Mi fa piacere scrivere di questo film a una certa distanza dalla sua uscita nelle sale, perché questo mi evita l'imbarazzo di non poter parlare di "come va a finire", della cosiddetta trama.
Che il film ci prepari per tempo ad aspettarci un coup de theatre è piuttosto evidente fin dalle prime scene, ciononostante l'effetto sorpresa del Bruce Willis fantasma rimane, ed è divertente ripensare poi a tutta la parte precedente nella nuova chiave di lettura. Provate a pensare, per esempio, se tutto il film fosse soltanto un sogno della moglie.
Tutto lo svolgimento di Il sesto senso è in fondo abbastanza prevedibile ma il prodotto è molto ben confezionato, tanto da riuscire a mantenere avvinto lo spettatore grazie alle proprie atmosfere giocate sui mezzi toni, un uso equilibrato di effetti speciali e una di-stribuzione di emozioni forti ma mai grossolane.
A proposito di atmosfere, l'intero impianto del film ha qualcosa di conradiano: l'angosciosa ricerca di una seconda chance da parte dello psicologo infantile, sia nei confronti del bambino (così simile a quello col quale egli aveva fallito anni prima e che lo ha ucciso prima metaforicamente e poi, scopriremo, realmente) sia nei confronti della moglie (travolta dal proprio impegno professionale).
Splendida l'ambientazione della storia in una Filadelfia colta in aspetti suggestivi, grazie alla bella fotografia di Tak Fujimoto.
Anche il messaggio è molto semplice ma efficace: ognuno ha dentro di sé i propri fantasmi, veri o presunti; vivere significa imparare a coesistere con le nostre paure e l'unico modo per esorcizzarle è affrontarle.
Insomma niente di geniale alla fine, eppure il film ha stile. Se si pensa che il regista Shyamalan ha scritto anche soggetto e sceneggiatura bisogna ammettere che siamo di fronte a una personalità interessante, varrà certo la pena aspettarlo alla sua seconda prova.
Un paio di cadute però non mancano: la prima quando Willis registra su nastro le voci degli spiriti, una banalissima quanto inutile materialità; la seconda il dialogo strappalacrime finale, in auto, fra madre e figlio, con la storia patetica dello spirito della nonna che racconta al bambino episodi riguardanti l'infanzia della madre.
Quest'ultimo particolare è piuttosto significativo per provare a capire qualcosa di più del regista, del quale altro non sappiamo se non che è di origine indiana: il finale ci presenta un autore "classicamente holliwoodiano". L'incomprensione col genitore, che sfocia inevitabilmente in una grave mancanza di dialogo e in una infanzia triste e solitaria, è una caratteristica standard di ogni sensitivo (vedasi per tutti la presentazione della stessa Rosemary Altea) ed è uno degli aspetti più drammatici del film. Un classico regista holliwoodiano non può lasciare aperto e inconcluso un di-scorso che ha costituito la spina dorsale del racconto, il cerchio deve sempre chiudersi e meglio se con un lieto fine. Il racconto ellittico, il finale aperto, sono tra le caratteristiche distintive del cinema d'autore europeo del dopoguerra; a essere precisi sono uno dei tratti più innovativi della nuova sintassi cinematografica del Neorealismo italiano. I grandi registi che hanno segnato la rinascita del cinema americano degli anni Settanta (Scorsese sopra tutti) si sono lecitamente impadroniti di questa sintassi, ma questo è un altro discorso
Per chiudere due parole sugli attori che ci mostrano un Bruce Willis estremamente efficace nella interpretazione dello psicologo lacerato dai sensi di colpa grazie a una recitazione insolitamente misurata, ma soprattutto uno straordinario H. Joel Osment, inquietante e stupefacente nella propria gestualità.