti sparsi su media tradizionali, su forum e su blog web. Può invece maggiormente sorprendere che, come vedremo, altri scienziati abbiano deciso di confrontarsi con i risultati sulle pagine di questo e di un altro periodico.
Chiariamo subito che il primate anomalo non è stato trovato. I campioni raccolti, però, hanno permesso di risolvere diversi misteri e, nel contempo, di portarne alla luce uno nuovo.
Chi ha fornito i campioni? La risposta dipende dall’area di provenienza. Negli Stati Uniti, ad esempio, è presente una folta comunità di appassionati della versione locale del primate anomalo, qui noto come bigfoot o sasquatch, nomi ormai diffusi anche nella cultura popolare internazionale. Questi, nel corso del tempo, hanno raccolto un numero indefinito di resti il cui legame con il presunto animale misterioso è spesso indiretto (come è il caso di peli raccolti in supposti luoghi di passaggio). Per aree più remote, invece, ad offrire il materiale sono stati piuttosto naturalisti e alpinisti impegnati sul campo oppure strutture museali. Perché la sua indagine avesse un qualche significato, Sykes sperava di raccogliere almeno venti campioni: ad oggi ne ha ricevuti novantacinque.
Una risposta del tutto inaspettata, che si è rivelata un problema: i fondi disponibili, in parte donati dal produttore di una serie di documentari che, nell’autunno del 2013, hanno anticipato i risultati dello studio, non erano infatti sufficienti a coprire i costi delle analisi di tutti i cinquantasette campioni giunti in tempo per essere considerati nell’articolo. Se due sono stati esclusi perché di origine non animale, altri diciotto sono invece stati scartati dopo una selezione che, secondo l’articolo, ha tenuto conto della provenienza e dell’interesse storico dei resti: la procedura può sembrare arbitraria e forse sarebbe stato preferibile un maggior dettaglio, anche per non lasciare dubbi al lettore sull’eventuale influenza, anche inconsapevole, di una narrabilità televisiva.
Presso la Mitotyping Technologies di State College in Pennsylvania (un’azienda specializzata in genetica forense fondata alla fine degli anni ‘90 da Melton dopo un periodo di collaborazione con Sykes ad Oxford) i campioni sono stati puliti per eliminare eventuali contaminazioni dovute a coloro che li hanno maneggiati nel corso del tempo. Si è poi proceduto ad amplificare una breve regione dell’mtDNA normalmente sufficiente a distinguere fra le diverse specie. Le sequenze così ottenute - trenta, perché da sette campioni non è stato possibile estrarre materiale genetico - sono state confrontate con quelle già depositate nel database pubblico GenBank.
Purtroppo gli autori hanno scelto di descrivere i campioni solo attraverso un’indicazione di origine geografica che non permette di valutare come sono stati reperiti e, quindi, la loro significatività all’interno del corpus delle narrazioni e dei resti organici attribuiti a primati anomali. Non risulta così neppure possibile capire se compaiono altrove in letteratura[3]. Comunque sia, diciotto campioni provenivano da diversi stati degli USA: cinque sequenze combaciano con quelle di orsi neri americani; quattro con un qualche esponente del genere Canis (lupi o coyoti o cani domestici); tre con buoi domestici; e una ciascuna con procioni, pecore, ursoni (una specie di istrice), cavalli, cervi della coda bianca (oppure cervi mulo) e, infine, uomini (e qui è stato fatto un controllo aggiuntivo: si tratta proprio di un Homo sapiens con avi materni di probabile origine europea). Otto dalla Russia, dove vivrebbe l’almas: qui tre sequenze erano associate con cavalli e due a orsi bruni, mentre le altre erano attribuibili ancora una volta a orsi neri americani, buoi domestici e procioni. L’unico campione proveniente dal Sud-est asiatico, precisamente da Sumatra, è attribuibile ad un tapiro della Malesia. Tre, infine, quelli provenienti dall’Asia meridionale: uno, nepalese, attribuito a capricorni di Sumatra, altri due invece a orsi polari (Ursus maritimus).
Che ci fanno questi ultimi in Asia? Il primo campione, identificato con il codice 25025, è stato fornito da uno dei co-autori, C. Hagenmuller, che l’avrebbe ricavato all’inizio del secolo dalla pelliccia di un animale non identificato ucciso una trentina di anni prima e oggi conservato in un villaggio non meglio precisato nei dintorni di Ladakh (India). L’altro, 25191, è invece quanto resta di un pelo che, intorno al 2001 in Bhutan, un biologo evoluzionista allora ad Oxford, Robert McCall, aveva recuperato da quello che una guida del posto aveva identificato come un covo di mi-go, il nome locale dell’”uomo selvatico”. Secondo gli autori le due sequenze combaciano con quella di un fossile di U. maritimus di circa 40.000 anni fa rinvenuto nelle Isole Svalbard, nel Mar Glaciale Artico e descritta in un articolo del 2010, ma non con quelle di esemplari moderni della specie. Avanzano quindi una serie di ipotesi per cercare di spiegare questi risultati: si potrebbe trattare di una specie di orso ad oggi non descritta, oppure di una variante di U. maritimus con una pelliccia di diverso colore (perché i peli analizzati non erano bianchi), o infine di un episodio di ibridazione fra orso bruno (U. arctos) e U. maritimus accaduto in passato e probabilmente diverso rispetto a quello documentato oggi in alcune isole dell’Alaska. “Se questi orsi”, chiosano gli autori, “sono ampiamente distribuiti nell’Himalaya, allora potrebbero certamente avere contribuito alla fondazione biologica della leggenda dello yeti”.
Altri studiosi la pensano diversamente: in due articoli, apparsi rispettivamente ancora su Proceedings of the Royal Society B (febbraio 2015, ma online da dicembre 2014) e sulla rivista di biologia open access ZooKeys (marzo 2015), prima la genetista Ceiridwen J. Edwards e il biologo molecolare Ross Barnett (rispettivamente del Research Laboratory for Archaeology and the History of Art sempre dell’University of Oxford e del museo di geologia dell'Università di Copenhagen), poi i biologi Eliécer E. Gutiérrez dello Smithsonian Institution e Ronald H. Pine dell’University of Kansas utilizzando metodi diversi hanno contestato queste conclusioni[4]. Secondo questi autori, infatti, partendo dalle sequenze genetiche ottenute da Sykes e collaboratori non sarebbe possibile discriminare fra Ursus arctos e U. maritimus, o perché, come suggeriscono i primi, la differenza potrebbe essere dovuta a DNA degradato o, come invece ritengono i secondi, perché i profili genetici delle due specie sono troppo simili. Per tutti questi critici l’ipotesi più economica è che la sequenza sia attribuibile a U. arctos, specie effettivamente presente nell’Himalaya: “Nessuna prova è mai stata presentata a sostegno dell’esistenza di una specie sconosciuta in Himalaya”, concludono Gutiérrez e Pine.
C’è anche da dire che il biologo evoluzionista Frank Hailer (allora al Biodiversität und Klima Forschungszentrum di Francoforte sul Meno, dove si è occupato di storia genetica degli orsi) e, in modo probabilmente indipendente, Edwards e Barnett hanno segnalato che Sykes e al. erano incorsi in una svista[5]. L’articolo del 2010 riportava infatti diverse sequenze genetiche di orsi polari, una soltanto delle quali relativa ad un fossile. GU573490, quella più simile ai campioni himalayani, è un esemplare moderno, delle Isole Diomede, nello Stretto di Bering. In una risposta a Edwards e Barnett, Melton, Sartori e Sykes hanno riconosciuto lo “sfortunato” errore (che, comunque, è sfuggito ai referee della rivista), ma ritengono che questo “non cambi la conclusione che le sequenze recuperate [...] siano in relazione con U. maritimus, né invalida le diverse ipotesi discusse nell’articolo”[6].
Per risolvere i dubbi sarebbe necessario ulteriore materiale genetico. Sul come recuperarlo gli studiosi divergono. In maniera più avventurosa, con una spedizione in Himalaya come propone Sykes in una serie di interventi extra-articolo (e in tal caso sarebbe forse utile impiegare anche degli antropologi culturali per cercare di far chiarezza sulle diverse etno-tassonomie che si ritrovano nel folklore). Oppure, come più prosaicamente suggeriscono Gutiérrez e Pine, limitandosi ad esaminare il DNA nucleare degli esemplari di orso bruno provenienti da quell’area conservati nei diversi musei di storia naturale del mondo, anche per comprendere il reale status tassonomico di una sottospecie descritta nel XIX secolo, U. arctos isabellinus. Questa, cui sono attribuite diverse piccole popolazioni diffuse nell’intera catena himalayana, è ritenuta da molti l’origine delle leggende sullo yeti e, per Edwards e Barnett, potrebbe essere la fonte dei due campioni anomali.
Al di là dei problemi sollevati e delle debolezze riscontrate, che lezione trarre allora da questa pubblicazione? Per un paleontologo del Natural History Museum di Londra, Norman MacLeod, “questo tipo di analisi apre la strada all’avviamento di un dialogo produttivo fra criptozoologi e bio-zoologi tradizionali. I criptozoologi devono ora accettare i risultati del gruppo di Sykes oppure mostrare dove sono sbagliati. Gli zoologi tradizionali devono ora invece riconoscere che [...] le affermazioni dei criptozoologi sono suscettibili di sperimentazione scientifica e verifica potenziale”[7]. Il materiale non mancherà, come ricordava Sykes parlando con la giornalista Sarah C. P. Williams per il sito web di Science: "Ho avuto un'ottima collaborazione con la comunità bigfoot, che è generalmente soddisfatta di avere ora un metodo per identificare la propria preda in un modo che sarebbe universalmente accolto [...]. Stanno tornando nelle foreste con rinnovato entusiasmo alla ricerca del "pelo d'oro" che dimostri quanto da loro creduto"[8].
Note
1) Sykes, B. 2015. The Nature
of the Beast. London: Hodder & Stoughton, ch. 30.
2) Sykes, B. C., et al. 2014. Genetic analysis of hair
samples attributed to yeti, bigfoot and other anomalous primates. “Proceedings of the Royal Society B”, 281, 20140161, DOI: http://dx.doi.org/10.1098/rspb.2014.0161 , open access; da notare che sollecitato dalla rivista ad
indicare un riferimento
aggiuntivo oltre al Wolfson College di Oxford, Sykes
ha inserito un inesistente
Institute of Human Genetics; Jonathan Leake, un giornalista
scientifico del Sunday Times ha sollevato il caso e la rivista avrebbe deciso di pubblicare
una correzione, che al momento non risulta ancora apparsa (cfr. http://retractionwatch.com/2015/04/14/bigfoot-paper-corrected-because-it-doesnt-exist-t... ).
3) A ciò si è posto parziale
rimedio nel libro divulgativo
di Sykes già citato, dove
le circostanze sono state descritte. Meglio però
sarebbe stato pubblicare queste informazioni in un supplemento online.
4) Edwards C. J. & Barnett R. 2015. Himalayan ‘yeti’ DNA: polar bear or DNA degradation? A comment on ‘Genetic analysis of hair samples attributed to yeti’ by Sykes et al. (2014). “Proceedings of the Royal Society B”, 282, 20141712, DOI:http://dx.doi.org/10.1098/rspb.2014.1712 ; Gutiérrez, E. E. & Pine, R. 2015. No need to replace
an “anomalous” primate (Primates) with an “anomalous” bear (Carnivora, Ursidae). "ZooKeys", 487, 141–154, DOI: http://dx.doi.org/10.3897/zookeys.487.9176 , open access.
5) Hailer è citato il 2 luglio in un post su un blog sul sito web del quotidiano britannico The Guardian http://www.theguardian.com/science/grrlscientist/2014/jul/02/genetics-evolution-dna-ana... , mentre l’articolo di Edwards e Barnett è stato inviato alla rivista
il 9 luglio.
6) Melton T. W., Sartori M., & Sykes B. C. 2015 Response
to Edward and Barnett. “Proceedings of the Royal Society B”, 282, 20142434, DOI:http://dx.doi.org/10.1098/rspb.2014.2434
7) MacLeod N. 2014. Molecular
analysis of ‘anomalous primate’ hair samples: a commentary on Sykes et al. “Proceedings of the Royal Society B”, 281, 20140843, DOI:http://dx.doi.org/10.1098/rspb.2014.0843