Come è nato il tuo rapporto con il CICAP?
Direi per amicizia. Conoscevo ovviamente il CICAP di fama, anche per il suo radicamento nella città di Padova dove ho insegnato giornalismo scientifico per un po’ di anni, prima al corso di Laurea in giornalismo poi al Master in giornalismo, ambedue purtroppo oggi chiusi. Molti miei colleghi e amici erano membri del Cicap, alcuni anche del direttivo. Ho cominciato così a seguire la rivista e il sito, qualche evento, poi il festival (come spettatrice). Tre anni fa il CICAP mi ha chiesto di partecipare come docente a uno dei suoi corsi per «indagatori di misteri» e l’anno scorso mi ha fatto felice chiedendomi di diventare coordinatore scientifico del CICAPFest. Una di quelle relazioni che si costruiscono col tempo ma si sa che poi sono molto più durature dei colpi di fulmine!
Al contrario del passato, oggi c'è un buon numero di personaggi pubblici e di testate che si occupano di critica alle pseudoscienze, di debunking e di educazione alla scienza. Quale può essere in questo contesto il ruolo specifico del CICAP, secondo te?
Credo che il CICAP abbia guadagnato sul terreno una fama di serietà che gli permette di essere percepito come fonte attendibile in una grande varietà di ambiti disciplinari. Ma sta cambiando anche il modo con cui si pensa al debunking nel contesto della comunicazione della scienza. Innanzitutto ci sono molti studi che identificano i pro e i contro di un modello di comunicazione centrato esclusivamente sul debunking. Oggi la comunicazione della scienza richiede una maggiore interdisciplinarità, soprattutto con le scienze sociali, e modalità ritagliate a misura del pubblico che si vuole raggiungere. Limitarsi a dire « questa cosa è dimostrata, quest’altra non lo è» non è sufficiente né per convincere chi crede nelle notizie false, nei complotti o nelle pseudoscienze, né per limitare il fenomeno. Il che non vuol dire che non sia utile, perché inserire nell’ecosistema informativo del materiale verificato consente, a chi cerca, di intercettarlo. Non è però sufficiente e, per essere davvero efficaci, bisogna comprendere quali sistemi di valori o quali sistemi culturali ci sono dietro l’adesione alle pseudoscienze o dietro l’incapacità di esercitare il pensiero critico. A mio avviso, il CICAP potrebbe facilmente evolversi in uno strumento di comunicazione della scienza veramente innovativo, che faccia cadere le barriere tra discipline umanistiche e scientifiche in senso stretto, che consideri quanto la ricerca sulla comunicazione della scienza ha prodotto (in fondo cosa c’è di più scientifico di una comunicazione della scienza fatta con strumenti validati e testati?). Certo, accogliere le ragioni dell’altro può essere complicato e frustrante, ma non significa necessariamente farle proprie, bensì capirle per trovare una modalità di comunicazione davvero efficace e in grado di far cambiare opinione. Sul piano educativo, invece, sono sempre restia a intervenire : chi informa non deve necessariamente educare, sono due operazioni diverse. È ovvio che se racconto la scienza, chi mi legge alla fine qualcosa impara, ma non deve essere questo il mio scopo e io non sono un’insegnante. Quindi mi chiedo sempre fino a che punto un’associazione debba assolvere al ruolo della scuola o dell’università. Preferisco pensare che il CICAP informi sulla scienza, incuriosisca le persone, le faccia persino divertire, piuttosto che vedere la sua attività in chiave didattica: e questo vale anche quando si organizzano le attività per le scuole, che non si sostituiscono affatto all’insegnamento del docente ma lo affiancano.
Dallo scorso anno curi il programma del CICAP Fest insieme a Massimo Polidoro. Come hai trovato questa esperienza? Qual è il valore dei festival della scienza in generale e del CICAP Fest in particolare?
Lo scorso anno è stato una sfida. Ho cominciato a lavorare al programma prima che scoppiasse la pandemia. Eravamo quasi giunti a conclusione quando è cambiato tutto. Quindi non solo mi sono trovata a imparare come si organizza un festival così grande, ma ho dovuto contribuire a organizzarne due, di cui uno di ben tre settimane interamente online. È stato un successo al di là di ogni rosea previsione ma non lo faremo mai più! Tutto il gruppo organizzativo è uscito da questa esperienza contento ma stravolto di stanchezza, e ci siamo ripromessi di tenere a bada la nostra tendenza a voler strafare. Quest’anno affrontiamo una sfida diversa, che è la gestione logistica di un evento che torna in presenza ma non dimentica quanto positiva sia stata la versione online. Avremo ambedue, e speriamo che il tema che abbiamo scelto, ovvero l’incertezza insita in qualsiasi impresa scientifica e in qualsiasi risultato scientifico (sempre smentibile con un nuovo studio) riesca a cogliere lo spirito dei tempi che stiamo vivendo. I festival della scienza sono tra i risultati migliori della comunicazione della scienza italiana. Nel nostro Paese ce ne sono molti di più che negli altri, e attirano gente sempre diversa per età e formazione. Sono un patrimonio culturale che andrebbe protetto e finanziato maggiormente, perché sono la vera democratizzazione della scienza. Le istituzioni si riempiono la bocca di slogan come «cittadinanza scientifica», ovvero permettere a tutti i cittadini di prendere decisioni informate su questioni di tipo scientifico, ma poi supportano una comunicazione della scienza obsoleta, che vede i media essenzialmente nella veste di «ufficio stampa». È difficile trovare istituzioni (pubbliche o private) che trasmettano al pubblico una visione della scienza diversa da quella agiografica: è tutto senza sfumature, senza distinguo. Quando poi la scienza fallisce o cambia idea, come accade per qualsiasi impresa umana, il pubblico non capisce e perde fiducia nell’intero sistema scientifico, come abbiamo visto in questo anno. Ecco, nel loro piccolo, i festival della scienza, mescolando linguaggi, offrendo cultura e intrattenimento, ponderosi panel di esperti e laboratori per mettere le mani in pasta, permettendo discussioni libere e pubbliche sono uno strumento potentissimo di crescita scientifica dei cittadini.
Secondo te quale rapporto deve perseguire il CICAP con gli scienziati e i comunicatori scientifici?
Credo che il CICAP debba instaurare rapporti di collaborazione con ambedue le categorie professionali, nel rispetto delle reciproche competenze e ruolo sociale. Lo scienziato è la fonte delle informazioni che si vogliono diffondere, il comunicatore della scienza è colui che lavora per corredare il mero dato scientifico di altri elementi importanti per la sua comprensione, non ultimo l’aspetto sociale. C’è una tendenza a omologare le due figure (o, meglio, a ritenere che lo scienziato possa fare a meno del comunicatore) ma come ho già detto sono mestieri diversi. È anche importante, a mio avviso, ricordare che la comunicazione della scienza è una professione che, tra l’altro, ha oramai i suoi canali più che consolidati di formazione anche a livello universitario. Credo che il CICAP debba incoraggiare i propri membri che intendono seguire questa carriera a formarsi in modo adeguato e professionale, proprio per rispondere a quei criteri di qualità ed efficacia a cui l’associazione aspira.
Direi per amicizia. Conoscevo ovviamente il CICAP di fama, anche per il suo radicamento nella città di Padova dove ho insegnato giornalismo scientifico per un po’ di anni, prima al corso di Laurea in giornalismo poi al Master in giornalismo, ambedue purtroppo oggi chiusi. Molti miei colleghi e amici erano membri del Cicap, alcuni anche del direttivo. Ho cominciato così a seguire la rivista e il sito, qualche evento, poi il festival (come spettatrice). Tre anni fa il CICAP mi ha chiesto di partecipare come docente a uno dei suoi corsi per «indagatori di misteri» e l’anno scorso mi ha fatto felice chiedendomi di diventare coordinatore scientifico del CICAPFest. Una di quelle relazioni che si costruiscono col tempo ma si sa che poi sono molto più durature dei colpi di fulmine!
Al contrario del passato, oggi c'è un buon numero di personaggi pubblici e di testate che si occupano di critica alle pseudoscienze, di debunking e di educazione alla scienza. Quale può essere in questo contesto il ruolo specifico del CICAP, secondo te?
Credo che il CICAP abbia guadagnato sul terreno una fama di serietà che gli permette di essere percepito come fonte attendibile in una grande varietà di ambiti disciplinari. Ma sta cambiando anche il modo con cui si pensa al debunking nel contesto della comunicazione della scienza. Innanzitutto ci sono molti studi che identificano i pro e i contro di un modello di comunicazione centrato esclusivamente sul debunking. Oggi la comunicazione della scienza richiede una maggiore interdisciplinarità, soprattutto con le scienze sociali, e modalità ritagliate a misura del pubblico che si vuole raggiungere. Limitarsi a dire « questa cosa è dimostrata, quest’altra non lo è» non è sufficiente né per convincere chi crede nelle notizie false, nei complotti o nelle pseudoscienze, né per limitare il fenomeno. Il che non vuol dire che non sia utile, perché inserire nell’ecosistema informativo del materiale verificato consente, a chi cerca, di intercettarlo. Non è però sufficiente e, per essere davvero efficaci, bisogna comprendere quali sistemi di valori o quali sistemi culturali ci sono dietro l’adesione alle pseudoscienze o dietro l’incapacità di esercitare il pensiero critico. A mio avviso, il CICAP potrebbe facilmente evolversi in uno strumento di comunicazione della scienza veramente innovativo, che faccia cadere le barriere tra discipline umanistiche e scientifiche in senso stretto, che consideri quanto la ricerca sulla comunicazione della scienza ha prodotto (in fondo cosa c’è di più scientifico di una comunicazione della scienza fatta con strumenti validati e testati?). Certo, accogliere le ragioni dell’altro può essere complicato e frustrante, ma non significa necessariamente farle proprie, bensì capirle per trovare una modalità di comunicazione davvero efficace e in grado di far cambiare opinione. Sul piano educativo, invece, sono sempre restia a intervenire : chi informa non deve necessariamente educare, sono due operazioni diverse. È ovvio che se racconto la scienza, chi mi legge alla fine qualcosa impara, ma non deve essere questo il mio scopo e io non sono un’insegnante. Quindi mi chiedo sempre fino a che punto un’associazione debba assolvere al ruolo della scuola o dell’università. Preferisco pensare che il CICAP informi sulla scienza, incuriosisca le persone, le faccia persino divertire, piuttosto che vedere la sua attività in chiave didattica: e questo vale anche quando si organizzano le attività per le scuole, che non si sostituiscono affatto all’insegnamento del docente ma lo affiancano.
Dallo scorso anno curi il programma del CICAP Fest insieme a Massimo Polidoro. Come hai trovato questa esperienza? Qual è il valore dei festival della scienza in generale e del CICAP Fest in particolare?
Lo scorso anno è stato una sfida. Ho cominciato a lavorare al programma prima che scoppiasse la pandemia. Eravamo quasi giunti a conclusione quando è cambiato tutto. Quindi non solo mi sono trovata a imparare come si organizza un festival così grande, ma ho dovuto contribuire a organizzarne due, di cui uno di ben tre settimane interamente online. È stato un successo al di là di ogni rosea previsione ma non lo faremo mai più! Tutto il gruppo organizzativo è uscito da questa esperienza contento ma stravolto di stanchezza, e ci siamo ripromessi di tenere a bada la nostra tendenza a voler strafare. Quest’anno affrontiamo una sfida diversa, che è la gestione logistica di un evento che torna in presenza ma non dimentica quanto positiva sia stata la versione online. Avremo ambedue, e speriamo che il tema che abbiamo scelto, ovvero l’incertezza insita in qualsiasi impresa scientifica e in qualsiasi risultato scientifico (sempre smentibile con un nuovo studio) riesca a cogliere lo spirito dei tempi che stiamo vivendo. I festival della scienza sono tra i risultati migliori della comunicazione della scienza italiana. Nel nostro Paese ce ne sono molti di più che negli altri, e attirano gente sempre diversa per età e formazione. Sono un patrimonio culturale che andrebbe protetto e finanziato maggiormente, perché sono la vera democratizzazione della scienza. Le istituzioni si riempiono la bocca di slogan come «cittadinanza scientifica», ovvero permettere a tutti i cittadini di prendere decisioni informate su questioni di tipo scientifico, ma poi supportano una comunicazione della scienza obsoleta, che vede i media essenzialmente nella veste di «ufficio stampa». È difficile trovare istituzioni (pubbliche o private) che trasmettano al pubblico una visione della scienza diversa da quella agiografica: è tutto senza sfumature, senza distinguo. Quando poi la scienza fallisce o cambia idea, come accade per qualsiasi impresa umana, il pubblico non capisce e perde fiducia nell’intero sistema scientifico, come abbiamo visto in questo anno. Ecco, nel loro piccolo, i festival della scienza, mescolando linguaggi, offrendo cultura e intrattenimento, ponderosi panel di esperti e laboratori per mettere le mani in pasta, permettendo discussioni libere e pubbliche sono uno strumento potentissimo di crescita scientifica dei cittadini.
Secondo te quale rapporto deve perseguire il CICAP con gli scienziati e i comunicatori scientifici?
Credo che il CICAP debba instaurare rapporti di collaborazione con ambedue le categorie professionali, nel rispetto delle reciproche competenze e ruolo sociale. Lo scienziato è la fonte delle informazioni che si vogliono diffondere, il comunicatore della scienza è colui che lavora per corredare il mero dato scientifico di altri elementi importanti per la sua comprensione, non ultimo l’aspetto sociale. C’è una tendenza a omologare le due figure (o, meglio, a ritenere che lo scienziato possa fare a meno del comunicatore) ma come ho già detto sono mestieri diversi. È anche importante, a mio avviso, ricordare che la comunicazione della scienza è una professione che, tra l’altro, ha oramai i suoi canali più che consolidati di formazione anche a livello universitario. Credo che il CICAP debba incoraggiare i propri membri che intendono seguire questa carriera a formarsi in modo adeguato e professionale, proprio per rispondere a quei criteri di qualità ed efficacia a cui l’associazione aspira.