Le scienze del comportamento hanno offerto varie spiegazioni del perché siamo così attratti e preoccupati da eventi che portrebbero avere conseguenze catastrofiche. Vorremmo analizzare la fascinazione per i disastri attraverso tre fenomeni: la passione per i film e la fiction a tematica catastrofica, il viaggio nei luoghi colpiti dai disastri, e la tendenza a curiosare quando siamo in prossimità di un incidente.
Ciò che più temiamo nella realtà sembra essere quello che più ci piace guardare, sgranocchiando popcorn con degli sconosciuti in una sala buia. Il cinema catastrofico, un prolifico filone che ha preso il via col film di Feist del 1933 La distruzione del mondo (incentrato su un’eclisse solare che porterà a uno sconvolgimento delle maree e alla relativa distruzione della civiltà umana), ha avuto una crescente popolarità dagli anni Novanta grazie anche agli efficaci effetti visivi).
Secondo alcune teorie psicosociali, alla base c’è un processo di apprendimento vicario, cioè un processo che si sviluppa attraverso l’osservazione dei comportamenti altrui. Quando vediamo un film a tematica disastrosa abbiamo bisogno di capirne le dinamiche (chi ce la farà, chi non ce la farà?) e facciamo ipotesi sulle nostre risposte (forse mi comporterei come lui o lei se fossi in quella situazione). Guardando Titanic ci siamo forse chiesti come ci saremmo comportati se fossimo stati sul ponte della nave che affondava nella notte tra i ghiacci dell’oceano. Osservare eventi traumatici accaduti ad altri ci consente di acquisire informazioni rilevanti sulla sofferenza umana e forse consente ad alcune persone di prepararsi a eventi simili, come sopportare il dolore di una ferita o come fuggire in un’emergenza.
Una seconda componente che potrebbe essere presente è quella del “confronto sociale verso il basso”: una persona in salute, integra fisicamente, in un contesto sicuro può provare a livello più o meno consapevole un senso di sollievo, ottimismo e apprezzamento per non trovarsi a vivere una condizione di sofferenza e dolore. Alla base di questa fascinazione, un altro elemento rilevante è la ricerca di emozioni forti in un contesto sicuro e controllabile. Possiamo sperimentare uno stato di attivazione fatto di sensazioni corporee ed emozioni associate a una situazione di pericolo senza subirne le conseguenze fisiche. Alcune persone apprezzano il rush adrenalinico durante i momenti più acuti di un film a tematica disastrosa, ad esempio quando l’eroe sta per salvare il mondo dalla distruzione e mancano solo 10 secondi. Sappiamo infatti che alcuni hanno dei tratti di personalità più inclini alla cosiddetta ricerca di sensazioni intense, i cosiddetti “sensation seekers”. Dopo aver provato quelle sensazioni, gli spettatori escono dal cinema con un senso di ottimismo e speranza come se fossero veramente sopravvissuti a un evento nefasto. Acquisire familiarità con le esperienze di paura e di ansia ha il beneficio di aiutare le persone a riconoscere ed elaborare tali emozioni e sensazioni, in modo da non sentirsene sopraffatti.
Alcuni studiosi di cinema e marketing hanno fatto notare che l’eccessivo realismo non paga molto. È noto che i film basati sulla finzione vendono in genere più dei documentari sui disastri realmente accaduti, perché i fatti veri possono rievocare dei sentimenti collettivi di dolore associato a quegli eventi. Non a caso il film sul Titanic ha avuto più successo di quelli realizzati sull’11 settembre.
Ma questi film sono realistici? O al contrario alimentano convinzioni false sui disastri e sulle emergenze? Basandosi sulla visione diretta di una trentina di film che trattavano di disastri, lo studioso italo-americano Quarantelli ha sottolineato che tali pellicole non sono molto realistiche (1980): si concentrano sulla fase acuta di un disastro e vi è scarsa attenzione alla fase di post-impatto e alla ricostruzione; si focalizzano su singoli individui che cercano di affrontare l’evento-minaccia in modo solitario; l’evento disastroso è ricondotto a errori umani piuttosto che a processi sociali e raramente sono rappresentate le risorse presenti in una comunità per fronteggiare o rispondere a una calamità (contromisure, soccorsi, eccetera); descrivono il comportamento collettivo come irrazionale, centrato sul panico, mentre sappiamo dalle ricerche che è cooperativo e normativo. Insomma, vengono selezionati solo quegli elementi narrativi in grado di generare emozioni forti.
Nel 2008 l’eruzione di un vulcano islandese ha creato non pochi problemi al traffico aereo. Si è trattato di un fenomeno naturale atipico ma spettacolare, e nei giorni successivi le agenzie turistiche offrivano escursioni in jeep e in elicottero nei pressi dell’eruzione in un delicato gioco di gestione del rischio. Il turismo dei disastri rappresenta l’atto di viaggiare in una zona colpita da un disastro spinti dalla curiosità. Un fenomeno che nasce dalla curiosità umana di “toccare con mano” il luogo dove un evento è accaduto. Accade così che gli eventi che si verificano, e vengono ripresi dai media, rendono improvvisamente celebri alcune località, come ad esempio in occasione del naufragio della Costa Concordia (2011). In un contesto di globalizzazione e spettacolarizzazione, alcune agenzie turistiche offrono pacchetti specifici dal giro nelle zone alluvionate di New Orleans, alle zone terremotate o a Ground zero. In alcuni casi c’è un intento commemorativo e di mantenimento della memoria o un bisogno di accostarsi all’esperienza della finitezza umana attraverso esperienze accadute “ad altri, in altri tempi e luoghi”. In altri casi raccontare ad amici e familiari di essere stato in un luogo conosciuto per un evento disastroso può essere fonte di gratificazione o protagonismo, garantendo dei vantaggi sociali derivanti dal poter dire “io ci sono stato”.
Un esempio può essere ricavato dall’ultimo terremoto che si è verificato in Emilia dove persone costrette a dormire nelle tende venivano fotografate alla stregua dagli animali allo zoo.
È però possibile trovare anche nella nostra esperienza quotidiana un’attrazione per i disastri.
Sei in autostrada e mentre stai guidando ti accorgi di una corsia chiusa, segni di un tamponamento a catena, qualche veicolo di soccorso a lato. Alcune domande verranno spontanee: «Cosa è successo? Qualcuno si è ferito?» Magari cerchi qualcosa con lo sguardo tra l’auto della polizia e l’ambulanza, rallenti per osservare meglio la situazione e sei distratto dalla guida. Questo fenomeno studiato da psicologi e ingegneri del traffico è chiamato “rubberneck effect”. L’incidente in una direzione influenza il traffico in quella opposta. Il fenomeno è causa di congestione, riduzione della capacità e ritardo, rendendo lo scenario incidentale peggiore in entrambe le corsie. Certo, si tratta della curiosità di qualcuno che ha effetti amplificati, una curiosità dettata anche dalla salienza delle informazioni a forte connotazione emotiva, e dalla vividezza delle immagini negative. Siamo attratti dagli stimoli emotivi negativi, ne sanno qualcosa i giornali che ci propongono più storie di cronaca nera che non buone notizie relative ad azioni prosociali. Pensiamo che il progresso della scienza, con i suoi metodi e le sue scoperte, ci protegga da queste ossessioni apocalittiche, ma non è così, anzi il progresso contribuisce probabilmente a suscitare ulteriori preoccupazioni.
È interessante notare infatti che non solo alcuni gruppi di fanatici ma anche autorevoli scienziati hanno espresso opinioni apocalittiche. Bill Joy, cofondatore e scienziato di Sun Microsystems, mette in guardia sul fatto che, in futuro, nanorobot auto-replicanti fuori controllo potrebbero distruggere la terra. L’astronomo Martin Ree ha scommesso che una catastrofe biologica ucciderà almeno un milione di persone entro il 2020. A cavallo del XIX secolo l’economista britannico Malthus aveva previsto che l’aumento della popolazione avrebbe portato a carestie e catastrofi. Sulla stessa linea d’onda, alcuni esperti hanno analizzato le probabilità di alcuni scenari catastrofici. Su un duplice asse (impatto locale vs. globale, bassa vs. alta probabilità) sono stati raffigurati i possibili scenari catastrofici: l’impatto di un asteroide gigante sulla Terra ha una probabilità su un milione di verificarsi nei prossimi cento anni, una guerra nucleare ha una probabilità su trenta di verificarsi nei prossimi dieci anni, mentre una pandemia sembra essere più probabile. Ma le persone non calcolano il rischio in modo razionale.
Possiamo anche chiederci se qualcuno è più attratto degli altri dalle catastrofi. Ci sono infatti differenze individuali per cui alcuni soggetti possono essere più affascinati dalle catastrofi e dalle apocalissi per esperienze o caratteristiche personali. La persone più religiose tendono ad abbracciare cognizioni di stampo apocalittico (Miller, 2012). Alcune persone con diagnosi di malattie a esito infausto sono attratte dalle distruzioni collettive come modalità per fronteggiare l’ansia di morte, per ricordare a se stessi che la finitezza riguarda tutti gli esseri viventi. La fascinazione per la morte o la distruzione può essere uno dei sintomi di stress in adolescenti che hanno vissuto un’esperienza traumatica.
Come è successo dopo il Millenium Bug, il 22 dicembre 2012 la maggior parte di noi avrà preso un caffè e si sarà dedicata allo shopping natalizio. Ma immaginate di avere professato la fine del mondo, di aver lasciato la casa e il lavoro e speso tutti i soldi. Cosa succede nella mente delle persone e dei gruppi quando le profezie non si avverano? Lo psicologo sociale Leo Festinger e altri studiosi hanno analizzato in dettaglio come poter modificare il comportamento dei seguaci di un gruppo che predicava la fine del mondo. La leader della congregazione sosteneva che proprio il 21 dicembre 1954 ci sarebbe stata una catastrofe, un’alluvione, e riteneva di sentire i messaggi dai Guardiani del Pianeta “Clarion”. Gli alieni sarebbero venuti a salvare gli adepti con un’astronave. Trascorsa la data del presunto Armageddon, i membri più coinvolti nelle attività della setta reinterpretavano gli eventi nel tentativo di dimostrare la fondatezza delle loro assunzioni, invece di mettere in dubbio le proprie certezze. Gli adepti cominciarono proprio a fare proseliti e a diffondere il loro sistema di credenze per rafforzarlo ulteriormente, in una comunità chiusa e impermeabile all’esterno. Per ritrovare coerenza, la persona cerca di giustificare il proprio comportamento in modo retroattivo così da poter confermare un’immagine positiva di sé e continuare a definirsi una persona dotata di intelligenza e senso di responsabilità. Ecco alcuni esempi di giustificazioni: «Ci hanno dato un’altra possibilità», «Hanno salvato il mondo grazie a noi», «Gli alieni sono veramente venuti ma erano camuffati da persone normali», «Era solo una prova per metterci in guardia», «È tutto parte di un piano». A volte non è con l’evidenza dei fatti che si indeboliscono le credenze, perché i fatti necessitano di interpretazione e l’interpretazione è al servizio delle credenze, non della realtà.
Ma ritorniamo alla nostra domanda principale: perché ci piacciono i disastri?
Alcune persone si preoccupano in modo sproporzionato di disastri molto improbabili. Le nostre paure apocalittiche esprimono la nostra ansia collettiva riguardo a eventi che sono fuori dal controllo individuale e umano. Se negli anni sessanta o settanta era la paura della guerra nucleare, oggigiorno sono la paura del terrorismo, delle pandemie legate alla globalizzazione e dei cambiamenti climatici che ci portano a domandarci se la società moderna sia in grado di risolvere problematiche così complesse.
Abbiamo bisogno di ricercare un modello, una configurazione negli eventi intorno a noi, per scoprire delle tendenze nel mondo naturale. Cerchiamo di tessere una storia semplice a partire da un complesso insieme di dati. Secondo Jeudy (2010), la catastrofe è l’orizzonte delle nostre società, che tramite l’allarmismo tentano di evitare la realizzazione dei peggiori scenari. Dal diluvio universale ai terremoti, dagli incidenti nucleari allo tsunami, l’angoscia della catastrofe annunciata orienta le logiche della gestione del rischio e delle politiche pubbliche. Una paura collettiva che si trasforma in una fascinazione.
Ma una spiegazione ci convince particolarmente. In fin dei conti siamo affascinati dai disastri, dalle apocalissi globali e dalla fine della civilizzazione per un tratto tipicamente umano: il bisogno di sentirsi speciali. Ci piace credere che viviamo in tempi eccezionali, in momenti critici e cruciali della storia dell’umanità. Crediamo che la tecnologia ci abbia dato poteri sulla materia (dal genoma all’ambiente circostante) e ciò ha di fatto accentuato il nostro antropocentrismo e la nostra presunzione di essere al centro dell’universo. Con questa prospettiva riteniamo che il periodo che stiamo vivendo rappresenti una fase critica per il bene o il male dell’umanità.
- Browne, R.B., Neal, A.B. 2001. Ordinary reactions to extraordinary events. “Bowling Green State Popular Press”, Bowling Green.
- Festinger L., Riecken H., Schachter, S. 1956. When prophecies fails. “Harper-Torchbooks”, Harpercollins College Division. New York. Trad. It: Quando la profezia non si avvera. Bologna: Il Mulino.
- Lowe T. et al. 2006. Does tomorrow ever come? Disaster narrative and public perceptions of climate change. “Public Understanding of Science” (15) 4: pp. 435-457.
- Jeudy, H. 2010. Le desir de catastrophe. Paris: Circe.
- Miller E.D. 2012. Apocalypse now? The relevance of religion for beliefs about the end of the world. “Journal of Beliefs & Values: Studies in Religion & Education” (33)1: pp. 111-115.
- Pietrantoni, L., Prati, G. 2009. Psicologia dell’emergenza. Bologna: Il Mulino.
- Quarantelli, E.L. 1980. The study of disaster movies: research problems, findings, and implications. “University of Delaware Disaster Research Center”, Newark, DE.
- Stone, P., Sharpley, R. 2008. Consuming Dark Tourism: A Thanatological Perspective. “Annals of Tourism Research”, (35) 2: pp. 574–595.
Ciò che più temiamo nella realtà sembra essere quello che più ci piace guardare, sgranocchiando popcorn con degli sconosciuti in una sala buia. Il cinema catastrofico, un prolifico filone che ha preso il via col film di Feist del 1933 La distruzione del mondo (incentrato su un’eclisse solare che porterà a uno sconvolgimento delle maree e alla relativa distruzione della civiltà umana), ha avuto una crescente popolarità dagli anni Novanta grazie anche agli efficaci effetti visivi).
Secondo alcune teorie psicosociali, alla base c’è un processo di apprendimento vicario, cioè un processo che si sviluppa attraverso l’osservazione dei comportamenti altrui. Quando vediamo un film a tematica disastrosa abbiamo bisogno di capirne le dinamiche (chi ce la farà, chi non ce la farà?) e facciamo ipotesi sulle nostre risposte (forse mi comporterei come lui o lei se fossi in quella situazione). Guardando Titanic ci siamo forse chiesti come ci saremmo comportati se fossimo stati sul ponte della nave che affondava nella notte tra i ghiacci dell’oceano. Osservare eventi traumatici accaduti ad altri ci consente di acquisire informazioni rilevanti sulla sofferenza umana e forse consente ad alcune persone di prepararsi a eventi simili, come sopportare il dolore di una ferita o come fuggire in un’emergenza.
Una seconda componente che potrebbe essere presente è quella del “confronto sociale verso il basso”: una persona in salute, integra fisicamente, in un contesto sicuro può provare a livello più o meno consapevole un senso di sollievo, ottimismo e apprezzamento per non trovarsi a vivere una condizione di sofferenza e dolore. Alla base di questa fascinazione, un altro elemento rilevante è la ricerca di emozioni forti in un contesto sicuro e controllabile. Possiamo sperimentare uno stato di attivazione fatto di sensazioni corporee ed emozioni associate a una situazione di pericolo senza subirne le conseguenze fisiche. Alcune persone apprezzano il rush adrenalinico durante i momenti più acuti di un film a tematica disastrosa, ad esempio quando l’eroe sta per salvare il mondo dalla distruzione e mancano solo 10 secondi. Sappiamo infatti che alcuni hanno dei tratti di personalità più inclini alla cosiddetta ricerca di sensazioni intense, i cosiddetti “sensation seekers”. Dopo aver provato quelle sensazioni, gli spettatori escono dal cinema con un senso di ottimismo e speranza come se fossero veramente sopravvissuti a un evento nefasto. Acquisire familiarità con le esperienze di paura e di ansia ha il beneficio di aiutare le persone a riconoscere ed elaborare tali emozioni e sensazioni, in modo da non sentirsene sopraffatti.
Alcuni studiosi di cinema e marketing hanno fatto notare che l’eccessivo realismo non paga molto. È noto che i film basati sulla finzione vendono in genere più dei documentari sui disastri realmente accaduti, perché i fatti veri possono rievocare dei sentimenti collettivi di dolore associato a quegli eventi. Non a caso il film sul Titanic ha avuto più successo di quelli realizzati sull’11 settembre.
Ma questi film sono realistici? O al contrario alimentano convinzioni false sui disastri e sulle emergenze? Basandosi sulla visione diretta di una trentina di film che trattavano di disastri, lo studioso italo-americano Quarantelli ha sottolineato che tali pellicole non sono molto realistiche (1980): si concentrano sulla fase acuta di un disastro e vi è scarsa attenzione alla fase di post-impatto e alla ricostruzione; si focalizzano su singoli individui che cercano di affrontare l’evento-minaccia in modo solitario; l’evento disastroso è ricondotto a errori umani piuttosto che a processi sociali e raramente sono rappresentate le risorse presenti in una comunità per fronteggiare o rispondere a una calamità (contromisure, soccorsi, eccetera); descrivono il comportamento collettivo come irrazionale, centrato sul panico, mentre sappiamo dalle ricerche che è cooperativo e normativo. Insomma, vengono selezionati solo quegli elementi narrativi in grado di generare emozioni forti.
Nel 2008 l’eruzione di un vulcano islandese ha creato non pochi problemi al traffico aereo. Si è trattato di un fenomeno naturale atipico ma spettacolare, e nei giorni successivi le agenzie turistiche offrivano escursioni in jeep e in elicottero nei pressi dell’eruzione in un delicato gioco di gestione del rischio. Il turismo dei disastri rappresenta l’atto di viaggiare in una zona colpita da un disastro spinti dalla curiosità. Un fenomeno che nasce dalla curiosità umana di “toccare con mano” il luogo dove un evento è accaduto. Accade così che gli eventi che si verificano, e vengono ripresi dai media, rendono improvvisamente celebri alcune località, come ad esempio in occasione del naufragio della Costa Concordia (2011). In un contesto di globalizzazione e spettacolarizzazione, alcune agenzie turistiche offrono pacchetti specifici dal giro nelle zone alluvionate di New Orleans, alle zone terremotate o a Ground zero. In alcuni casi c’è un intento commemorativo e di mantenimento della memoria o un bisogno di accostarsi all’esperienza della finitezza umana attraverso esperienze accadute “ad altri, in altri tempi e luoghi”. In altri casi raccontare ad amici e familiari di essere stato in un luogo conosciuto per un evento disastroso può essere fonte di gratificazione o protagonismo, garantendo dei vantaggi sociali derivanti dal poter dire “io ci sono stato”.
Un esempio può essere ricavato dall’ultimo terremoto che si è verificato in Emilia dove persone costrette a dormire nelle tende venivano fotografate alla stregua dagli animali allo zoo.
È però possibile trovare anche nella nostra esperienza quotidiana un’attrazione per i disastri.
Sei in autostrada e mentre stai guidando ti accorgi di una corsia chiusa, segni di un tamponamento a catena, qualche veicolo di soccorso a lato. Alcune domande verranno spontanee: «Cosa è successo? Qualcuno si è ferito?» Magari cerchi qualcosa con lo sguardo tra l’auto della polizia e l’ambulanza, rallenti per osservare meglio la situazione e sei distratto dalla guida. Questo fenomeno studiato da psicologi e ingegneri del traffico è chiamato “rubberneck effect”. L’incidente in una direzione influenza il traffico in quella opposta. Il fenomeno è causa di congestione, riduzione della capacità e ritardo, rendendo lo scenario incidentale peggiore in entrambe le corsie. Certo, si tratta della curiosità di qualcuno che ha effetti amplificati, una curiosità dettata anche dalla salienza delle informazioni a forte connotazione emotiva, e dalla vividezza delle immagini negative. Siamo attratti dagli stimoli emotivi negativi, ne sanno qualcosa i giornali che ci propongono più storie di cronaca nera che non buone notizie relative ad azioni prosociali. Pensiamo che il progresso della scienza, con i suoi metodi e le sue scoperte, ci protegga da queste ossessioni apocalittiche, ma non è così, anzi il progresso contribuisce probabilmente a suscitare ulteriori preoccupazioni.
È interessante notare infatti che non solo alcuni gruppi di fanatici ma anche autorevoli scienziati hanno espresso opinioni apocalittiche. Bill Joy, cofondatore e scienziato di Sun Microsystems, mette in guardia sul fatto che, in futuro, nanorobot auto-replicanti fuori controllo potrebbero distruggere la terra. L’astronomo Martin Ree ha scommesso che una catastrofe biologica ucciderà almeno un milione di persone entro il 2020. A cavallo del XIX secolo l’economista britannico Malthus aveva previsto che l’aumento della popolazione avrebbe portato a carestie e catastrofi. Sulla stessa linea d’onda, alcuni esperti hanno analizzato le probabilità di alcuni scenari catastrofici. Su un duplice asse (impatto locale vs. globale, bassa vs. alta probabilità) sono stati raffigurati i possibili scenari catastrofici: l’impatto di un asteroide gigante sulla Terra ha una probabilità su un milione di verificarsi nei prossimi cento anni, una guerra nucleare ha una probabilità su trenta di verificarsi nei prossimi dieci anni, mentre una pandemia sembra essere più probabile. Ma le persone non calcolano il rischio in modo razionale.
Possiamo anche chiederci se qualcuno è più attratto degli altri dalle catastrofi. Ci sono infatti differenze individuali per cui alcuni soggetti possono essere più affascinati dalle catastrofi e dalle apocalissi per esperienze o caratteristiche personali. La persone più religiose tendono ad abbracciare cognizioni di stampo apocalittico (Miller, 2012). Alcune persone con diagnosi di malattie a esito infausto sono attratte dalle distruzioni collettive come modalità per fronteggiare l’ansia di morte, per ricordare a se stessi che la finitezza riguarda tutti gli esseri viventi. La fascinazione per la morte o la distruzione può essere uno dei sintomi di stress in adolescenti che hanno vissuto un’esperienza traumatica.
Come è successo dopo il Millenium Bug, il 22 dicembre 2012 la maggior parte di noi avrà preso un caffè e si sarà dedicata allo shopping natalizio. Ma immaginate di avere professato la fine del mondo, di aver lasciato la casa e il lavoro e speso tutti i soldi. Cosa succede nella mente delle persone e dei gruppi quando le profezie non si avverano? Lo psicologo sociale Leo Festinger e altri studiosi hanno analizzato in dettaglio come poter modificare il comportamento dei seguaci di un gruppo che predicava la fine del mondo. La leader della congregazione sosteneva che proprio il 21 dicembre 1954 ci sarebbe stata una catastrofe, un’alluvione, e riteneva di sentire i messaggi dai Guardiani del Pianeta “Clarion”. Gli alieni sarebbero venuti a salvare gli adepti con un’astronave. Trascorsa la data del presunto Armageddon, i membri più coinvolti nelle attività della setta reinterpretavano gli eventi nel tentativo di dimostrare la fondatezza delle loro assunzioni, invece di mettere in dubbio le proprie certezze. Gli adepti cominciarono proprio a fare proseliti e a diffondere il loro sistema di credenze per rafforzarlo ulteriormente, in una comunità chiusa e impermeabile all’esterno. Per ritrovare coerenza, la persona cerca di giustificare il proprio comportamento in modo retroattivo così da poter confermare un’immagine positiva di sé e continuare a definirsi una persona dotata di intelligenza e senso di responsabilità. Ecco alcuni esempi di giustificazioni: «Ci hanno dato un’altra possibilità», «Hanno salvato il mondo grazie a noi», «Gli alieni sono veramente venuti ma erano camuffati da persone normali», «Era solo una prova per metterci in guardia», «È tutto parte di un piano». A volte non è con l’evidenza dei fatti che si indeboliscono le credenze, perché i fatti necessitano di interpretazione e l’interpretazione è al servizio delle credenze, non della realtà.
Ma ritorniamo alla nostra domanda principale: perché ci piacciono i disastri?
Alcune persone si preoccupano in modo sproporzionato di disastri molto improbabili. Le nostre paure apocalittiche esprimono la nostra ansia collettiva riguardo a eventi che sono fuori dal controllo individuale e umano. Se negli anni sessanta o settanta era la paura della guerra nucleare, oggigiorno sono la paura del terrorismo, delle pandemie legate alla globalizzazione e dei cambiamenti climatici che ci portano a domandarci se la società moderna sia in grado di risolvere problematiche così complesse.
Abbiamo bisogno di ricercare un modello, una configurazione negli eventi intorno a noi, per scoprire delle tendenze nel mondo naturale. Cerchiamo di tessere una storia semplice a partire da un complesso insieme di dati. Secondo Jeudy (2010), la catastrofe è l’orizzonte delle nostre società, che tramite l’allarmismo tentano di evitare la realizzazione dei peggiori scenari. Dal diluvio universale ai terremoti, dagli incidenti nucleari allo tsunami, l’angoscia della catastrofe annunciata orienta le logiche della gestione del rischio e delle politiche pubbliche. Una paura collettiva che si trasforma in una fascinazione.
Ma una spiegazione ci convince particolarmente. In fin dei conti siamo affascinati dai disastri, dalle apocalissi globali e dalla fine della civilizzazione per un tratto tipicamente umano: il bisogno di sentirsi speciali. Ci piace credere che viviamo in tempi eccezionali, in momenti critici e cruciali della storia dell’umanità. Crediamo che la tecnologia ci abbia dato poteri sulla materia (dal genoma all’ambiente circostante) e ciò ha di fatto accentuato il nostro antropocentrismo e la nostra presunzione di essere al centro dell’universo. Con questa prospettiva riteniamo che il periodo che stiamo vivendo rappresenti una fase critica per il bene o il male dell’umanità.
Bibliografia
- Browne, R.B., Neal, A.B. 2001. Ordinary reactions to extraordinary events. “Bowling Green State Popular Press”, Bowling Green.
- Festinger L., Riecken H., Schachter, S. 1956. When prophecies fails. “Harper-Torchbooks”, Harpercollins College Division. New York. Trad. It: Quando la profezia non si avvera. Bologna: Il Mulino.
- Lowe T. et al. 2006. Does tomorrow ever come? Disaster narrative and public perceptions of climate change. “Public Understanding of Science” (15) 4: pp. 435-457.
- Jeudy, H. 2010. Le desir de catastrophe. Paris: Circe.
- Miller E.D. 2012. Apocalypse now? The relevance of religion for beliefs about the end of the world. “Journal of Beliefs & Values: Studies in Religion & Education” (33)1: pp. 111-115.
- Pietrantoni, L., Prati, G. 2009. Psicologia dell’emergenza. Bologna: Il Mulino.
- Quarantelli, E.L. 1980. The study of disaster movies: research problems, findings, and implications. “University of Delaware Disaster Research Center”, Newark, DE.
- Stone, P., Sharpley, R. 2008. Consuming Dark Tourism: A Thanatological Perspective. “Annals of Tourism Research”, (35) 2: pp. 574–595.