Regia: Steven Spielberg
Interpreti: Dennis Weaver, Jacqueline Scott, Eddie Firestone
Usa, 1971
Spielberg è un regista che per certi versi mi sconcerta: dal punto di vista del mestiere, "chapeau", niente da dire (anche se io non arrivo a tanto qualcuno lo ritiene il migliore); la cosa curiosa è che i suoi film di maggior successo sembrano essere quelli contraddistinti da una sostanziale superficialità di analisi del racconto, mentre laddove la narrazione sale di livello alla fine passa inosservato (penso ad esempio a "L'impero del sole").
Questo "Duel", nasce come TV movie e solo il seguente grande successo dell'autore, allora ventiquattrenne, convincerà poi la Universal a distribuirlo dodici anni dopo anche nelle sale. Qui la messinscena narrativa è tutto ed è proprio da essa che trae forza l'eccellente metafora della paura della gente comune nei confronti di un oscuro e immotivatamente minaccioso mondo tecnologico. Il mostro stavolta non è né un King Kong né un computer impazzito, ma solo un misterioso camion che ingaggia, senza motivo, un infinito duello con l'incolpevole Dennis Weaver (un attore che recita come un'ascia da bucato) ma soprattutto con la di lui automobile: un camion enorme, mostruoso nella sua "ferrosità", dotato di potenza abnorme tanto che "85 deve avere il motore truccato! Non può andare così forte!85", che si accanisce contro una povera macchinina, anonima e un po' malandata, tanto normale. Sarà proprio il sacrificio di quest'ultima a salvare la vita del suo conducente nell'inevitabile, epico ma un po' scontato finale.
La bellissima ambientazione on the road pennella un velo di mitologia su questa storia dalla semplicità di una parabola. La strada è il luogo cult per eccellenza del cinema americano, ma la caratteristica surreale di alcuni aspetti della sceneggiatura (l'autista del camion che non vediamo mai se non una volta i piedi e un paio di volte le braccia, i dialoghi sempre solo con sé stesso di Weaver, ma soprattutto l'apertura iniziale dell'ellissi narrativa con una totale inspiegabilità del motivo scatenante della tragedia) fanno già intuire nel giovane Spielberg un'attenzione ad una sintassi cinematografica non del tutto autoctona. Attenzione che sarà la linfa necessaria alla rinascita del grande cinema Holliwoodiano grazie ad uno straordinario gruppo di registi/autori, i "movie brats", negli anni settanta (oltre a Spielberg, Scorsese, Coppola, Malick, Milius, Carpenter, De Palma, Rafelson e altri ancora). Questo tema dell'angoscia nei confronti di una tecnologia che sembra sopravanzarci e sovrastarci fino a travolgerci, in America appare la prima volta con i film di exploitation degli anni quaranta e continuerà inesauribile fino ancora ad oggi, ma è di chiara matrice culturale europea (l'espressionismo tedesco innanzitutto) e dovuto all'importazione di registi del calibro di Lang e Chaplin. Proprio questo è l'aspetto originale di questa storia scritta e sceneggiata da Richard Mathison, il "peccato originale" del suo non senso che la toglie dalle paludi della banalità e del dejà vu. Cifra chiaramente spielberghiana invece una diffusa misantropia che non trova qui le risposte edulcorate di E.T. o di Incontri ravvicinati del terzo tipo, restando più in tono con un manicheismo giovanilista.
Molto ben costruito ed efficace il "crescendo" di pathos, benché in questo caso assai appesantito da un doppiaggio piuttosto scadente e dalla scarsa interpretazione dell'unico attore, certamente più a suo agio negli sceneggiati televisivi. Stupendo a tal fine l'uso della macchina da presa con un inquietante gioco di alternanze fra punti di vista, con primi piani sforzati al limite della deformazione e campi lunghi a definire la lotta in un deserto desolato ed abbagliante. n
Lucio Braglia