Affrontare il “rompicapo della piramide” è semplice: basta ritagliare, piegare e incollare le due figure A e B. Otterrai due piccoli solidi uguali, ciascuno con cinque facce. Scopo del gioco è di accostarli in modo da formare – appunto – una piramide. Sebbene il puzzle sia composto da due soli pezzi, la soluzione è tutt’altro che intuitiva: l’intrigante sfida offerta, a fronte della sua minimalità, l’ha reso un vero e proprio “classico”. Come tale, non riserva grandi sorprese agli esperti di giochi. Ci vuole ben altro per stuzzicare la loro curiosità. Ci vuole uno come Mel Stover (1912-1999). Mel era un illusionista canadese appassionato di puzzle e rompicapo. Gli enigmi da lui proposti ricordavano sempre qualche classico del passato, ma a uno sguardo meno superficiale c’era sempre qualcosa che non quadrava. I suoi sfidanti ideali erano i postmodernisti, convinti che tutto è già stato detto e visto. Ogni gioco di Mel sembrava confermarne le premesse, per poi capovolgerle in modo sorprendente. Tentando di risolvere i suoi giochi, la mente entrava in un cortocircuito e le sue sfide si rivelavano del tutto inedite: si trattava di varianti minime ma sufficienti a rendere inespugnabili i suoi enigmi. Nulla di nuovo sotto il sole? Non a Winnipeg – la città da cui proveniva Stover: il mago canadese era un grillo parlante sistematicamente impegnato a smentire Qohelet. La sua versione del “rompicapo della piramide” non era solo difficile da risolvere: era impossibile. Mel lo presentava mostrando per qualche secondo la piramide già formata. Avvicinando la mano per separare i due pezzi, ne aggiungeva segretamente un terzo, fino ad allora tenuto nascosto nel palmo. Chi osservava non si accorgeva dell’aggiunta furtiva: di fronte ai tre pezzi sparpagliati sul tavolo, la sfida consisteva nel ricostruire la piramide iniziale. Il pezzo in più, però, frustrava qualunque tentativo di ripercorrere a ritroso la sua costruzione. Con grande scorno di chi – tra i più esperti – si accostava al gioco con sufficienza, credendo di riconoscervi il vecchio classico. Invitando ad apprezzare l’atteggiamento sornione con cui il mago canadese proponeva lo scherzo, Max Maven scriveva: «Welcome to Melville.»[1] Benvenuti nel Paese di Mel.
Melville non compare esplicitamente tra le pagine dell’ultimo libro di Umberto Eco. Storia delle terre e dei luoghi leggendari (Bompiani 2013) è un viaggio attraverso isole, regni e territori su cui l’umanità ha fantasticato per secoli – dal continente perduto di Atlantide all’Eldorado, dal paese di Cuccagna al giardino di Eden. Il Paese di Mel è presente tra le sue pagine in una forma più sottile, nel racconto di come generazioni di studiosi hanno cercato di ricostruire la piramide – senza accorgersi che c’era sempre un pezzo di troppo.
Già ne Il nome della rosa Guglielmo da Baskerville aveva scandalizzato il giovane Adso illustrandogli il problema dell’eccedenza: «Di frammenti della croce ne ho visti molti altri, in altre chiese. Se tutti fossero autentici, Nostro Signore non sarebbe stato suppliziato su due assi incrociate, ma su di una intera foresta.»[2]
Nel caso di Mel Stover l’eccedenza genera un cortocircuito dagli interessanti risvolti creativi: il pezzo in più costringe il giocatore a esplorare un potenziale spazio di soluzioni più ampio del previsto, e poiché l’enigma è insolubile, l’esercizio combinatorio può prolungarsi all’infinito. Molti studiosi citati da Eco nel suo viaggio affrontano le indagini in condizioni simili, producendo – senza volerlo – insoliti effetti estetici.
È il caso di Cosma Indicopleuste. Interrogandosi sulla forma del cosmo, nel VI secolo il geografo bizantino cercava di mettere insieme i tre pezzi che aveva a disposizione: la Bibbia descriveva l’universo sul modello di un tabernacolo; la terra doveva essere piatta o gli uomini agli antipodi sarebbero caduti di sotto; il sole spariva quotidianamente all’orizzonte, ricomparendo alle spalle il mattino dopo. Poiché tali elementi quadravano con difficoltà, fu costretto a elaborare un modello sorprendente per bizzarria e complicazione: «Cosma Indicopleuste [...] aveva sostenuto che il cosmo fosse rettangolare, con un arco che sovrastava il pavimento piatto della Terra. [...] Sotto si stende l’ecumene, ovvero tutta la terra su cui abitiamo, che poggia sull’oceano e monta per un declivio impercettibile e continuo verso nord-ovest, dove si erge una montagna talmente alta che la sua presenza sfugge al nostro occhio e la sua cima si confonde con le nubi. Il sole [...] passa al mattino da oriente verso il meridione, davanti alla montagna, e illumina il mondo, e alla sera risale a occidente e scompare dietro la montagna.»[3]
Nel XII secolo Riccardo di San Vittore cercò di disegnare una mappa del primo tempio di Re Salomone. Due dei tre pezzi a disposizione glieli forniva la Bibbia: l’edificio era stato descritto sul Libro dei Re e in quello di Ezechiele. Il terzo proveniva da Sant’Agostino, ed era la regola di interpretare letteralmente le descrizioni bibliche. La soluzione, però, era meno facile del previsto.
A prima vista minuziose e dettagliate, le misure documentate si contraddicevano a vicenda ed era impossibile trarne la pianta di un palazzo verosimile. Nonostante i Padri della Chiesa avessero intuito che, a voler intendere le misure dell’edificio in termini fisici, «le porte avrebbero dovuto essere più larghe dei muri»[4], il teologo di origine scozzese si affannò a «rifar calcoli e a riproporre piani e spaccati, decidendo che quando due misure non coincidono una deve essere riferita all’intero edificio e l’altra a una sola delle sue parti»[5].
Anche se oggi può far sorridere, l’approccio di Riccardo di San Vittore si ritrova nel lavoro che Rob Ager ha condotto pochi anni fa sul film di Stanley Kubrick Shining (1979); nel tentativo di disegnare la mappa dell’Overlook Hotel in cui la pellicola è ambientata, Ager si è imbattuto in una serie di incongruenze cui ha dedicato un minuzioso documentario[6]. Le eccedenze tra loro incompatibili che si riscontrano nei film sono spesso dovute a semplici errori di continuity; con l’occhio del diabolico, il documentarista inglese vi ritrova indizi di una spiccata “consapevolezza spaziale” da parte di Kubrick, che avrebbe introdotto tali incoerenze per produrre un effetto straniante sullo spettatore.
Si troverebbe di fronte a problemi simili chi cercasse di ricostruire su una mappa il viaggio compiuto da Ulisse. Eco riferisce che, dal XVI secolo a oggi, sono state proposte almeno ottanta teorie diverse, una più curiosa dell’altra. Lo scrittore alessandrino ammette di essere più interessato a ricostruire la loro evoluzione che ad «appurare quale sia stato il vero periplo di Ulisse»[7]. Come nel rompicapo di Mel Stover, la combinazione “giusta” potrebbe addirittura non esserci, ma non importa: «Quello che ci affascina è il fatto che nei secoli si sia stati ammaliati da un viaggio mai avvenuto»[8].
Il libro documenta un’esplorazione piuttosto allegra dello spazio di soluzioni: la surreale foresta di idee, teorie e ipotesi che ne emerge offre al lettore un vero e proprio divertimento – ancorché grottesco.
Eco cattura anche, in una serie di istantanee, la furtiva aggiunta di pezzi in eccedenza – come quando punta il riflettore su tre mostri disegnati sulle pagine del Milione. Il Blemma è un individuo con la bocca sullo stomaco e senza testa. Lo Sciapode ha una sola gamba. Il Monocolo ha un unico occhio al centro della fronte. Marco Polo, che mirava a una scrittura un minimo rigorosa, non ne aveva accennato tra le pagine del suo diario, ma l’anonimo illustratore si era sentito autorizzato a inserirli tra le illustrazioni perché è «quanto il lettore del manoscritto si attendeva di trovare in quella regione.»[9]
Di lì in avanti – per i lettori del Milione e per chi vuole conoscere l’Oriente – c’è un pezzo in più sul tavolo, e ricostruire una piramide che stia in piedi diventa più complicato.
L’eccedenza straripa nella combinatoria quando il viaggio tocca il tema del Graal. Calderone, vaso, piatto, patena o pietra? Simbolo della tradizione celtica, cortese, cattolica, esoterica o nazista? Custodito a Glastonbury, a Montsegur, in Galizia o a Torre Canavese? Il Graal “funziona” come stimolo creativo – e frustra chi tenta di ricostruirne con serietà origini letterarie e vicende archeologiche – proprio per la sua straordinaria sovrabbondanza: «Prototipo di ogni segreto “vuoto”, [è] tanto più affascinante quanto eluderà sempre ogni tentativo di svelamento e sarà all’origine della ricerca infinita di un sapere perduto.»[10]
Tra i capitoli più rocamboleschi, spicca quello dedicato alle teorie sulla Terra Cava. Muovendo da una serie di romanzi e mostrando l’inesorabile insinuarsi nella realtà delle ipotesi più fantascientifiche, il viaggio nei meandri del pianeta culmina con le teorie di Cyrus Reed Teed. Il leader della setta dei Koreshiani riteneva che la terra fosse concava e noi ne vivessimo all’interno. Completamente cavo, il nostro pianeta ospiterebbe al centro il sole, circondato da un denso gas azzurro che noi chiamiamo “cielo”. Dando credito alle geometrie proposte da Teed, i nazisti avrebbero addirittura sbagliato alcuni lanci di missili V1 – e da questo Eco intuisce «l’utilità storica e provvidenziale delle astronomie deliranti.»[11]
Una sempre crescente eccedenza, frutto di materiali spuri stratificati nell’arco di un secolo, circonda anche le vicende di Rennes-le-Château e del suo leggendario tesoro. Decostruendo l’evoluzione del suo “mito agglutinante”, Eco ripercorre le vicende letterarie della sgangherata tribù di autori – da Noël Corbu fino a Dan Brown – che ne hanno fatto un parco di divertimenti a sfondo esoterico, sede di un gioco infinito impossibile da fermare, «anche quando storici, tribunali e altre istituzioni abbiano riconosciuto la sua natura mendace.»[12]
L’eccedenza intorno cui ruotano le pagine di Storia delle terre e dei luoghi leggendari si ritrova nelle numerose illustrazioni a corredo del testo: molte fanno pensare al tratto di Jacovitti per densità e ricchezza di dettagli, e tutte fissano nel «museo della nostra memoria»[13] luoghi, terre e personaggi scomparsi – o forse addirittura mai esistiti. Prova a contare le foglie del Paradiso terrestre di Nicolas Poussin (alle pp. 162-163), le vittime della Distruzione dell’impero (atlantideo?) di Thomas Cole (alle pp. 184-185) o gli angeli ritratti nel paradiso di Dorè (a p. 416)... non ti viene da pensare (come davanti a un elenco telefonico): «con tutti quei personaggi potrei inventare storie infinite»[14]?
Come nel suo primo romanzo, il congedo (qui anche iconografico) è affidato alla rosa. E la mente va alla nota ed evocativa eccedenza tra i versi di Gertrude Stein. «Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa.»[15]
La ricostruzione del portico di Riccardo di San Vittore è tratta dall’Harley MS 461, f.26v (1195) custodito presso la British Library. Le altre illustrazioni sono ricostruzioni dell’autore.
Melville non compare esplicitamente tra le pagine dell’ultimo libro di Umberto Eco. Storia delle terre e dei luoghi leggendari (Bompiani 2013) è un viaggio attraverso isole, regni e territori su cui l’umanità ha fantasticato per secoli – dal continente perduto di Atlantide all’Eldorado, dal paese di Cuccagna al giardino di Eden. Il Paese di Mel è presente tra le sue pagine in una forma più sottile, nel racconto di come generazioni di studiosi hanno cercato di ricostruire la piramide – senza accorgersi che c’era sempre un pezzo di troppo.
Già ne Il nome della rosa Guglielmo da Baskerville aveva scandalizzato il giovane Adso illustrandogli il problema dell’eccedenza: «Di frammenti della croce ne ho visti molti altri, in altre chiese. Se tutti fossero autentici, Nostro Signore non sarebbe stato suppliziato su due assi incrociate, ma su di una intera foresta.»[2]
Nel caso di Mel Stover l’eccedenza genera un cortocircuito dagli interessanti risvolti creativi: il pezzo in più costringe il giocatore a esplorare un potenziale spazio di soluzioni più ampio del previsto, e poiché l’enigma è insolubile, l’esercizio combinatorio può prolungarsi all’infinito. Molti studiosi citati da Eco nel suo viaggio affrontano le indagini in condizioni simili, producendo – senza volerlo – insoliti effetti estetici.
È il caso di Cosma Indicopleuste. Interrogandosi sulla forma del cosmo, nel VI secolo il geografo bizantino cercava di mettere insieme i tre pezzi che aveva a disposizione: la Bibbia descriveva l’universo sul modello di un tabernacolo; la terra doveva essere piatta o gli uomini agli antipodi sarebbero caduti di sotto; il sole spariva quotidianamente all’orizzonte, ricomparendo alle spalle il mattino dopo. Poiché tali elementi quadravano con difficoltà, fu costretto a elaborare un modello sorprendente per bizzarria e complicazione: «Cosma Indicopleuste [...] aveva sostenuto che il cosmo fosse rettangolare, con un arco che sovrastava il pavimento piatto della Terra. [...] Sotto si stende l’ecumene, ovvero tutta la terra su cui abitiamo, che poggia sull’oceano e monta per un declivio impercettibile e continuo verso nord-ovest, dove si erge una montagna talmente alta che la sua presenza sfugge al nostro occhio e la sua cima si confonde con le nubi. Il sole [...] passa al mattino da oriente verso il meridione, davanti alla montagna, e illumina il mondo, e alla sera risale a occidente e scompare dietro la montagna.»[3]
Riccardo di San Vittore tenta di ricostruire un portico descritto nella Bibbia. Harley MS 461, f.26v (1195), British Library.
A prima vista minuziose e dettagliate, le misure documentate si contraddicevano a vicenda ed era impossibile trarne la pianta di un palazzo verosimile. Nonostante i Padri della Chiesa avessero intuito che, a voler intendere le misure dell’edificio in termini fisici, «le porte avrebbero dovuto essere più larghe dei muri»[4], il teologo di origine scozzese si affannò a «rifar calcoli e a riproporre piani e spaccati, decidendo che quando due misure non coincidono una deve essere riferita all’intero edificio e l’altra a una sola delle sue parti»[5].
Anche se oggi può far sorridere, l’approccio di Riccardo di San Vittore si ritrova nel lavoro che Rob Ager ha condotto pochi anni fa sul film di Stanley Kubrick Shining (1979); nel tentativo di disegnare la mappa dell’Overlook Hotel in cui la pellicola è ambientata, Ager si è imbattuto in una serie di incongruenze cui ha dedicato un minuzioso documentario[6]. Le eccedenze tra loro incompatibili che si riscontrano nei film sono spesso dovute a semplici errori di continuity; con l’occhio del diabolico, il documentarista inglese vi ritrova indizi di una spiccata “consapevolezza spaziale” da parte di Kubrick, che avrebbe introdotto tali incoerenze per produrre un effetto straniante sullo spettatore.
Si troverebbe di fronte a problemi simili chi cercasse di ricostruire su una mappa il viaggio compiuto da Ulisse. Eco riferisce che, dal XVI secolo a oggi, sono state proposte almeno ottanta teorie diverse, una più curiosa dell’altra. Lo scrittore alessandrino ammette di essere più interessato a ricostruire la loro evoluzione che ad «appurare quale sia stato il vero periplo di Ulisse»[7]. Come nel rompicapo di Mel Stover, la combinazione “giusta” potrebbe addirittura non esserci, ma non importa: «Quello che ci affascina è il fatto che nei secoli si sia stati ammaliati da un viaggio mai avvenuto»[8].
Il libro documenta un’esplorazione piuttosto allegra dello spazio di soluzioni: la surreale foresta di idee, teorie e ipotesi che ne emerge offre al lettore un vero e proprio divertimento – ancorché grottesco.
Eco cattura anche, in una serie di istantanee, la furtiva aggiunta di pezzi in eccedenza – come quando punta il riflettore su tre mostri disegnati sulle pagine del Milione. Il Blemma è un individuo con la bocca sullo stomaco e senza testa. Lo Sciapode ha una sola gamba. Il Monocolo ha un unico occhio al centro della fronte. Marco Polo, che mirava a una scrittura un minimo rigorosa, non ne aveva accennato tra le pagine del suo diario, ma l’anonimo illustratore si era sentito autorizzato a inserirli tra le illustrazioni perché è «quanto il lettore del manoscritto si attendeva di trovare in quella regione.»[9]
Di lì in avanti – per i lettori del Milione e per chi vuole conoscere l’Oriente – c’è un pezzo in più sul tavolo, e ricostruire una piramide che stia in piedi diventa più complicato.
L’eccedenza straripa nella combinatoria quando il viaggio tocca il tema del Graal. Calderone, vaso, piatto, patena o pietra? Simbolo della tradizione celtica, cortese, cattolica, esoterica o nazista? Custodito a Glastonbury, a Montsegur, in Galizia o a Torre Canavese? Il Graal “funziona” come stimolo creativo – e frustra chi tenta di ricostruirne con serietà origini letterarie e vicende archeologiche – proprio per la sua straordinaria sovrabbondanza: «Prototipo di ogni segreto “vuoto”, [è] tanto più affascinante quanto eluderà sempre ogni tentativo di svelamento e sarà all’origine della ricerca infinita di un sapere perduto.»[10]
Tra i capitoli più rocamboleschi, spicca quello dedicato alle teorie sulla Terra Cava. Muovendo da una serie di romanzi e mostrando l’inesorabile insinuarsi nella realtà delle ipotesi più fantascientifiche, il viaggio nei meandri del pianeta culmina con le teorie di Cyrus Reed Teed. Il leader della setta dei Koreshiani riteneva che la terra fosse concava e noi ne vivessimo all’interno. Completamente cavo, il nostro pianeta ospiterebbe al centro il sole, circondato da un denso gas azzurro che noi chiamiamo “cielo”. Dando credito alle geometrie proposte da Teed, i nazisti avrebbero addirittura sbagliato alcuni lanci di missili V1 – e da questo Eco intuisce «l’utilità storica e provvidenziale delle astronomie deliranti.»[11]
Una sempre crescente eccedenza, frutto di materiali spuri stratificati nell’arco di un secolo, circonda anche le vicende di Rennes-le-Château e del suo leggendario tesoro. Decostruendo l’evoluzione del suo “mito agglutinante”, Eco ripercorre le vicende letterarie della sgangherata tribù di autori – da Noël Corbu fino a Dan Brown – che ne hanno fatto un parco di divertimenti a sfondo esoterico, sede di un gioco infinito impossibile da fermare, «anche quando storici, tribunali e altre istituzioni abbiano riconosciuto la sua natura mendace.»[12]
L’eccedenza intorno cui ruotano le pagine di Storia delle terre e dei luoghi leggendari si ritrova nelle numerose illustrazioni a corredo del testo: molte fanno pensare al tratto di Jacovitti per densità e ricchezza di dettagli, e tutte fissano nel «museo della nostra memoria»[13] luoghi, terre e personaggi scomparsi – o forse addirittura mai esistiti. Prova a contare le foglie del Paradiso terrestre di Nicolas Poussin (alle pp. 162-163), le vittime della Distruzione dell’impero (atlantideo?) di Thomas Cole (alle pp. 184-185) o gli angeli ritratti nel paradiso di Dorè (a p. 416)... non ti viene da pensare (come davanti a un elenco telefonico): «con tutti quei personaggi potrei inventare storie infinite»[14]?
Come nel suo primo romanzo, il congedo (qui anche iconografico) è affidato alla rosa. E la mente va alla nota ed evocativa eccedenza tra i versi di Gertrude Stein. «Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa.»[15]
Credits iconografici:
La ricostruzione del portico di Riccardo di San Vittore è tratta dall’Harley MS 461, f.26v (1195) custodito presso la British Library. Le altre illustrazioni sono ricostruzioni dell’autore.
Note
1) Max Maven, “Just for the Mel of It” in David Wolfe e Tom Rodgers (edd.), Puzzlers’ Tribute, A.K. Peters, Natick 2002, p. 25.
2) Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980, p. 427.
3) Umberto Eco, Storia delle terre e dei luoghi leggendari, Bompiani, Milano 2013, pp. 13-14.
4) Eco 2013, p. 48.
5) Eco 2013, p. 48.
6) Donald Clarke, “Spacial Awareness in The Shining”, The Irish Times, 1.8.2011. Il filmato di Rob Ager è stato incluso e ampiamente analizzato nello pseudo-documentario di Rodney Ascher, Room 237 (DVD), Feltrinelli, Milano 2013.
7) Eco 2013, p. 75.
8) Ibidem.
9) Eco 2013, p. 113.
10) Ibidem.
11) Eco 2013, p. 366.
12) Eco 2013, p. 113
13) Eco 2013, p. 441.
14) Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano 1995, p. 75.
15) Gertrude Stein, “Sacred Emily” (1913) in Geography and Play, Four Seas Co., Boston 1922, pp. 178-188.