La scienza in tribunale 2
Luca Simonetti
Fandango Libri, 2020
pp. 267, € 18,00
Recensione di Simone Raho
«La giustizia, e non solo la scienza: entrambe sono necessarie a una società veramente civile».
Questa frase, che campeggia sulla quarta di copertina dell’ultimo lavoro di Luca Simonetti, sintetizza alla perfezione gli intenti dell’autore e gli argomenti trattati nel suo ultimo libro.
Sin dal titolo, che richiama scherzosamente un noto cult movie degli anni ’80 di Sylvester Stallone, il volume si propone come un ideale proseguimento del primo, sia negli intenti che nello stile. Luca Simonetti, avvocato, tratta i principali casi giudiziari del Bel Paese in cui il mondo della scienza è incappato negli ultimi anni, ripercorrendone e ricostruendone le alterne vicende e tutto il susseguirsi di polemiche tra magistratura e scienziati. Il percorso da giurista dell’autore rappresenta sicuramente un valore aggiunto per la narrazione, in quanto contribuisce a chiarire anche ai profani, in un linguaggio piuttosto semplice ma mai banale, tutte le incomprensioni del mondo legislativo, gli inghippi e le conseguenti contraddizioni, che hanno portato ad alcuni dei giudizi più controversi in ambito scientifico degli anni più recenti. Fermo restando il fatto che in calce a ogni capitolo sono sempre presenti delle utilissime note che approfondiscono, per chiunque voglia farlo, le disposizioni di legge e le sentenze, o semplicemente propongono alcuni chiarimenti giuridici. La scelta adottata ha, pertanto, un equilibrio perfetto: il tutto ne guadagna in scorrevolezza e agilità, e la lettura fluisce comodamente senza che il discorso ne risulti mai appesantito o ridondante.
D’altro canto, anche il linguaggio e lo stile utilizzati per esporre i dettagli scientifici non risultano affatto ostici o ardui da seguire: i risvolti e tutti gli approfondimenti sono spiegati con chiarezza, trovando sempre il giusto equilibrio tra un’eccessiva semplificazione e un approfondimento sproporzionato, che avrebbe rischiato di appesantire troppo il volume, discostandosi - tra l’altro - dagli scopi dello stesso autore.
Chiariti gli aspetti tecnici e lessicali del libro, che cosa possiamo dire in merito agli argomenti trattati dal volume? Di certo l’autore non si lascia sfuggire tutto il meglio (o il peggio, dipende dai punti di vista…) che i recenti casi di cronaca giudiziaria aventi come oggetto la scienza hanno esibito pubblicamente. Si parte pertanto con l’ormai stranota vicenda che ha visto coinvolta la scienziata Ilaria Capua, in cui emerge in maniera preponderante il grosso problema del “circo mediatico-giudiziario”, come lo definisce lo stesso Simonetti. Si prosegue poi con capitoli dedicati a omeopatia, promesse (mai mantenute) di diete miracolose e, tra gli altri, un interessante esame della tristissima vicenda del terremoto dell’Aquila. E per non farsi mancare nulla, la surreale e incredibile vicenda giudiziaria che ha riguardato l’epidemia dovuta al batterio Xylella, la piaga che ha visto coinvolti gli ulivi del Salento, conclusasi con un’archiviazione.
Degno di nota è inoltre il superbo capitolo dedicato a neuroscienze e diritto, probabilmente l’argomento più intrigante tra quelli proposti nel libro, e certamente quello più innovativo e di frontiera, con notevoli spunti di riflessione e domande delicate, alcune delle quali ancora senza risposta, sia nell’ambito giuridico che in quello scientifico.
Che cos’altro aggiungere quindi, in conclusione? Il libro si rivela una piacevole e godibilissima lettura, agevole per tutti, oltre che interessante e formativa; l’autore padroneggia con sicurezza gli argomenti e si vede. Un’opera che sicuramente non mancherà di piacere a chi ha già letto con soddisfazione la prima, sebbene i due volumi possano essere letti anche indipendentemente l’uno dall’altro.
Un ottimo libro che riesce nell’intento di far avvicinare i punti di vista di due realtà, quella del diritto e quella della scienza, che troppo spesso e frettolosamente vengono giudicate se non incompatibili, quantomeno lontane nella logica come nel linguaggio. E invece andrebbero viste come due colonne che si corroborano a vicenda, entrambe indispensabili, come sottolinea lo stesso autore, a una società che voglia definirsi veramente civile.
Mala statistica
Alex Reinhart
Sironi Editore, 2018
pp. 213, € 18,90
Recensione di Elena Cartellino
Ogni qualvolta leggo una notizia basata su uno studio statistico, faccio sempre un po’ di fatica a darle il giusto peso, a meno che non sia corredata da tutte le assunzioni fatte a monte e a valle dell’analisi. Non che sia un’esperta: a essere onesta, nel mio percorso di studi, ho incontrato infatti un solo corso di probabilità e statistica, eppure è stato sufficiente per intravedere alcune tra le insidie proprie di questa materia. Ma cos’è la statistica? È la scienza che studia i dati. E, detta così, sembra semplice. Tuttavia è altrettanto semplice, viste le tante tecniche e analisi applicabili, “torturare i dati finché non confessano”, come lo stesso autore sottolinea. Si tratta in realtà di una scienza complessa, fortemente abusata dai media e spesso non sufficientemente approfondita nei corsi di laurea, ma che rappresenta uno strumento fondamentale al servizio della ricerca scientifica.
Con questo libro è possibile prendere confidenza con una serie di valori caratteristici tipici di un’indagine statistica e soprattutto con gli errori più comuni in cui si può inciampare. Una conoscenza pregressa della disciplina non è necessaria, ma a mio avviso fortemente consigliata per poter apprezzare appieno le tematiche enunciate.
Nel condurre una sperimentazione, si procede valutando differenze e scostamenti tra i risultati degli esperimenti prodotti e registrando la compatibilità dei dati in relazione all’ipotesi dalla quale scaturisce l’osservazione. Certo la matematica è lo strumento attraverso il quale condurre lo studio, ma non ci indica nulla sulla qualità dei dati né tantomeno dell’ipotesi stessa.
Uno dei parametri da fissare è quindi il P-value, vale a dire la probabilità di osservare un certo risultato senza che vi sia una reale efficacia di quanto ipotizzato: è questo il punto di partenza di un test di significatività. Eseguire più test di significatività non garantisce tuttavia la bontà del risultato e su tutto questo poi aleggia sempre lo spettro di possibili falsi positivi. Un ulteriore strumento può essere quindi l’intervallo di confidenza: la misura dell’incertezza delle conclusioni.
Oltre alla qualità dei dati, bisogna anche essere certi di averne raccolti una giusta quantità e, a tal proposito, l’autore ha dedicato un intero capitolo al concetto di potenza statistica, spiegando come statistiche sottodimensionate possano facilmente dare risultati falsati.
Altrettanto importante è che i campioni siano scelti in maniera del tutto casuale, facendo ben attenzione anche alla pseudo-replicazione: celebre lo studio relativo all’allineamento dei cicli mestruali di donne che vivono a stretto contatto, “dimostrato” all’inizio degli anni Settanta da Martha McClintock, di cui il testo sottolinea l’inesattezza. È possibile anche eseguire delle analisi statistiche esplorative senza avere un’ipotesi a priori da indagare. Esiste poi anche un criterio economico per il quale non appena trovata una certa significatività nella sperimentazione questa viene conclusa anticipatamente: in realtà l’accumulo di ulteriori dati potrebbe portare a conclusioni differenti. Dicotomia dei gruppi di classificazione nonché regressione sono due ulteriori metodi di studio, ma entrambi presentano punti di forza e criticità, non ultimi i fattori confondenti. E poi c’è sempre l’errore umano...
Lo scenario che il libro dipinge sino a questo punto è davvero piuttosto sconfortante. Come difendersi da tutto questo? Cosa si può fare? L’ultimo capitolo mette in luce una serie di consuetudini del mondo scientifico che andrebbero riviste. Sarebbe intanto necessario incentivare i ricercatori a pubblicare i dati e i calcoli utilizzati per svolgere le indagini: in fondo, come in ogni ricerca scientifica, è la replicabilità a rendere indiscutibile un certo risultato. Ma soprattutto incoraggiarli a condividere anche studi con esiti negativi o contraddittori: più facile a dirsi che a farsi, tenuto conto che pubblicare apertamente informazioni su di una ricerca potrebbe rappresentare un vantaggio per altri team di ricerca, desiderosi di pubblicazioni e avanzamenti di carriera. E questo è un punto cruciale. Se la crescita professionale in ambito accademico si basa prevalentemente sul numero di pubblicazioni, va da sé che un giovane ambizioso cercherà di pubblicare “come se non ci fosse un domani”, concludendo un’indagine alle prime luci di significatività.
Un ruolo fondamentale per una maggiore efficacia dei dati pubblicati è assunto anche dai direttori editoriali: le riviste scientifiche più prestigiose sono maggiormente interessate ai risultati eclatanti e non agli esiti negativi (anche se lo studio è stato condotto diligentemente) e questo di per sé rappresenta un grosso filtro che induce a non ripetere studi improduttivi con spreco di risorse e di tempo.
Per quanto riguarda invece quello che un lettore curioso può fare, il mantra è sempre lo stesso: chiedete le prove. Ognuno ha le sue competenze, ma davanti a delle evidenze si può sempre chiedere aiuto a un esperto.
Breve storia delle pseudoscienze
Marco Ciardi
Hoepli, Milano, 2021
pp. 160, € 14,16
Recensione e intervista di Roberto Paura
Stiamo vivendo l’età dell’oro della scienza. Basti pensare che a meno di un anno dall’esplosione della pandemia di Covid-19 disponiamo oggi di diversi vaccini di comprovata efficacia, già in fase di somministrazione. Eppure, stiamo vivendo anche un’epoca di feroce messa in discussione dell’expertise scientifica, di diffusione di teorie negazioniste, complottiste o pseudoscientifiche che fanno temere il peggio. Basterebbe però guardare al passato per rendersi conto che non è affatto vero che la post-verità o la pseudoscienza siano mali contemporanei: anzi, lo sviluppo scientifico è andato sempre, nel corso dei secoli, di pari passo con lo sviluppo del suo “lato oscuro”, fatto di idee e pseudo-teorie fantasiose o di improbabili detentori di verità occulte.
Marco Ciardi, storico della scienza all’Università di Bologna, ce lo ha dimostrato già in diverse sue opere: da Galileo & Harry Potter (2014), sorta di “manifesto” nel quale sosteneva la necessità di ricostruire la genealogia del “pensiero magico” per migliorare la nostra comprensione del metodo scientifico, alle diverse monografie dedicate a casi-studio esemplari. Tra questi, Il mistero degli antichi astronauti (2017), Frankenstein. Il mito tra scienza e immaginario (2018, con Pier Luigi Gaspa), La scienza impossibile dedicato al rinascimento alchemico tra Ottocento e Novecento (2020, con Leonardo Anatrini), oltre al suo magistrale studio Le metamorfosi di Atlantide. Storie scientifiche e immaginarie da Platone a Walt Disney (2011).
In occasione dell’uscita del suo nuovo libro, Breve storia delle pseudoscienze (per la collana “Le basi” dell’editore Hoepli), in cui Marco Ciardi riassume i suoi studi in una breve ma densa guida che spazia dall’astrologia all’alchimia, dall’omeopatia al mesmerismo, dall’ufologia alla fantarcheologia, gli abbiamo rivolto qualche domanda.
Nelle prime righe del tuo libro fai una considerazione che è forse la chiave di tutto il discorso: parlando delle costellazioni e del modo in cui gli antichi popoli “organizzarono” il cielo stellato per rispecchiare le loro mitologie, osservi che è una caratteristica dell’intelligenza umana “quella di individuare delle strutture e dare significato a segni confusi e disordinati”. È tipico della scienza, ma anche della pseudoscienza. Come facciamo a capire quando le strutture che abbiamo individuato non solo valide?
Certamente non possiamo farlo da soli. Non a caso, tra i valori fondamentali della scienza moderna (che, ricordiamolo, nasce solo nel XVII secolo), c’è quello della condivisione pubblica delle conoscenze. Per quanto il risultato che abbiamo raggiunto ci sembri ineccepibile, tale risultato non ha alcun valore se non viene controllato e certificato dalla comunità scientifica, meglio ancora dalla comunità degli specialisti che lavorano in un determinato settore. Nessuna ricerca è necessariamente pseudoscientifica in sé, ma lo diventa immediatamente non appena questa regola di comportamento viene violata. È il rifiuto del confronto e della verifica delle proprie idee che caratterizza e definisce la pseudoscienza rispetto alla scienza.
C’è un altro aspetto che lega mentalità scientifica e pseudoscientifica: la ricerca della semplicità, della causa unica. Ha condotto Newton alla sua teoria della gravitazione universale e la fisica moderna al moderno standard. Ma dici anche, giustamente, che quando leggiamo di teorie che si dichiarano in grado di “spiegare tutto”, quasi certamente siamo di fronte a pseudoscienza.
Quello che sottolinei ci deve indurre a riflettere almeno su due aspetti. Primo, dietro ogni ricerca, anche la più scientifica che si possa concepire, ci sono desideri, pregiudizi, credenze, visioni del mondo. Non dobbiamo aver paura di ammettere questo (partendo dal racconto che della scienza dovremmo fare – e non facciamo – a scuola). Ciò vale, a maggior ragione, per tutto il periodo che ha caratterizzato la nascita della scienza moderna, durante il quale i rapporti tra scienza, filosofia, magia e tradizione sono stati assai complessi. Inoltre, è bene tener sempre presente che i rapporti tra scienza e pseudoscienza non sono qualcosa di immutabile, dato per sempre (questo è un errore di giudizio che tendono a commettere in molti, anche nell'ambito della divulgazione), ma cambiano a seconda del periodo e del contesto storico. E qui vengo più nello specifico della tua domanda. Quando ho parlato di porre attenzione alle teorie che spiegano tutto, mi sono riferito in particolare all’ambito medico, e soprattutto all’ambito medico contemporaneo. La ricerca della causa unica è invece stato uno degli aspetti che hanno caratterizzato, anche in modo proficuo, lo studio di numerosi scienziati (tenendo a mente che il termine “scienziato” compare solo negli anni Trenta dell’Ottocento). Si tratta di un principio filosofico che viene da lontano. L’origine del principio di semplicità, come strumento essenziale della conoscenza, può essere senz’altro individuata nella filosofia greca; successivamente trasmesso al mondo medievale, tale principio è individuabile nel Rinascimento, ma acquista una fondamentale consistenza teorica grazie all’opera di René Descartes. Nel Settecento l’esprit simpliste si trasformò in un'idea indipendente e autonoma rispetto al ruolo che ricopriva nella filosofia di Cartesio. Le idee semplici e chiare di matrice cartesiana non furono più utilizzate come criterio di verità per la giustificazione della realtà, ma vennero impiegate su piani non più strettamente ontologici; ebbero, cioè, un uso ipotetico e strumentale. E in molte occasioni gli scienziati impiegarono il principio di semplicità per giustificare pezzi fondamentali delle loro teorie che non erano suscettibili di essere sottoposti a prove sperimentali. A volte producendo vere e proprie scoperte, in altri casi incappando in veri e propri errori.
Nel libro individui un topos ricorrente di molte teorie pseudoscientifiche: il mito dell’antica sapienza, cioè dell’esistenza di un deposito di conoscenze avanzate nei tempi antichi poi andato disperso. Quali sono le ragioni di questo mito?
Anche il mito dell’antica sapienza, cioè l'idea che sia esistito un periodo della storia dell’umanità in cui le conoscenze erano identiche, se non superiori, a quelle del presente, viene da lontano. E anch’esso si va a intrecciare, ancora una volta in modo complesso, con l’evoluzione del pensiero scientifico moderno. Anche in questo caso, naturalmente, bisogna maneggiare tutto il discorso con cautela e sensibilità storica. Newton crede nel mito dell’antica sapienza, perché esso è parte integrante del suo grande progetto di comprensione del mondo, che non è solo scientifico, ma soprattutto teologico. Per Newton non era strano pensare che prima del Diluvio Universale fosse esistito un periodo in cui l’umanità aveva raggiunto un elevato grado di conoscenza (Isaac era sostanzialmente un creazionista e pensava che il mondo avesse 6000 anni). Newton non riteneva di aver scoperto, ma di aver riscoperto la legge di gravitazione. Dunque ci sono origini e giustificazioni storiche ben precise per l’origine di questo mito, e la credenza in esso da parte di molti. Tale mito per la scienza oggi non ha naturalmente più alcun valore. Ma nel passato quel valore c’era.
In parte questo mito ritorna anche nel topos degli alieni. Qui, come più in dettaglio nel tuo Il mistero degli antichi astronauti, te ne sei occupato: perché chiamare in causa gli extraterrestri per spiegare misteri archeologici, che a volte misteri non sono, come quello della costruzione delle Piramidi?
È proprio questo il punto. Quella dell’antica sapienza è una credenza che ha precise origini storiche, ed è parte integrante della scienza moderna fino a un certo punto, per poi uscirne, scivolando progressivamente nell’ambito dei discorsi pseudoscientifici. Come ho cercato di spiegare, il tema degli antichi astronauti nacque (alla fine del XIX secolo) proprio dalla convergenza di argomenti pseudoscientifici, letterari e religiosi, riprendendo anche il vecchio tema dell’antica sapienza.
Mi ha colpito una tua osservazione che sembra paradossale, ma non lo è. Scrivi infatti: “Non è certo un caso che complottismo e negazionismo nascano come strumenti di difesa dell’ordine precostituito, messo in discussione dal pensiero scientifico”. Complottisti, negazionisti e pseudoscienziati spesso si definiscono anticonformisti, innovatori radicali, paragonandosi a Galileo o a Einstein, ma in realtà difendono spesso le loro convinzioni pregresse (per esempio, la scienza “classica” imparata a scuola), o predicano un ritorno a uno stato di cose “giusto”, come De Maistre con i suoi scritti reazionari contro la Rivoluzione francese.
Hai già citato tu la parola magica, cioè “scuola”. E sia chiaro, come la pandemia ci ha purtroppo confermato, non si tratta di un problema solo italiano, ma mondiale. C’è qualcosa che non va nell’istruzione scientifica di tutte le nazioni, il che poi di riflesso porta ad avere cittadini, e di conseguenza una rappresentanza politica, scarsamente consapevoli dei metodi e dei valori della scienza, così come spesso accade anche nel mondo della comunicazione in generale. E per quanti sforzi potremo fare, come associazioni, master, operatori nel settore della divulgazione, se non verrà messo in campo un ambizioso progetto a livello internazionale che metta al centro la scuola, con la consapevolezza che questa è la battaglia decisiva per la costruzione del futuro, sarà molto difficile ottenere risultati significativi. Ciò non significa, naturalmente, che non si debba continuare a combattere tutti i giorni anche in altri ambiti, anzi si tratta di un lavoro essenziale (oltre che doveroso) per smuovere molte coscienze. Bisogna considerare che senza questo tipo di impegno le cose potrebbero andare anche molto peggio. Ed è un impegno che ogni generazione deve sostanzialmente ripetere. D’altra parte, come ho cercato di far vedere anche nel mio Galileo e Harry Potter, non si tratta certo di problemi nuovi. E anche le soluzioni proposte non sono certo nuove. Ma il fatto che non siano nuove non significa che non siano giuste. Il punto è che, di fatto, però, non si è mai avuto il coraggio di adottarle.
Il fascino del complottismo e della pseudoscienza è innegabile. Al di là delle nostre opinioni in merito, tra le tante teorie discusse nel libro ce n’è una che ti colpisce di più o che ritieni più pericolosa?
In realtà non c’è una teoria che mi preoccupa più di un’altra. Ciò che deve preoccuparci è l’uso che si fa di determinate teorie. L’idea della Terra cava può essere allo stesso tempo ispiratrice di affascinanti romanzi, oppure di progetti deliranti e terribili come quello nazista. Come diceva Carl Sagan, la scienza è prima di tutto un modo di pensare, non un insieme di conoscenze. Se questo modo di pensare, che poi è lo spirito critico, non viene sviluppato a partire dalla scuola, e nell’ambito di ogni discussione pubblica, qualsiasi teoria pseudoscientifica può diventare pericolosa. Un pericolo, del resto, che corre anche la scienza, quando le sue conquiste non vengono più considerate all’interno dei valori fondamentali che ne hanno caratterizzato le origini.