Mitologia del complottismo. Il behemot delle storie
di Gregorio Magini.
Tlon Edizioni, Roma, 2024
pp. 98, euro 13,00
Il dibattito intorno al complottismo ha vissuto una fase molto accesa negli ultimi anni, in coincidenza con l’ascesa del fenomeno QAnon, che ha dimostrato i rischi a livello globale della postverità e della diffusione di teorie del complotto, acuiti dall’accelerazione tecnologica (effetto bolla delle piattaforme social, deepfake, manipolazione dell’informazione in Rete). Il tentativo di dare una spiegazione al fenomeno del complottismo non è nuovo, ma è diventato oggi particolarmente urgente: da qui le diverse analisi da cui Gregorio Magini – scrittore e saggista con uno sguardo orientato al postmoderno – è partito nel pamphlet Mitologia del complottismo edito nella collana Urano di Tlon.
Il punto di partenza di Magini è proprio nei limiti delle spiegazioni finora fornite. L’approccio definito “ratiosuprematismo” da Wu Ming 1, basato sull’idea che il complottismo sia «una specie di malattia psico-culturale», e fondato su «un razionalismo scientista, dogmatico e autoritario», era già stato messo in discussione prima che Wu Ming 1 pubblicasse il suo importante lavoro La Q di Qomplotto, e da tempo anche il CICAP lo ha abbandonato, in considerazione dei tanti studi che dimostrano come non sia il modo giusto di affrontare e contrastare il complottismo, e anzi alimenti quel tipo di narrazioni. Magini non è nemmeno d’accordo con l’approccio cognitivo: se è vero che il riferimento ai bias cognitivi permette di dimostrare come siamo tutti affetti da pregiudizi che limitano il nostro presunto raziocinio, e quindi mette un freno alle derive ratiosuprematiste (ciascuno di noi crede a cose indimostrabili), non è chiaro in che modo «la consapevolezza di avere dei bias si traduce nella capacità o nella volontà di superarli».
Né convince Magini l’approccio “politico” al problema del complottismo, espresso in particolare da Donatella Di Cesare in Il complotto al potere (2021), che dà voce a un ampio dibattito secondo cui il complottismo sarebbe un problema politico che non «riguarda tanto la verità, quanto il potere», e che si basa sulla convinzione che siano appunto i gruppi di potere, in particolare gli Stati, a ordire complotti da un lato e a generare paranoie di complotto dall’altro. Se questo filone di indagine è sicuramente il più interessante e originale emerso negli ultimi anni sul tema, il rischio di non riuscire più a distinguere il complotto vero dal complotto falso è molto alto e potrebbe intorbidire ulteriormente le acque.
Magini, che si occupa di narrazioni, guarda piuttosto al “mito” come mezzo di analisi del complottismo, e osserva come sia importante distinguere il mito dalla critica, ossia la costruzione di una narrazione del tutto favolistica (per esempio, QAnon) rispetto alla messa in discussione di narrazioni verosimili divulgate dai “poteri forti” (per esempio, la matrice anarchica di Piazza Fontana). Il complottismo come mito, spiega Magini, è l’esito della fine delle grandi narrazioni, dell’abbandono dei miti collettivi a favore della ricerca individuale del sacro. Se il mito è, secondo la definizione di Peppino Ortoleva, «un racconto che fa da ponte tra il vissuto e il cosmo», la sua scomparsa implica la perdita di cornici di senso attraverso cui le persone cercano di dare significato al mondo in cui vivono.
Le teorie del complotto sarebbero una risposta a tutto questo: il tentativo di creare nuovi miti con cui spiegare il contemporaneo, non molto diversamente da quanto già aveva suggerito Popper quando sosteneva che i fantomatici “poteri occulti” hanno preso il posto degli dèi classici che, nei racconti mitologici, servivano a spiegare l’azione apparentemente casuale degli eventi umani. Il complotto è tuttavia l’ultimo gradino di un processo di decadimento che ha visto il mito sacro trasformarsi nel mito politico nell’epoca moderna e il mito politico degenerare in complotto nell’epoca postmoderna. Ecco perché la mitopoiesi, la produzione di mitologie, può rivelarsi anche uno strumento per contrastare la diffusione del complottismo, ricostruendo «relazioni autentiche nella comunità».
Si tratta, cioè, di prendere coscienza che i miti sono necessari e che «rinunciare alla ritualità mitica significa sì non rischiare di impelagarsi in narrazioni pericolose, ma significa anche rinunciare a narrazioni che hanno un impatto concreto sul modo di comportarsi delle persone». Da questa intuizione di Gregorio Magini si potrebbe provare a ripartire per fornire alla società postmoderna risposte più corrette al costante bisogno di “sublime” che la fine delle grandi narrazioni non ha esaurito, lasciando campo libero ai nuovi miti degenerati del complottismo.