Forse ricorderete il Vangelo della moglie di Gesù (GJW), l’apparente frammento in copto saidico di un testo cristiano antico altrimenti sconosciuto di cui avevamo scritto in questa rubrica su Query 12. Era stato presentato al decimo International Congress of Coptic Studies tenutosi a Roma nel settembre 2012 dalla storica del cristianesimo Karen L. King, che lo aveva ricevuto per studio e pubblicazione da un collezionista statunitense ancora oggi ignoto: quest’ultimo, a sua volta, lo avrebbe acquistato da un tedesco insieme ad altri cinque papiri in greco e in copto. La studiosa, con il contributo della papirologa AnneMarie Luijendijk, aveva preparato un articolo, accettato per la pubblicazione dall’Harvard Theological Review dopo un processo di peer review, nel quale procurava l’edizione del frammento e situava il testo all’interno delle idee delle varie forme di cristianesimo antico. Per King, si trattava di un frammento di un codice del quarto secolo dell’età volgare, testimone di un testo originariamente composto forse già nel secondo secolo (in greco?), dal quale emergerebbe, tra l’altro, una controversia sul fatto che Gesù fosse o meno sposato, presente anche in altri testi di quel periodo.
Come all’epoca avevamo segnalato, in seguito ai dubbi e alle difficoltà sollevati sulla Rete da diversi studiosi di cristianesimo delle origini e di coptologia, la rivista aveva sospeso la pubblicazione in attesa, nel caso che il proprietario avesse dato la propria autorizzazione, di una serie di esami scientifici sul supporto e sull’inchiostro del reperto.
Senza particolare pubblicità, in effetti, le analisi sono state infine realizzate. Coloro che si aspettavano risultati decisivi sull’autenticità saranno rimasti piuttosto delusi: era peraltro chiaro a quasi tutti che solo un falsario alle prime armi avrebbe utilizzato un papiro moderno o inchiostro incompatibile con quello utilizzato nell’antichità. Partiamo dalla datazione del supporto con il metodo del radiocarbonio (o carbonio-14): un primo test (effettuato da Gregory Hodgins presso l’University of Arizona) ha attribuito il supporto al terzo-quarto secolo avanti era volgare, pur in presenza di un’anomalia, al momento non spiegata, del valore del carbonio-13, che potrebbe avere alterato la datazione; tale risultato non soddisfacente (perché uno scriba cristiano del quarto secolo avrebbe dovuto utilizzare un papiro di quasi un millennio precedente?) ha portato alla realizzazione di un secondo test (Noreen Tuross, dipartimento di biologia evoluzionistica umana, Harvard University) che ha invece indicato una data fra il 659 e l’869 dell’era volgare (età media: 741 e.v.). L’ossidazione del materiale cellulosico mostrata dalla microspettrografia ad infrarossi (Joseph M. Azzarelli et al., Massachusetts Institute of Technology) è compatibile con l’antichità del papiro. La composizione chimica dell’inchiostro (o degli inchiostri, perché sembra possibile che sui due lati siano stati utilizzati due differenti ma simili partite di inchiostro) lo identifica come inchiostro nero di carbonio, non diverso da quelli usati nell’antichità (James T. Yardley e Alexis Hagadorn, Columbia University). L’esame paleografico sull’originale (Malcolm Choat, Macquarie University) rende possibile abbandonare alcuni degli argomenti evidenziati dai sostenitori del falso durante il dibattito precedente (dovuti ad artefatti dell’immagine digitale), ma il paleografo chiarisce che «non h[a] trovato la “pistola fumante” che indichi senza dubbio che il papiro non sia stato scritto nell’antichità, ma neppure tale esame permette di provare che sia genuino».
A questo punto, l’Harvard Theological Review ha ritenuto fosse giunto il momento di pubblicare, in un fascicolo di aprile 2014 così trasformato in un numero quasi monografico, una versione rivista dell’articolo di King, seguito da sommari dei risultati delle analisi delle scienze ancillari (i rapporti più ampi sono stati infatti contemporaneamente pubblicati su un sito web), da una valutazione critica e dalla controreplica a quest’ultima della stessa King[1].
Nel suo intervento King, dopo aver ringraziato Roger Bagnall, AnneMarie Luijendijk (non più indicata nella dichiarazione autoriale) e Ariel Shisha-Halevy, gli studiosi che per primi avevano potuto collaborare con l’autrice nello studio del papiro, riconosce l’utilità di «molti dei commenti critici e costruttivi» circolati in ambito informale. Procede poi a fornire l’edizione critica del frammento e ad analizzare il reperto, il linguaggio utilizzato e la storia del manoscritto. In quest’ultima sezione, dove si occupa anche della questione del falso, è costretta a scartare la datazione paleografica che appariva nella prima versione del suo studio e a proporne una più tarda (settimo-ottavo secolo e.v.) in linea con i risultati dell’analisi del 14C di Tuross (giunti quando l’articolo in realtà era già pronto) e a riconoscere che la mano che ha vergato il testo è «non professionale» e «inesperta»; tutto considerato, ritiene però improbabile che ci si trovi di fronte ad un falso moderno. Consapevole che non si è di fronte all’ultima parola sulla questione, scrive che «[u]lteriori ricerche o lo sviluppo di nuovi metodi potranno offrire prove determinanti, ma per ora, giudicherei che il peso dell’evidenza sia a favore» a ritenere il frammento un prodotto materiale dell’antichità.
Il ruolo dell’advocatus diaboli è stato assunto dal fiammingo Leo Depuydt, professore di egittologia presso la Brown University di Providence, Rhode Island, uno degli studiosi che aveva sollevato pubblicamente dubbi sulla genuinità del frammento. Nel suo intervento questi ribadisce la dipendenza dal Vangelo di Tommaso e segnala una serie di errori grammaticali in cui sarebbe incorso il falsario, prove ed argomenti che nella sua controreplica King ritiene rispettivamente non sostanziali e non persuasivi.
Un tempo la disputa avrebbe potuto chiudersi qui. Non è più così nell’epoca del Web 2.0. Del gruppo di sei papiri acquistati in blocco, solo due erano stati quelli consegnati dall’anonimo collezionista a King per studio e pubblicazione. Uno era il GJW; l’altro, di dimensioni un poco più grandi, contiene invece sui due lati un frammento della versione copta licopolitana del vangelo canonico di Giovanni. Il supporto è stato datato dai test del 14C al 681/877 e.v. (Hodgins) o al 648/800 e.v (Tuross; età media: 718 e.v) ed è composto da cellulosa ossidata (Azzarelli et al.); l’inchiostro utilizzato è simile ma abbastanza distinto da quello/quelli utilizzati per il GJW (Yardley & Hagardon). Non ancora formalmente pubblicato, ne sono però state diffuse immagini all’interno dei rapporti d’analisi e l’attenzione dei critici si è presto concentrata su queste. Lo storico del cristianesimo e coptologo Christian Askeland (Indiana Wesleyan University) ricercatore presso la Kirchliche Hochschule Wuppertal/Bethel (per la quale si sta occupando della versione copta dell’Apocalisse canonica presso uno dei più importanti centri di critica testuale, l’Institut für neutestamentliche Textforschung dell’università di Münster) e collaboratore della Green Scholars Initiative (sponsorizzata dalla famiglia evangelicale statunitense dei Green), aveva studiato per il suo dottorato di ricerca presso l’University of Cambridge proprio le traduzioni del Nuovo Testamento in copto. Prima in alcuni interventi su un blog cui collabora e poi in un articolo apparso sul fascicolo di maggio della rivista peer-review Tyndale Bulletin (edita da una biblioteca di studi biblici di ispirazione cristiana con sede a Cambridge) ha messo in dubbio l’autenticità anche di questo frammento: egli ritiene che il falsario abbia impiegato, per costruire il testo, l’edizione critica di Herbert Thompson (1924) del Codex Qau, un codice del quarto secolo proveniente da Qaw e conservato a Cambridge contenente il Vangelo di Giovanni in licopolitano, un dialetto che, comunque, nel settimo-ottavo secolo non è più documentato. Soprattutto, Askeland giudica che la mano che ha vergato il GJW e quella che ha prodotto questo frammento siano la medesima[2]. Anche da un punto di vista codicologico, come ha notato Stephen Emmel, professore di coptologia presso l’università di Münster, già presidente e dal 2000 segretario dell’International Association for Coptic Studies, il frammento del Vangelo di Giovanni è anomalo: il codice avrebbe dovuto avere dimensioni assai diverse rispetto agli altri codici dell’epoca[3].
Dopo la pubblicazione dell’analisi di Askeland, il New York Times ha contattato King per la quale questa «è sostanziale, vale la pena di prenderla sul serio e potrebbe puntare nella direzione del falso» ma non considera chiusa la questione[4]. Da parte sua Alin Suciu (Hiob Ludolf Centre for Ethiopian Studies (HLCES) dell’università di Amburgo), uno dei primi coptologi a dimostrarsi pubblicamente critico nei confronti del papiro, scrive sul suo blog un post riassuntivo dedicato alla vicenda: «Dato che l’evidenza di una falsificazione è ormai schiacciante, considero la polemica che circonda il [“]papiro della moglie di Gesù[“] superata. Personalmente, da questo momento in poi non sono interessato a speculare su chi possa essere il falsario e quali siano le sue intenzioni. Inoltre, non ritengo [...] King responsabile di questa vicenda. Come studiosa, ha solo seguito la sua vocazione ed edito un frammento di manoscritto potenzialmente interessante. Sono certo che, al suo posto, molti altri studiosi avrebbero fatto esattamente la stessa cosa»[5]. Sarà forse possibile chiudere definitivamente il caso solo quando gli studiosi avranno modo di esaminare fianco a fianco i frammenti del GJW e del Vangelo di Giovanni per studiarne i rapporti reciproci, come ha suggerito Choat sempre al New York Times. E in quell’occasione sarà forse il caso che anche gli altri quattro papiri siano su quel tavolo.
Come all’epoca avevamo segnalato, in seguito ai dubbi e alle difficoltà sollevati sulla Rete da diversi studiosi di cristianesimo delle origini e di coptologia, la rivista aveva sospeso la pubblicazione in attesa, nel caso che il proprietario avesse dato la propria autorizzazione, di una serie di esami scientifici sul supporto e sull’inchiostro del reperto.
Senza particolare pubblicità, in effetti, le analisi sono state infine realizzate. Coloro che si aspettavano risultati decisivi sull’autenticità saranno rimasti piuttosto delusi: era peraltro chiaro a quasi tutti che solo un falsario alle prime armi avrebbe utilizzato un papiro moderno o inchiostro incompatibile con quello utilizzato nell’antichità. Partiamo dalla datazione del supporto con il metodo del radiocarbonio (o carbonio-14): un primo test (effettuato da Gregory Hodgins presso l’University of Arizona) ha attribuito il supporto al terzo-quarto secolo avanti era volgare, pur in presenza di un’anomalia, al momento non spiegata, del valore del carbonio-13, che potrebbe avere alterato la datazione; tale risultato non soddisfacente (perché uno scriba cristiano del quarto secolo avrebbe dovuto utilizzare un papiro di quasi un millennio precedente?) ha portato alla realizzazione di un secondo test (Noreen Tuross, dipartimento di biologia evoluzionistica umana, Harvard University) che ha invece indicato una data fra il 659 e l’869 dell’era volgare (età media: 741 e.v.). L’ossidazione del materiale cellulosico mostrata dalla microspettrografia ad infrarossi (Joseph M. Azzarelli et al., Massachusetts Institute of Technology) è compatibile con l’antichità del papiro. La composizione chimica dell’inchiostro (o degli inchiostri, perché sembra possibile che sui due lati siano stati utilizzati due differenti ma simili partite di inchiostro) lo identifica come inchiostro nero di carbonio, non diverso da quelli usati nell’antichità (James T. Yardley e Alexis Hagadorn, Columbia University). L’esame paleografico sull’originale (Malcolm Choat, Macquarie University) rende possibile abbandonare alcuni degli argomenti evidenziati dai sostenitori del falso durante il dibattito precedente (dovuti ad artefatti dell’immagine digitale), ma il paleografo chiarisce che «non h[a] trovato la “pistola fumante” che indichi senza dubbio che il papiro non sia stato scritto nell’antichità, ma neppure tale esame permette di provare che sia genuino».
A questo punto, l’Harvard Theological Review ha ritenuto fosse giunto il momento di pubblicare, in un fascicolo di aprile 2014 così trasformato in un numero quasi monografico, una versione rivista dell’articolo di King, seguito da sommari dei risultati delle analisi delle scienze ancillari (i rapporti più ampi sono stati infatti contemporaneamente pubblicati su un sito web), da una valutazione critica e dalla controreplica a quest’ultima della stessa King[1].
Nel suo intervento King, dopo aver ringraziato Roger Bagnall, AnneMarie Luijendijk (non più indicata nella dichiarazione autoriale) e Ariel Shisha-Halevy, gli studiosi che per primi avevano potuto collaborare con l’autrice nello studio del papiro, riconosce l’utilità di «molti dei commenti critici e costruttivi» circolati in ambito informale. Procede poi a fornire l’edizione critica del frammento e ad analizzare il reperto, il linguaggio utilizzato e la storia del manoscritto. In quest’ultima sezione, dove si occupa anche della questione del falso, è costretta a scartare la datazione paleografica che appariva nella prima versione del suo studio e a proporne una più tarda (settimo-ottavo secolo e.v.) in linea con i risultati dell’analisi del 14C di Tuross (giunti quando l’articolo in realtà era già pronto) e a riconoscere che la mano che ha vergato il testo è «non professionale» e «inesperta»; tutto considerato, ritiene però improbabile che ci si trovi di fronte ad un falso moderno. Consapevole che non si è di fronte all’ultima parola sulla questione, scrive che «[u]lteriori ricerche o lo sviluppo di nuovi metodi potranno offrire prove determinanti, ma per ora, giudicherei che il peso dell’evidenza sia a favore» a ritenere il frammento un prodotto materiale dell’antichità.
Il ruolo dell’advocatus diaboli è stato assunto dal fiammingo Leo Depuydt, professore di egittologia presso la Brown University di Providence, Rhode Island, uno degli studiosi che aveva sollevato pubblicamente dubbi sulla genuinità del frammento. Nel suo intervento questi ribadisce la dipendenza dal Vangelo di Tommaso e segnala una serie di errori grammaticali in cui sarebbe incorso il falsario, prove ed argomenti che nella sua controreplica King ritiene rispettivamente non sostanziali e non persuasivi.
Un tempo la disputa avrebbe potuto chiudersi qui. Non è più così nell’epoca del Web 2.0. Del gruppo di sei papiri acquistati in blocco, solo due erano stati quelli consegnati dall’anonimo collezionista a King per studio e pubblicazione. Uno era il GJW; l’altro, di dimensioni un poco più grandi, contiene invece sui due lati un frammento della versione copta licopolitana del vangelo canonico di Giovanni. Il supporto è stato datato dai test del 14C al 681/877 e.v. (Hodgins) o al 648/800 e.v (Tuross; età media: 718 e.v) ed è composto da cellulosa ossidata (Azzarelli et al.); l’inchiostro utilizzato è simile ma abbastanza distinto da quello/quelli utilizzati per il GJW (Yardley & Hagardon). Non ancora formalmente pubblicato, ne sono però state diffuse immagini all’interno dei rapporti d’analisi e l’attenzione dei critici si è presto concentrata su queste. Lo storico del cristianesimo e coptologo Christian Askeland (Indiana Wesleyan University) ricercatore presso la Kirchliche Hochschule Wuppertal/Bethel (per la quale si sta occupando della versione copta dell’Apocalisse canonica presso uno dei più importanti centri di critica testuale, l’Institut für neutestamentliche Textforschung dell’università di Münster) e collaboratore della Green Scholars Initiative (sponsorizzata dalla famiglia evangelicale statunitense dei Green), aveva studiato per il suo dottorato di ricerca presso l’University of Cambridge proprio le traduzioni del Nuovo Testamento in copto. Prima in alcuni interventi su un blog cui collabora e poi in un articolo apparso sul fascicolo di maggio della rivista peer-review Tyndale Bulletin (edita da una biblioteca di studi biblici di ispirazione cristiana con sede a Cambridge) ha messo in dubbio l’autenticità anche di questo frammento: egli ritiene che il falsario abbia impiegato, per costruire il testo, l’edizione critica di Herbert Thompson (1924) del Codex Qau, un codice del quarto secolo proveniente da Qaw e conservato a Cambridge contenente il Vangelo di Giovanni in licopolitano, un dialetto che, comunque, nel settimo-ottavo secolo non è più documentato. Soprattutto, Askeland giudica che la mano che ha vergato il GJW e quella che ha prodotto questo frammento siano la medesima[2]. Anche da un punto di vista codicologico, come ha notato Stephen Emmel, professore di coptologia presso l’università di Münster, già presidente e dal 2000 segretario dell’International Association for Coptic Studies, il frammento del Vangelo di Giovanni è anomalo: il codice avrebbe dovuto avere dimensioni assai diverse rispetto agli altri codici dell’epoca[3].
Dopo la pubblicazione dell’analisi di Askeland, il New York Times ha contattato King per la quale questa «è sostanziale, vale la pena di prenderla sul serio e potrebbe puntare nella direzione del falso» ma non considera chiusa la questione[4]. Da parte sua Alin Suciu (Hiob Ludolf Centre for Ethiopian Studies (HLCES) dell’università di Amburgo), uno dei primi coptologi a dimostrarsi pubblicamente critico nei confronti del papiro, scrive sul suo blog un post riassuntivo dedicato alla vicenda: «Dato che l’evidenza di una falsificazione è ormai schiacciante, considero la polemica che circonda il [“]papiro della moglie di Gesù[“] superata. Personalmente, da questo momento in poi non sono interessato a speculare su chi possa essere il falsario e quali siano le sue intenzioni. Inoltre, non ritengo [...] King responsabile di questa vicenda. Come studiosa, ha solo seguito la sua vocazione ed edito un frammento di manoscritto potenzialmente interessante. Sono certo che, al suo posto, molti altri studiosi avrebbero fatto esattamente la stessa cosa»[5]. Sarà forse possibile chiudere definitivamente il caso solo quando gli studiosi avranno modo di esaminare fianco a fianco i frammenti del GJW e del Vangelo di Giovanni per studiarne i rapporti reciproci, come ha suggerito Choat sempre al New York Times. E in quell’occasione sarà forse il caso che anche gli altri quattro papiri siano su quel tavolo.
Note
1) Il fascicolo è accessibile all’url http://journals.cambridge.org/action/displayIssue?decade=2010&jid=HTR&volumeId=107&issu... purtroppo dietro accesso a pagamento; il materiale supplementare è disponibile all’url http://gospelofjesusswife.hds.harvard.edu/
2) Si veda http://evangelicaltextualcriticism.blogspot.com/2014/04/the-forgery-of-lycopolitan-gosp... e Askeland, C. 2014. A Fake Coptic John and Its Implications for the 'Gospel of Jesus's Wife'. “Tyndale Bulletin” 65.2, pp. 1-10