Atlantide
di Erika Notti
Arcipelago, 2009
pp. 344, € 20.00
Recensione di Andrea Albini L'idea che Atlantide sia stata un'isola reale, ma ora nascosta nel tempo e nello spazio, continua a resistere anche in un'epoca dove il mondo è sempre più esplorato. Per gli antichi crederci sarebbe stato più facile: i confini dell'incognito erano molto vicini e, da un giorno all'altro, all'orizzonte di una città costiera potevano apparire vele sconosciute e minacciose.
Nell'Atene descritta da Platone nel Timeo e nel Crizia, il racconto di Atlantide rappresenta la materializzazione improvvisa di questo nemico reale, ossia qualcosa di plausibile per la sua epoca, anche se spostato nella narrazione talmente indietro nel tempo da sfuggire alla verifica storica dei contemporanei. Platone creò in questo modo un mito realistico che attirava l'attenzione ed offriva il pretesto per una serie di riflessioni politiche e filosofiche sulla città ideale, riprendendo concetti che aveva esposto teoricamente nella Repubblica, e che ora materializzava in una narrazione per renderli più efficaci. Possiamo dire che ebbe successo se consideriamo che fece presto proseliti a favore dell'autenticità del racconto atlantideo, anche se le voci critiche non mancarono. Successivamente, con il cristianesimo, l'idea di Atlantide cercò di aderire all'interpretazione delle scritture bibliche, mentre la sua collocazione geografica migrò qua e là per il mondo e si adattò alle nuove terre e civiltà che emergevano dalle scoperte geografiche. Ancora nell'Ottocento era in corso l'esplorazione di vaste aree di territorio e l'annuncio di una civiltà atlantidea, individuata nel cuore dell'Africa, faceva notizia sulla stampa internazionale. Oggi supposizioni di questo tipo diventano sempre più ardue, se pensiamo che persino la conformazione e la mappatura del fondo oceanico sembrano dare una risposta negativa all'ipotesi che una vasta civiltà come quella descritta da Platone possa essersi inabissata. Restano zone veramente inesplorate come le terre sottostanti ai ghiacci antartici e non stupisce che una simile ipotesi – per ora inverificabile – sia emersa.
L'interesse prevalente verso la famosa isola sprofondata sotto i mari è quello che vede in essa la "materializzazione" di un mondo esotico e sconosciuto. «Atlantide è esistita? E dove?» è la domanda accattivante che ci sentiamo rivolgere e a cui cediamo con piacere e con il brivido di partecipare, sia pure sulla carta, ad un'avventura. E di avventura si tratta, ma dell'intelletto e dell'immaginazione più che storico-geografica. Perché Platone, autore prolisso e a volte contraddittorio, era un filosofo che concepiva i miti, di cui disseminò i suoi dialoghi, come il veicolo di un messaggio, piuttosto che come qualcosa da prendere semplicemente alla lettera.
La sterminata quantità di libri, articoli e documenti internet che parlano di Atlantide è impressionante. Molti trattano l'argomento in relazione agli studi classici, filosofici e letterari ma sono anche ben rappresentati quei libri che si presentano sotto forma di saggi divulgativi che vanno dal moderatamente pseudoscientifico al decisamente stravagante, dal fantascientifico all'esoterico-alternativo.
Niente di tutto questo ha a che fare con il volume di Erika Notti, che appartiene invece a quella relativamente rara categoria di opere che tentano la strada di un onesto approccio scientifico e multidisciplinare alla "questione di Atlantide", assumendo che il racconto platonico possa essere, se non veritiero, perlomeno ispirato ad eventi reali; in particolare a una reminiscenza della scomparsa della civiltà minoica e all'eruzione dell'isola di Santorini, ipotesi avanzata, nel corso del Novecento, da studiosi come K. T. Frost e Spyridon Marinatos, e sui cui sviluppi più recenti l'autrice ci aggiorna. Contrariamente a Schliemann, che trovò la sua Troia esattamente dove la cercava, le indicazioni geografico-temporali della narrazione di Atlantide devono essere modificate o interpretate per accordarsi con le conoscenze scientifiche attuali. Ad esempio, la Grecia era in piena età della pietra novemila anni prima di Solone, mentre la civiltà descritta da Platone sembra appartenere alla civiltà del bronzo. Inoltre, per far quadrare i conti con l'ipotesi minoica, l'isola scomparsa non doveva trovarsi nell'Oceano Atlantico, di fronte allo stretto di Gibilterra, ma ben all'interno del Mediterraneo. Siamo sicuri che un autore vivace e fantasioso come Platone ci perdonerebbe simili licenze, anche se si rattristerebbe a vedere come, a distanza di ventitré secoli, trascuriamo il discorso edificante sulle virtù dell'antica (e mitica) Atene di cui il racconto di Atlantide avrebbe dovuto essere l'espediente letterario. Ma sono passati ventitré secoli, e come resistere all'immagine romantica di un mistero sepolto nel tempo e nello spazio; al volto, allo stesso tempo barbarico e attraente, dell'incognito che sta al di là dei confini familiari?
L’abbazia di Northanger
di Jane Austen
Garzanti, 2007
pp. 212, € 8.00
Recensione di Anna Rita Longo Tra i romanzi di Jane Austen, L’abbazia di Northanger è forse il meno conosciuto e, da chi si aspetta dall’autrice solo opere che rientrino nel più schietto filone romantico, anche il meno apprezzato. Perché la grande romanziera del periodo della Reggenza inglese è una vittima della propria stessa fama, come pure della notorietà dei suoi personaggi. Il Mr Darcy che tanti cuori femminili ha sedotto qui non trova alcun corrispettivo e l’Elizabeth Bennet che ha rappresentato l’ideale femminile di generazioni di lettori non ha che un pallido contraltare nella Catherine Morland che è la protagonista della vicenda narrata. Ma il bello dei libri della Austen è che consentono una lettura a più livelli e offrono al lettore che sia disposto ad andare oltre al significato meramente epidermico tutta una serie di inviti alla riflessione e di "provocazioni" di varia natura. Si è parlato molto dell’ironia austeniana, banalizzando spesso il significato di questa parola: da molti questa è stata ridotta all’approccio lieve dell’autrice nei riguardi dei temi di cui si occupa, al gusto per la macchietta ravvisabile in alcuni dei personaggi, alla battuta sapida ma garbata. Ma l’ironia austeniana è molto più di questo: è una forza che erode gli schemi, i luoghi comuni, gli stereotipi di un genere letterario dal suo interno; è indurre a credere di inserirsi in un filone per poi ribaltarne gli esiti, strappando di certo un sorriso, ma un sorriso davvero intelligente. E così come Orgoglio e pregiudizio è molto di più che i romanzi d’amore suoi coevi, L’abbazia di Northanger, contro ogni apparenza, si discosta tantissimo dal gothic novel contemporaneo e si configura non solo come una lettura interessante, ma anche come un mezzo per rafforzare il senso critico del lettore moderno.
Come dicevamo, le fanciulle inglesi dell’epoca della Austen avevano subito la fascinazione del romanzo gotico, caratterizzato da un’ambientazione oscura e misteriosa e da una serie di stereotipi che oggi sembrano nuovamente tornati nelle grazie del pubblico: eroi tenebrosi e dannati, luoghi gravidi di segreti delitti, macabri rituali, ravvicinato contatto tra mondo reale e ultraterreno. In particolar modo, presso le giovani, godevano di grande successo i romanzi di Ann Radcliffe, che, visti con gli occhi di oggi, rivelano non poche ingenuità compositive, ma che allora erano in grado di tenere con il fiato sospeso un’intera generazione di giovinette, che sognavano di vivere le travolgenti avventure narrate, tra le braccia dei bei tenebrosi eroi, spesso italiani (era l’epoca nella quale l’Italia appariva la terra romantica per eccellenza) che la signora inglese dipingeva a tinte forti. Come tutte le giovinette del suo tempo, anche Jane Austen si era nutrita di queste letture e ne aveva tratto tutto il diletto che queste potevano offrirle, ma non se ne era lasciata abbindolare. Catherine Morland, la protagonista dell’Abbazia di Northanger, non è dotata di un senso critico pari al suo: vivesse oggi sarebbe appassionata spettatrice di Voyager o Mistero. L’effetto che i romanzi gotici hanno prodotto nella sua mente ignara del rasoio di Ockham è un’acritica propensione alla credulità, che si esplica nella facilità ad individuare in tutto ciò che la circonda reconditi significati, che fanno spiccare alla sua fantasia veri e propri voli pindarici. Ed è qui che la geniale ironia austeniana entra in gioco: calandosi nei panni di Catherine, l’autrice ripercorre tutti i luoghi comuni della narrativa gotica e ne mette in luce il ridicolo proprio con un finto adeguamento ai loro canoni. L’effetto comico è, così, amplificato proprio dalla parodica ricerca della suspense, dello straniamento, del coupe de théâtre. La dolce Catherine riceve l’invito a trascorrere un breve soggiorno presso l’abbazia che dà il titolo al romanzo, residenza di Mr Tilney e della sua famiglia. Un’abbazia è proprio quanto più si addica alla sfrenata fantasia della giovinetta, così ben fomentata dalle letture di cui si è detto e che attirano l’ironia di Mr Tilney. Un’avita dimora, nella mente di Catherine, non può esser priva dei naturali corollari di cui ha tanto sentito parlare da Mrs Radcliffe: maledizioni, fantasmi, oscuri delitti e fiumi di sangue versato nell’ombra. Rumori, ombre, antiche cassapanche e lunghe scalinate non possono essere particolari privi di significato: a lei non la si fa, perché è da tempo stata resa "scaltra" dalla sua autrice preferita. Da subito i suoi sospetti si orientano verso il padre di Mr Tilney, che sembra aver qualcosa da nascondere e le sue indagini le richiederanno il cuore intrepido tipico delle eroine del genere gotico, svenimento più svenimento meno. Vi sono momenti nei quali il lettore meno avvezzo alle trovate austeniane può avere il sospetto che qualcosa nella situazione non quadri davvero, che il mistero sia reale e che le paure di Catherine non siano solo frutto della sua fantasia. È proprio in questo che consiste la genialità austeniana: prima di agire da debunker sceglie di far calare il lettore nei panni di Catherine, di indurlo, per qualche momento, a pensare come lei, per poi sferrare un definitivo attacco all’irrazionalità della fanciulla. Ma anche, si spera, a quella del lettore.
Troppo facile sostenere l’inverosimiglianza del personaggio di Catherine e snobbarne la credulità: basterebbe solo fermarsi a pensare a quanti tra i nostri contemporanei manifestano una fede incrollabile in teorie non certo più fondate di quelle di Miss Morland. Basta questo a rendere L’abbazia di Northanger una lettura formativa per tutti, un libro che insegna qualcosa e lo fa con il sorriso.
La fisica in casa
di Emiliano Ricci
Giunti, 2009
pp. 218, € 12.00
Recensione di Luca Menichelli Noi non ce ne accorgiamo, ma la nostra casa è il più grande laboratorio di fisica che sia mai stato realizzato, un laboratorio sempre disponibile e offerto alla nostra attenzione di improvvisati scienziati intenti a scoprirne le meraviglie nascoste.
Ogni congegno o elettrodomestico, ogni azione che compiamo quotidianamente, dal lavarci le mani al preparare un caffè fumante, nasconde una miriade di leggi fisiche che spaziano verso ogni campo: dalla meccanica classica alla geofisica, dall'idro-termodinamica all'elettromagnetismo.
Nel libro La Fisica in casa, il fisico Emiliano Ricci riesce a descrivere le piccole meraviglie che si celano dietro ai nostri gesti quotidiani, mostrando come anche la più semplice delle azioni derivi dal sommarsi delle più disparate leggi della fisica.
La narrazione si articola come un viaggio attraverso le stanze della casa, luoghi a noi noti negli aspetti macroscopici, trasformando ogni gesto o oggetto in un esperimento di fisica.
Perché lo schiaccianoci riesce a rompere facilmente il guscio di una mandorla?
Tramite questo esempio Emiliano Ricci spiega approfonditamente il funzionamento di una leva e il perché senza di esse il progresso tecnologico non ci sarebbe stato.
Perché il forno a microonde è idoneo alla cottura di qualsiasi cibo, ma inadatto a preparare un uovo sodo? In questo caso l'elettromagnetismo è la ragione principale e l'autore conduce il lettore dentro il mondo delle microonde sviluppando un divertente discorso sulla storia della loro fortuita scoperta e sulle applicazioni nella cucina, sfatando alcuni miti.
È vero che nel nostro emisfero il vortice che si genera negli scarichi dei lavelli gira sempre in senso orario? Tramite queste considerazioni il libro affronta i temi della gravità, dell'effetto Coriolis, della forza centrifuga e centripeta e altre nozioni di fisica che influenzano il comportamento e l'esistenza dell'universo.
E altro ancora.
Il miele viene preso come modello per spiegare la viscosità, le bolle di sapone per le forze tensioattive, la caffettiera diviene un complesso esperimento in cui pressione, compressione dei gas e vasi comunicanti si uniscono per consentirci di bere una deliziosa bevanda calda.
Il linguaggio è molto semplice e accessibile anche a chi non ha alcuna nozione di fisica.
La lettura del libro è un’esperienza avvincente che non ha certamente la pretesa di trasformare il lettore in un provetto fisico, ma che riesce a stuzzicare la curiosità di chi non si limita a vivere la quotidianità , ma vuole comprenderla.
Dopo la lettura, farsi una doccia darà nuove emozioni e prendere un caffè avrà un altro sapore.
L’ospite
di Stephenie Meyer
Rizzoli, 2008
pp. 574, € 18.00
Recensione di Viviana Ambrosi Fatti da parte Bella Swan, perché con Viandante la penna di Stephenie Meyer ha dato vita ad un’eroina molto più accattivante di te.
L’autrice della celebre saga Twilight ha deciso di mettere da parte le storie di vampiri e di cimentarsi con la fantascienza. Ma dimenticatevi spade laser, navi spaziali, battaglie e buchi neri, perché nel libro L’ospite ogni cliché a cui ci avevano abituato Asimov e simili viene accantonato in favore di una fantascienza dai toni più umani, dove si prediligono l’introspezione e la riflessione.
La trama è semplice e la scrittura immediata, nel classico stile dell’autrice. Il pianeta Terra è stato silenziosamente invaso da entità aliene piccole e scintillanti chiamate "anime". Si inseriscono nel cervello di un umano e ne assorbono i ricordi, annullandone la personalità e sostituendola con la propria. I pochi umani sopravvissuti vivono da fuggitivi lottando per la sopravvivenza delle loro coscienze. Ma non pensate agli alieni come creature maligne, perché al contrario sono esseri buoni, che si spostano da un pianeta all’altro rendendoli posti migliori, convinti di fare del bene. Non è un caso se il termine "anima" in questo libro viene usato solo per riferirsi agli alieni, che non vengono mai chiamati "parassiti".
Viandante è un’anima che viene impiantata nel corpo di una donna di nome Melanie. Il suo corpo non dovrebbe essere altro che un guscio vuoto, un involucro per l’aliena che le è stata assegnata, ma da subito Viandante si accorge che Melanie è ancora viva dentro di lei. Così decide di andare dal Guaritore, l’unico che potrebbe trovare una soluzione alla presenza di Melanie nel suo nuovo corpo. Ma durante il viaggio Melanie inonda la mente di Viandante di ricordi e la spinge, contro ogni istinto e regola della sua specie, ad andare a cercare l’uomo che la ragazza umana amava e continua ad amare.
Nel corso della storia le due menti parlano, discutono, litigano e iniziano a porsi domande sull’effettivo significato della conquista della Terra. Ma cosa significa essere umani? Sono i nostri corpi a renderci umani o è l’anima che possediamo a renderci tali? Su questo interrogativo, vissuto attraverso Viandante che guarda all’umanità con i suoi occhi alieni, si fonda il romanzo.
Si tratta di una lettura piacevole e interessante e che mi sento, nel complesso, di consigliare; l’approccio critico del lettore abituato a distinguere la letteratura d’evasione dalla realtà (cosa che talvolta manca ad alcuni giovanissimi lettori della Meyer) farà il resto.
Fraudologia. Teoria e tecniche della truffa
di Matteo Rampin e Ruben Caris
Scuola di Palo Alto, 2010
pp. 436, € 22.00
Recensione di Silvano Fuso Alzi la mano chi, in vita sua, non ha mai preso qualche fregatura!
Si tratti di una piccola burla di cui siamo stati vittime e che ci ha fatto sorridere o di un vero e proprio inganno che ci ha procurato seri danni, penso che nessuno di noi sia immune da imbrogli e raggiri. Fa parte della natura umana essere ingannati e, naturalmente, ingannare.
A questo intrigante argomento è dedicata l’ultima fatica editoriale di Matteo Rampin, medico psichiatra e psicoterapeuta, ex ufficiale dell’esercito, nonché cultore di illusionismo e di psicologia dell’inganno, e di Ruben Caris, ex penetration tester, fraud analist di un importante gruppo bancario europeo e anch’egli illusionista ed esperto di psicologia cognitiva applicata al crimine e all’inganno.
Sul retro di copertina di questo ponderoso volume compare una citazione di Friedrich Nietzsche che sintetizza bene il contenuto e lo spirito del libro: «Qual è la differenza tra un convinto e un ingannato? Nessuna, se è stato ben ingannato.»
Proprio così: chi viene ben ingannato, ovviamente, non si accorge affatto di esserlo ed è assolutamente convinto di aver fatto una scelta del tutto consapevole e in piena libertà.
Il campionario delle truffe prese in considerazione da Fraudologia è vastissimo: giochi di destrezza manuale, cessione volontaria di denaro (con o senza ipnosi), catene di Sant’Antonio, fino alle innumerevoli opportunità truffaldine offerte dalle nuove tecnologie informatiche e da Internet soprattutto.
Il libro è diviso in due parti. La prima, scritta da Rampin, comprende cinque capitoli intitolati rispettivamente: 1) La truffa; 2) Psicologia dell’influenzamento; 3) Aspetti di psicologia della truffa; 4) Analisi; 5) Le truffe del paranormale.
La seconda parte, scritta da Caris, è costituita da altri cinque capitoli: 1) Le truffe all’epoca di Internet; 2) Cenni di teoria; 3) L’evoluzione della truffa da ieri a oggi; 4) Le truffe moderne; 5) La piaga del futuro: il furto di identità.
Le due parti sono corredate ciascuna da un’utile bibliografia e il volume termina con due appendici. La prima esamina celebri truffe tratte dalla letteratura e dal cinema. La seconda presenta invece organismi, enti e associazioni che si occupano direttamente o indirettamente di truffe e inganni, tra le quali non manca naturalmente il CICAP.
La lettura del libro è divertente, avvincente, ma al tempo stesso un po’ inquietante. Pagina dopo pagina ci si rende infatti conto di quanto siamo vulnerabili (tutti, nessuno escluso!) e di quanti individui senza scrupolo sappiano abilmente sfruttare a loro vantaggio tutte le debolezze della mente umana.
Una lettura utilissima a tutti quindi e, naturalmente, indispensabile per coloro che, come gli scettici e i “cicappini”, sono particolarmente interessati a smascherare bufale e false credenze. Con un’avvertenza fondamentale: lo scetticismo non deve mai condurre a un atteggiamento di rifiuto pregiudiziale di tutte le affermazioni. Il libro, conscio di questo rischio, si conclude infatti con la narrazione di un curioso episodio (proposta di donazione di un ingente patrimonio da parte di una misteriosa dama a sette studenti triestini particolarmente meritevoli, a patto che si accollassero le spese necessarie) che, a prima vista, sembrava avere tutte le caratteristiche per essere un’ennesima fregatura, ma che invece risultò essere assolutamente vero! Significative le parole con le quali il volume si conclude: «Questo curioso episodio conferma una realtà ben nota agli studiosi dell’inganno: in questo campo non si è mai sufficientemente esperti, si è sempre vulnerabili e si può correre il rischio persino di essere ingannati dalla propria conoscenza dei fenomeni dell’inganno. Il che conferma la necessità di continuare a studiare.»
Parole sacrosante che dovrebbero essere meditate da tutti ma soprattutto dai tanti “complottisti” che, in nome di un esasperato senso critico nei confronti delle “verità ufficiali”, dimenticano però di esercitarlo nei confronti delle tante “verità alternative” messe in circolazione da individui poco propensi a valutare obiettivamente i fatti, unici giudici attendibili di qualsiasi affermazione.