Dalla Luna alla Terra
Marta Erba, Gianluca Ranzini, Daniele Venturoli
Bollati Boringheri, 2010
218 pp. € 18,00
Recensione di Andrea Albini
“Che fai tu, luna, in ciel?” scriveva Leopardi, rivolgendosi al nostro satellite come a un muto e indifferente testimone dei destini umani. «Molte cose», verrebbe da rispondere leggendo questo agile e informato volume divulgativo, che parla appunto delle influenze - spesso mitiche e fantasiose ma anche, in certi casi, scientificamente fondate - che la Luna ha sul nostro pianeta e in particolare sulla vita vegetale e animale che vi si è evoluta, inclusa ovviamente quella umana.
Preceduto da una prefazione di Piero Bianucci, il libro inizia parlando della Luna dal punto di vista dei miti e della simbologia, da quello astronomico e da come sia stata usata, insieme al Sole, per indicare il passaggio del tempo e definire i calendari. Una sezione è dedicata a illustrare come la vita terrestre abbia sviluppato una serie di orologi biologici, sincronizzati su fattori ambientali - come luminosità e temperatura - ma anche astronomici, come l’alternarsi di giorni e notti, oppure le stagioni e i flussi delle maree che, come è noto, dipendono dall’attrazione gravitazionale del nostro satellite. La restante parte del volume è dedicata ad una rassegna delle credenze e della letteratura scientifica - spesso aggiornatissima anche se altrettanto spesso contraddittoria - sulle relazioni osservabili tra Luna e regno animale, vegetale e sulla specie umana.
Anche nei casi in cui un effetto è stato effettivamente dimostrato, non siamo di fronte ad occulti influssi lunari come si credeva anticamente (o come ancora crede qualche astrologo), ma ad effetti indiretti innescati, ad esempio, dall’azione mareale o dalla luce lunare notturna. Ecco allora che la biomassa dello zooplancton aumenta significativamente attorno alla Luna piena, e il verme palolo si riproduce solo nell’ultimo quarto della medesima (p. 129). È altrettanto plausibile che le condizioni di visibilità dovute alla luna possano condizionare i comportamenti degli animali notturni; ma, per quanto riguarda l’aggressività di questi verso l’uomo, un paio di studi danno risultati discordanti. Non stentiamo a credere che le notti serene, in cui la Luna è visibile, possano favorire la formazione di rugiada ed influire sulla formazione dei raccolti, ma quando cominciamo a parlare di influenze lunari sulle precipitazioni, sulla crescita dei vegetali, sul momento della semina, dei raccolti o dell’imbottigliamento del vino, allora la mancanza di solidi dati scientifici comincia a farsi sentire. Trattandosi di effetti che, se esistono, sono molto ridotti, nello studio delle influenze delle periodicità lunari sulla biologia bisogna evitare che si stabiliscano le correlazioni sbagliate, usare un adeguato trattamento statistico dei dati e, soprattutto, ottenere risultati riproducibili anche da altri ricercatori. Talvolta, poi, comportamenti che sembrano dovuti ad un’influenza mediata dalla Luna, possono in realtà essere complessi giochi di «orologi biologici interni» che si sono evoluti nel corso dei millenni (p. 152).
Ma è nello studio delle possibili influenze lunari sugli uomini che la materia diventa più controversa, anche perché, avvertono gli autori, «a dispetto del metodo galileiano si sono formate schiere di credenti e di scettici». Se uno studio sembra indicare che la luce lunare (o un orologio biologico tarato su questo ciclo) possa produrre un aumento rivelabile della melatonina (un ormone messo in relazione con l’insorgere della depressione), i dati scientifici mancano, sono contraddittori o risultano negativi per quanto riguarda le correlazioni tra le fasi lunari e l’epilessia, l’aumento dei suicidi, la crescita dell’aggressività umana e le alterazioni del carattere; così come la determinazione del sesso del nascituro, l’aumento della fertilità e quello delle nascite. Una metanalisi statistica su 37 studi su Luna e comportamento umano, condotta nel 1985, ha piuttosto evidenziato che non esiste nessuna correlazione, e che i risultati positivi si annullano quando sommati a quelli di altri studi del tutto simili.
Nonostante questi dati sconfortanti, avvertono gli autori, ogni anno compaiono studi sulle correlazioni tra Luna e medicina anche su riviste autorevoli. Come spiegare questo fatto in apparenza sconcertante? La ragione, a parere di chi scrive questa recensione, è dovuta, oltre all’ininterrotta tradizione dei lunari «popolari», alla lunga consuetudine che la medicina ha avuto con quella branca di «astrologia naturale» che, dopo Galileo, ha tentato di diventare una vera scienza, suggestionando gli animi ma senza ottenere risultati concreti. Provare a leggere l’articolo medico sulle influenze degli astri pubblicato sull’Enciclopedia illuministica per credere.
Finis Gloriae Mundi
Fulcanelli
Edizioni Mediterranee, 2007
125 pp. € 9,90
Recensione di Paolo Cortesi
Oh, come passa il tempo! E quali cambiamenti in questa corsa inarrestabile! Se il primo Fulcanelli consegnò, di persona e timidamente, il suo primo manoscritto all’editore parigino Jean Schemit, nel 1926, oggi il nuovo sedicente Fulcanelli invia il suo testo tramite internet, immagino come allegato di una e-mail...
Perché questo, per quanto bizzarro, è stato il percorso del breve saggio pubblicato da Jacques d’Ares, presidente onorario del Centre Européen des Mythes et Légendes, cui pervenne nel luglio del 1999.
Fulcanelli è un’icona della moderna alchimia. Probabilmente l’ultimo dei grandi alchimisti europei, si fece conoscere tra il 1926 ed il 1931, anni di pubblicazione di due classici della Grande Opera: Il mistero della cattedrali e Le dimore filosofali, opere di straordinario interesse non solo esoterico, ma anche letterario. Chi sia stato Fulcanelli è domanda antica e inesausta, ma qui dirò soltanto che uno dei candidati più verosimili è Jean Julien Champagne, esponente non minore del folto e attivissimo milieu ermetico della Parigi fra le due guerre.
L’opera di Fulcanelli (quello vero) è di interpretazione della filosofia alchemica, che egli condusse attraverso una curiosa ermeneutica. Fulcanelli, infatti, pensava che la dottrina alchemica fosse infusa in molte espressioni dello spirito umano, prima delle quali l’arte. Come un fiume sotterraneo, come una filigrana - credeva Fulcanelli - l’alchimia permea di sé anche quelle manifestazioni della civiltà nelle quali non ce la aspetteremmo: le cattedrali gotiche sono, per lui, enormi codici di pietra che cristallizzano simbologie arcane e messaggi di sapienza superiore: l’Adepto, il vero illuminato, sa leggere queste pagine di marmo come fossero pagine di un libro.
L’assunto di base, evidentemente, è tutto da dimostrare (l’alchimia come humus universale delle conoscenze umane), ma il fascino di questa operazione intellettuale è potente, e Fulcanelli lo seppe narrare con uno stile aulico ma al tempo stesso brillante, ellittico ma accattivante.
Questo nuovo sedicente Fulcanelli, apparso alle soglie del Duemila, firma ciò che sarebbe l’ultimo pezzo della trilogia, quel Finis Gloriae Mundi che Eugene Canseliet (1899-1982), alchimista che si proclamò allievo diretto di Fulcanelli, scrisse di aver ricevuto dal maestro, il quale, però, poi lo richiese indietro, convinto che i tempi non fossero ancora maturi per la sua rivelazione.
Il breve libro (o il testo che si dichiarava tale), in effetti, era già apparso sulla rivista La Tourbe des Philosophes, in una versione che non è quella data alle stampe dalle edizioni Liber Mirabilis e tradotta in italiano dalle Mediterranee.
In questo libro, lo pseudo-Fulcanelli mette in guardia dai pericoli di una scienza senza coscienza, una scienza “scissa” (come la chiama lui), che ha imboccato la strada di una conoscenza arida, esasperata, avulsa dal senso cosmico della natura viva (la natura di Giordano Bruno, di Campanella, di Marsilio Ficino): «ahinoi per chi non concepisce altro che uno spirito pietrificato e non una Pietra vivente!» (p.50)
«Tutte le scienze moderne si avvicinano pericolosamente all’alchimia. Pericolosamente, diciamo, perché il partito preso della specializzazione fa loro riscoprire frammenti dispersi della conoscenza ermetica, allontanandoli dalla sintesi che sola permette di abbordare, con la coscienza e prudenza sufficienti, gli aspetti più pericolosi dell’arte». (p.64)
Lo pseudo-Fulcanelli lascia intendere, neppure troppo velatamente, che solo adesso, e con molta confusione, la scienza tecnocratica sta avvicinandosi a energie che l’alchimia conosce, e rispetta, da secoli. Energie di intensità, portata e qualità così infinitamente superiori a quelle note alla fisica profana («fuochi segreti», li chiama l’alchimista), da costituire un rischio colossale, paragonabile a quello rappresentato da un bambino, o da un pazzo, che giochi con una bomba a mano (o una bomba atomica). Lo pseudo-Fulcanelli del Finis Gloriae Mundi mette in guardia verso i pericoli enormi di una scienza che non sa neppure riconoscere i fenomeni e gli effetti fisici che pretende di dominare e sfruttare. A questa scienza arrogante e mortifera, l’alchimia contrappone da sempre una scienza fondata sul rispetto dei tempi naturali, sulla prudenza e la pazienza, sull’umiltà e l’armonia.
Ma il libro è di Fulcanelli? Rispondo no senza incertezze. Lasciando da parte le banali considerazioni sull’età che dovrebbe avere l’autore (a meno che non si creda alla favola dell’alchimista che ha scoperto l’elisir di lunga vita!), basta una buona lettura del testo per far comprendere che siamo davanti ad un colto, raffinato, preparato imitatore; bravo fin che si vuole, ma imitatore.
Del resto, tutto il sistema di coordinate culturali qui presente è inconciliabile con le opere del vero Fulcanelli. Lo stile, anche se chiaramente ispirato a quello del 1920-1930, è profondamente diverso, senza l’arguzia d’antan che caratterizzava il buon vecchio Fulcanelli.
Questo Finis Gloriae Mundi è una curiosa avventura culturale da non prendere alla lettera, ma da considerare come una risposta dal versante alchemico (e l’alchimia, non lo si ripeterà mai abbastanza, è una filosofia) alle inquietudini drammatiche del nostro convulso presente.
La Gravità o perché tutto cade
Jean Philippe Uzan
Edizioni Dedalo, 2006
72 pp., illustr. a colori € 7,50
Recensione di Luca Menichelli
Immaginate un giorno di dover spiegare a vostro figlio di sette anni che cosa sia la forza di gravità.
Un tempo era sufficiente cercare di destreggiarsi con qualche fantasiosa quanto approssimativa pseudo-teoria aspettando che la scuola ottemperasse all’onere, ma ora i nostri piccoli, per via dell’onnipresenza della divulgazione culturale, si dimostrano assetati di nozioni scientifiche, con il loro susseguirsi di “perché” capaci di mettere in crisi anche il più preparato degli scienziati.
Come dicevo, mi sono ritrovato a dovermi destreggiare con l’incombenza di dover rispondere alla domanda di mio figlio sul “perché le cose cadono?” Sembra facile, ma come soddisfare la voglia di conoscenza di due occhietti verdi aperti sul mondo, rispondendo in modo che un bambino possa capire, senza né cadere in tecnicismi incomprensibili né, tanto meno, nel banale?
Me la sono cavata grazie a questo libro. Il libro di Jean Philippe Uzan La Gravità - o perché tutto cade è una lettura che mi sento di consigliare a tutti: genitori, insegnanti, bambini o semplici curiosi.
Al primo sguardo si capisce subito che il target principale sono i piccoli lettori, sia per via del linguaggio che si articola come un racconto, sia per le illustrazioni a colori con inverosimili personaggi alieni, da Capitan Cosmo al perfido GalLegIon, e quindi potrebbe essere un’alternativa costruttiva per un regalo di compleanno a un bambino intelligente e curioso.
Ma mi sento di consigliare il libro anche a chi deve affrontare l’aspetto didattico dell’argomento, appunto insegnanti e genitori, in quanto si tratta di una vera fonte di spunti per articolare un discorso o una lezione sulla forza di gravità.
Nella storia raccontata da Uzan, due amici, Sandro e Antonio, giocano nel parco fantasticando sull’esistenza del pianeta Notween in cui tutto galleggia e il mare vola; ma anche la fantasia di un bambino ha i suoi limiti e tra i due amici nasce una piccola discussione sulla possibilità che il pianeta possa esistere.
Come risolvono il problema? Si rivolgono a Marie, la sorella di Sandro, laureata in Fisica, che spiega la forza di gravità ai due amici rispondendo alle loro domande, alle critiche e ai dubbi che si celano dietro al nuovo strano argomento.
Grazie a questo libro, nel bagaglio culturale del bambino entreranno i concetti non solo del perché tutto cada, ma si introdurrà quello di massa, di peso e altre “amenità” fisiche, con la certezza che il piccolo lettore apprenderà in maniera semplice e divertente delle nozioni che prima non conosceva.
Avete delle perplessità? Provate a chiedere a vostro figlio se cade più velocemente un martello o una piuma. Ha detto il martello? Sono sicuro che la lettura di questo libro gli farà cambiare idea.
Superstizione: istruzioni per l’uso
Silvano Fuso
I quaderni del CICAP, 2010
€ 15,00
Recensione di Luca Menichelli
A chi non è mai capitato di imbattersi in qualcuno che utilizza oggetti scaramantici o che, in maniera generica, crede nella superstizione? Quando capita si viene presi dalla voglia di provare a spiegare quanto sia irrazionale e, a volte, dannoso essere superstiziosi, sicuri dell’infondatezza delle varie dicerie su gatti neri, amuleti, ferri di cavalli e altre amenità simili.
Ma che cos’è la superstizione? Da che cosa traggono origine le varie storie legate alle superstizioni? Perché si tende a credere?
La superstizione è un fenomeno sociale che esiste dai primordi dell’umanità e che, anche se in forme diverse, rappresenta una delle poche caratteristiche che accomunano ogni popolo della terra: non conosce confini di razza, età o formazione culturale.
Silvano Fuso nel suo libro presenta i diversi aspetti della tematica in maniera eccellente, segno di un’ottima conoscenza dell’argomento, frutto di un lungo lavoro di ricerca, che trasporta il lettore all’interno delle più antiche tradizioni che ancora condizionano le convinzioni popolari.
Il libro è diviso in tre parti.
La prima parte analizza gli aspetti storico-antropologici della superstizione e approfondisce le motivazioni che portano a cedere a comportamenti superstiziosi. La seconda parte è una vera e propria enciclopedia che elenca i vari oggetti, luoghi, elementi e comportamenti legati a qualche superstizione. Questa parte è utile per comprendere quanto siano variegate le credenze superstiziose e come ogni piccolo elemento possa nascondere qualche legame con l’irrazionale. Per ognuna delle voci Silvano Fuso approfondisce sia i presunti effetti sia le probabili origini della credenza. La terza parte elenca i vari riti e oggetti che attirerebbero la fortuna e allontanerebbero la sfortuna.
In definitiva un completo compendio sulla superstizione, dal linguaggio semplice e discorsivo, rigoroso ma divertente da leggere, mai pesante o astruso. La lettura del libro è illuminante e ci trasporta in una dimensione dove religione, tradizioni e, a volte, scienza si fondono dando vita a credenze infondate che possono condizionare non solo la vita di singole persone, ma anche il destino di interi popoli.
Il libro di Fuso è una lettura efficace e chiara, basata anche su dimostrazioni che mettono alla prova le varie credenze, con l’obiettivo di separare il falso dal vero. In definitiva il libro è una sorta di portolano che invita il lettore ad approfondire uno degli aspetti più radicati della nostra società, la superstizione appunto, che è sempre opportuno conoscere bene, anche allo scopo di spiegarne l’inutilità.
La certosa di Parma
Stendhal
Rizzoli, 1980
712 pp. € 10,00
Recensione di Anna Rita Longo
Tra i classici più noti ed amati della letteratura internazionale, La certosa di Parma di Henri-Marie Beyle, in arte Stendhal, ha avvinto lettori dai più variegati interessi e gusti letterari, rappresentando, in particolar modo, un’utile occasione formativa per i nostri ragazzi, sotto vari punti di vista.
Ai più giovani che vi si accostassero con il timore reverenziale che è naturale provare di fronte a un grosso volume di settecento pagine, va il mio invito a cimentarsi senza grosse remore nell’impresa, dal momento che mai come in questo caso “lungo” non fa rima con “difficile” o “barboso”. Il bel romanzo stendhaliano deve, in realtà, la sua poderosa mole al gusto tipico dell’autore per la narrazione, che lo induce a portare il lettore a un’identificazione totale con l’eroe della sua vicenda, del quale conosciamo punti di forza e debolezze, pensieri e sensazioni, entusiasmi e scoramenti. Nessun particolare della vita di Fabrizio viene passato sotto silenzio, anche gli aspetti meno edificanti vengono sviscerati, ma senza indulgere in minuzie cavillose e prive di senso, ma con l’intento di trasformare il lettore da spettatore ad attore principale della storia narrata.
L’intreccio fondamentale della vicenda ruota attorno alla figura di Fabrizio del Dongo, giovane rampollo di una nobile famiglia milanese, sullo sfondo dell’occupazione napoleonica del Nord Italia. Il giovane Fabrizio non condivide l’orgoglio di casta e le idee conservatrici di suo padre, il marchese Del Dongo, o del fratello e “delfino” Ascanio; ha, anzi, simpatie liberali che lo inducono, sulla scia dell’entusiasmo portato da Bonaparte, ad arruolarsi nell’esercito napoleonico alla vigilia di Waterloo. Al termine della sua sfortunata e brevissima avventura militare, Fabrizio verrà avviato alla carriera ecclesiastica, divenendo presto un giovane e assai poco casto monsignore. Il seguito del romanzo narra le vicende amorose di Fabrizio, con particolare riferimento a quella con Clelia Conti, giovane figlia del carceriere della Cittadella di Parma, nella quale Fabrizio si trova ad essere imprigionato in seguito a un intrigo di corte. Non aggiungo altri particolari per non rischiare di sciupare il gusto del lettore per la scoperta delle avvincenti vicende della vita del simpatico Fabrizio, ma mi preme sottolineare quelli che sono gli aspetti che rendono La certosa di Parma una forma di intrattenimento intelligente e stimolante, al di là dell’indubbio valore letterario dell’opera stendhaliana.
Fin troppo ovvio sottolineare come il romanzo contribuisca alla conoscenza della storia napoleonica e dei suoi riflessi su quella italiana: in un’epoca nella quale l’ignoranza della storia ci mette nelle condizioni di correre il rischio di doverla rivivere, un romanzo come questo diventa uno straordinario baluardo per la salvaguardia della memoria storica. Un po’ meno ovvio, forse, il discorso sul metodo storico che sottende al romanzo in questione: l’ironia stendhaliana induce a dubitare di ogni affermazione, insinua dubbi e propone spiegazioni alternative, dando a intendere come l’interpretazione di un evento sia tutt’altro che univoca e come sia possibile manipolare la realtà per adattarla a interessi e pregiudizi di parte. Si tratta di un contenuto assolutamente non trascurabile se visto nella prospettiva di favorire la crescita umana e intellettuale dei nostri ragazzi, attraverso lo sviluppo del senso critico.
Interessante rilevare, inoltre, come per tutto il romanzo si mettano in ridicolo modi di agire legati a preconcetti errati o visioni miopi e parziali, rivelandone la vacuità e le temibili conseguenze.
Vi è, poi, un personaggio le cui caratteristiche lo renderebbero, di per sé, degno di un seminario di approfondimento a cura del CICAP destinato ai nostri ragazzi. Si tratta dell’abate Blanes, figura letteraria indimenticabile, che si imprime nella memoria del lettore proprio per la sua natura di archetipo della parodia del santone illuminato. Il buon abate, insegnante di latino di Fabrizio nonostante la sua scarsa dimestichezza con la lingua in questione, è un appassionato astrologo, considerato un indovino dagli straordinari poteri. Peccato che le sue “previsioni” siano più ambigue di quelle di Nostradamus e, in quanto tali, adattabili, a posteriori, a tutti gli avvenimenti che si siano effettivamente verificati. Ciò non lo rende meno degno di rispetto agli occhi di Fabrizio e del popolo, che continuano a tenere in gran conto i suoi vaticini; ma il lettore, al contrario, ne riceve un utile richiamo alla razionalità che, nell’epoca in cui maghi e santoni pullulano di clienti, non sembra perdere di attualità.
Il tutto condito dalla verve e dal sorriso che improntano tutta la produzione letteraria di Stendhal, il che ha il duplice vantaggio di evitare la noia e stemperare la seriosità del dato storico sullo sfondo. Davvero molto difficile, mi sembra, poter chiedere di più a un romanzo.