Gli autori di uno studio pubblicato nell’agosto 2010 sostengono di aver trovato prove evidenti del fatto che, se glielo si chiede in maniera esplicita, Dio potrebbe guarire chi è affetto da disturbi dell’udito e della vista.
Candy Gunther Brown, professore al Dipartimento di Studi Religiosi dell’Indiana University di Bloomington, ha studiato la “preghiera prossimale intercessoria”. Lo studio, pubblicato nel Southern Medical Journal di settembre e intitolato “Study of the Therapeutic Effects of Proximal Intercessory Prayer (STEPP) on Auditory and Visual Impairments in Rural Mozambique” (“Studio degli effetti terapeutici della preghiera prossimale intercessoria sulle menomazioni uditive e visive nel Mozambico rurale”), ha misurato i miglioramenti nella vista e nell’udito in un’area rurale di questo Paese sudafricano.
La squadra di ricercatori ha utilizzato un audiometro e dei diagrammi ottici per valutare 14 pazienti che riferivano problemi all’udito e 11 che riferivano problemi alla vista, in entrambi i casi prima e dopo che alcuni membri della chiesa locale avevano pregato per la loro guarigione. In seguito alle preghiere i soggetti riportavano un piccolo ma significativo miglioramento nella vista e nell’udito.
Ad un primo esame lo studio sembra interessante, ma analizzandolo da vicino si notano alcuni seri limiti. Innanzi tutto, il campione è troppo piccolo; con soli 24 partecipanti è molto difficile rapportare i risultati ad una popolazione più ampia. Inoltre, le misurazioni studiate da Brown e colleghi erano soggettive, e non rilevate con strumenti obiettivi. Infatti, gli autori ammettono che “le menomazioni uditive e visive... possono essere influenzate da fattori psicosomatici”.
Uno studio in doppio cieco (e cioè un esame in cui né i ricercatori né i pazienti sanno per chi si è pregato) sarebbe stato molto più affidabile. Avrebbe aiutato a controllare il ben noto effetto placebo; è infatti probabile che coloro che ricevono attenzioni speciali e personali da parte di gruppi di preghiera e ricercatori possano sinceramente credere di vedere o sentire meglio, quanto meno in forma temporanea -in modo molto simile a quanto accade a chi, assumendo una pillola placebo pensando si tratti di un antidolorifico, ha l’impressione di avvertire meno dolore.
Inoltre, lo studio non ha effettuato controlli su quanto i pazienti credevano in precedenza. Secondo lo studio, “i soggetti sono stati reclutati alle riunioni dei Protestanti Carismatici... ampiamente noti tra tutti i pentecostali come gli ‘specialisti’ della preghiera in favore di quanti sono affetti da menomazioni uditive e visive”. Ciò significa che tutti i soggetti utilizzati nello studio non solo credevano fermamente nel potere della preghiera, ma erano anche convinti che essa fosse utile nel trattamento dei problemi dell’occhio e dell’orecchio.
I soggetti potrebbero essere stati facilmente influenzati dalle loro aspettative circa lo scopo dello studio, un fenomeno ben noto nella ricerca psicologica: i pazienti cioè dicono ai ricercatori (e a quelli che hanno pregato) quel che credono vogliano sentirsi dire. Sarebbe interessante (e importante) sapere se sia possibile migliorare le affezioni accusate da atei, agnostici e altri che non credono a priori nel potere della preghiera.
Vale la pena sottolineare che studi organizzati con metodi molto migliori hanno dimostrato che la preghiera non è efficace. Nel 2006, ricercatori appartenenti ai sei principali centri medici statunitensi, ivi inclusi Harvard e la Mayo Clinic, portarono a termine uno studio sulla preghiera che è, ad oggi, il più esauriente e vasto mai realizzato. La ricerca — “Study of the Therapeutic Effects of intercessory Prayer 'STEP' in cardiac bypass patients” (“Studio degli effetti terapeutici della preghiera intercessoria in pazienti cardiaci con bypass”) pubblicata dall’American Heart Journal — fu guidata dal Dr. Herbert Benson ed ebbe una durata di oltre un decennio. Vi furono inclusi 2.000 pazienti che avevano subito interventi di cardiochirurgia, i quali furono affidati a gruppi di preghiera differenti in maniera casuale. Le preghiere non ebbero alcun effetto benefico sul tempo di recupero, il tasso di mortalità o qualunque altro fattore.
La dottoressa Brown e i suoi colleghi non si sono occupati né del meccanismo con cui la preghiera era presumibilmente efficace (e, cioè, in che modo agiva la preghiera esattamente), né del perché un Dio benevolente dovrebbe intervenire per aiutare soltanto coloro per i quali l’aiuto viene richiesto in maniera specifica.
Traduzione di Fara Di Maio
Articolo pubblicato su Skeptical Inquirer vol 34, n. 6. Si ringrazia l’editore per aver concesso il diritto di riproduzione.
Candy Gunther Brown, professore al Dipartimento di Studi Religiosi dell’Indiana University di Bloomington, ha studiato la “preghiera prossimale intercessoria”. Lo studio, pubblicato nel Southern Medical Journal di settembre e intitolato “Study of the Therapeutic Effects of Proximal Intercessory Prayer (STEPP) on Auditory and Visual Impairments in Rural Mozambique” (“Studio degli effetti terapeutici della preghiera prossimale intercessoria sulle menomazioni uditive e visive nel Mozambico rurale”), ha misurato i miglioramenti nella vista e nell’udito in un’area rurale di questo Paese sudafricano.
La squadra di ricercatori ha utilizzato un audiometro e dei diagrammi ottici per valutare 14 pazienti che riferivano problemi all’udito e 11 che riferivano problemi alla vista, in entrambi i casi prima e dopo che alcuni membri della chiesa locale avevano pregato per la loro guarigione. In seguito alle preghiere i soggetti riportavano un piccolo ma significativo miglioramento nella vista e nell’udito.
Ad un primo esame lo studio sembra interessante, ma analizzandolo da vicino si notano alcuni seri limiti. Innanzi tutto, il campione è troppo piccolo; con soli 24 partecipanti è molto difficile rapportare i risultati ad una popolazione più ampia. Inoltre, le misurazioni studiate da Brown e colleghi erano soggettive, e non rilevate con strumenti obiettivi. Infatti, gli autori ammettono che “le menomazioni uditive e visive... possono essere influenzate da fattori psicosomatici”.
Uno studio in doppio cieco (e cioè un esame in cui né i ricercatori né i pazienti sanno per chi si è pregato) sarebbe stato molto più affidabile. Avrebbe aiutato a controllare il ben noto effetto placebo; è infatti probabile che coloro che ricevono attenzioni speciali e personali da parte di gruppi di preghiera e ricercatori possano sinceramente credere di vedere o sentire meglio, quanto meno in forma temporanea -in modo molto simile a quanto accade a chi, assumendo una pillola placebo pensando si tratti di un antidolorifico, ha l’impressione di avvertire meno dolore.
Inoltre, lo studio non ha effettuato controlli su quanto i pazienti credevano in precedenza. Secondo lo studio, “i soggetti sono stati reclutati alle riunioni dei Protestanti Carismatici... ampiamente noti tra tutti i pentecostali come gli ‘specialisti’ della preghiera in favore di quanti sono affetti da menomazioni uditive e visive”. Ciò significa che tutti i soggetti utilizzati nello studio non solo credevano fermamente nel potere della preghiera, ma erano anche convinti che essa fosse utile nel trattamento dei problemi dell’occhio e dell’orecchio.
I soggetti potrebbero essere stati facilmente influenzati dalle loro aspettative circa lo scopo dello studio, un fenomeno ben noto nella ricerca psicologica: i pazienti cioè dicono ai ricercatori (e a quelli che hanno pregato) quel che credono vogliano sentirsi dire. Sarebbe interessante (e importante) sapere se sia possibile migliorare le affezioni accusate da atei, agnostici e altri che non credono a priori nel potere della preghiera.
Vale la pena sottolineare che studi organizzati con metodi molto migliori hanno dimostrato che la preghiera non è efficace. Nel 2006, ricercatori appartenenti ai sei principali centri medici statunitensi, ivi inclusi Harvard e la Mayo Clinic, portarono a termine uno studio sulla preghiera che è, ad oggi, il più esauriente e vasto mai realizzato. La ricerca — “Study of the Therapeutic Effects of intercessory Prayer 'STEP' in cardiac bypass patients” (“Studio degli effetti terapeutici della preghiera intercessoria in pazienti cardiaci con bypass”) pubblicata dall’American Heart Journal — fu guidata dal Dr. Herbert Benson ed ebbe una durata di oltre un decennio. Vi furono inclusi 2.000 pazienti che avevano subito interventi di cardiochirurgia, i quali furono affidati a gruppi di preghiera differenti in maniera casuale. Le preghiere non ebbero alcun effetto benefico sul tempo di recupero, il tasso di mortalità o qualunque altro fattore.
La dottoressa Brown e i suoi colleghi non si sono occupati né del meccanismo con cui la preghiera era presumibilmente efficace (e, cioè, in che modo agiva la preghiera esattamente), né del perché un Dio benevolente dovrebbe intervenire per aiutare soltanto coloro per i quali l’aiuto viene richiesto in maniera specifica.
Traduzione di Fara Di Maio
Articolo pubblicato su Skeptical Inquirer vol 34, n. 6. Si ringrazia l’editore per aver concesso il diritto di riproduzione.