Magic in the Moonlight Regia: Woody Allen Anno: 2014 Principali interpreti: Emma Stone, Colin Firth
recensione di Andrea Albini
Prestigiatori e ciarlatani che si fingono sensitivi, chiromanti, ipnotizzatori e maghi non sono mai mancati nei film di Woody Allen. Pensiamo solo alla chiaroveggente imbrogliona di Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni (2010) oppure all’illusionista Sid Waterman (interpretato dallo stesso Allen), in arte “Il Grande Splendini”, che in Scoop (2006) diventa un improvvisato detective dopo aver ricevuto una rivelazione dall’aldilà. In Midnight in Paris (2011) i protagonisti viaggiano all’indietro nel tempo attraverso un incantesimo (un passaggio notturno in auto attraverso la capitale francese) che sa molto di messa in scena teatrale; nella Maledizione dello scorpione di giada (2001), l’anziano investigatore assicurativo C.W. Briggs e la sua rampante responsabile sono vittime dei propositi criminali di un ipnotizzatore da palcoscenico che li “telecomanda” perché rubino e poi dimentichino le proprie azioni; mentre nell’episodio di New York stories (1989) da lui interpretato, il regista impersona un avvocato che fa sparire durante uno spettacolo di magia la sua assillante madre ebraica – contraria al suo matrimonio con una divorziata – solo per vedersela ricomparire nel cielo, pronta a mettere in piazza le presunte mancanze del figlio.
In una recente intervista al quotidiano francese Le Monde, Allen ha dichiarato la sua propensione a mettere in scena maghi da palcoscenico – così come mentitori, imbroglioni e impostori – perché con questi personaggi è possibile creare eccellenti situazioni comiche o drammatiche, esattamente come avviene quando si scrivono sceneggiature su gangster, ladri e spie: anche il personaggio più scialbo diventa cinematograficamente interessante quando si scopre che di notte si trasforma in un ladro di gioielli. Per il suo ultimo film, Woody Allen – che ama la magia fin da bambino – si è ispirato alla figura di Harry Houdini e alla sua attività di smascheratore di falsi sensitivi. La pellicola si apre con un impressionante primo piano dell’occhio di un elefante che viene smaterializzato sul palcoscenico; e questo non può non portare chi ama la storia della magia a fare un confronto con un celebre numero in cui Houdini fece scomparire un pachiderma all’Hippodrome di New York nel 1918, davanti a cinquemila persone. In inglese, trovarsi un “elefante nella stanza” significa essere testimoni visivi di qualcosa di incredibile: un fatto che avviene di routine durante uno spettacolo di illusionismo e che può essere anche la chiava di lettura del nostro film. Magic in the Moonlight è ambientato nella Costa Azzurra dei primi decenni del Novecento e ha come protagonisti Stanley Crawford (un bravo Colin Firth) – che con il nome di Wei Ling Soo esercita l’arte dell’illusionismo – e la giovane e graziosa sensitiva americana Sophie Baker (Emma Stone) che con l’assistenza della madre manager ha conquistato la fiducia di Grace Catledge, una facoltosa e ingenua vedova americana; seducendone – in aggiunta – il figlio Brice che la vuole sposare. Chiamato in soccorso dall’amico mago Howard Burkan (Simon McBurney), Crawford si reca in incognito nel sud della Francia e ingaggia una schermaglia con Sophie in cui Allen mostra le sue consolidate capacità comiche e ironiche. Tra i due – diciamolo subito – dal punto di vista umano il più problematico è sicuramente Stanley: il mago è presuntuoso e altezzoso, e offende i suoi interlocutori senza neanche accorgersene; supremamente scettico, è anche una persona tormentata e infelice, convinta che il mondo sia una realtà crudele e senza significato. Ma anche se in un romantico cielo stellato Stanley non vede altro che il segno di un universo minaccioso, egli non cede allo sconforto e non rinuncia a lottare contro gli ingannatori; questo dona al personaggio una dimensione eroica, che non appare tragica solo per l’esilarante carica umoristica delle sue battute: «Speriamo tutti che arrivi qualcuno dotato di superpoteri – sentenzia – ma l’unico superpotere certo brandisce una falce!».
Sophie, invece, sotto un velo di fragile ingenuità, è intelligente e ambiziosa; e soprattutto è consapevole che una povera ragazza di provincia come lei, avviata nella carriera delle letture spiritiche, non può fare a meno di gonzi come Grace e Brice Catledge: «quando il cuore comanda alla testa – dichiara – il disastro è assicurato». Più pragmatica è infine zia Vanessa (Eileen Atkins), che rimprovera gli eccessi di Stanley ricordandogli che «il mondo può anche essere del tutto privo di scopo, ma non del tutto privo di magia».
Tralasciando i dettagli della trama per non togliere il gusto di scoprirli allo spettatore (diciamo unicamente che il colpo di scena finale non stupirà così tanto l’appassionato di magia che sa che l’aiuto dei complici è fondamentale nei numeri di “lettura del pensiero”), il film può essere visto sia come una storia divertente con un lieto fine romantico, sia come una riflessione filosofica che rispecchia le convinzioni pessimistiche del regista: ci sono momenti “magici” nella vita – dichiara Allen – ma purtroppo durano poco. Alcuni di questi momenti speciali ce li dona il cinema. Ecco il parallelo tra l’arte cinematografica e la magia da palcoscenico: in entrambe le situazioni ci sediamo in platea e siamo consapevolmente disposti ad accettare e godere dell’illusione di un elefante che sparisce davanti ai nostri occhi; oppure a credere che tra personalità incompatibili, come quelle di Stanley e Sophie, possa esserci un futuro d’amore. Perché se come Allen ci ammonisce, «non c’è niente al di là di quanto uno voglia», la “magia” invocata da zia Vanessa, e il desiderio di abbandonarsi ad essa di tanto in tanto, diventano preziosi per il nostro esistere.