Si narra che nel 1263 un prete boemo in pellegrinaggio verso Roma si fermasse a celebrare la messa nelle chiesa di S. Cristina a Bolsena, presso Roma. Egli dubitava della reale presenza del corpo di Cristo nell'eucarestia, ma i suoi dubbi scomparvero quando, chinandosi sull'ostia, trovò che essa trasudava sangue. II liquido rosso macchiò il marmo dell'altare e il corporale di lino del sacerdote. Papa Urbano IV, che in quel momento si trovava ad Orvieto, non molto distante, avuta notizia del miracolo, mosse incontro al sacerdote tedesco, che si recava da lui a riferire, ed i due si incontrarono presso il ponte sul Chiaro. Non è certo se tutti i particolari della narrazione siano autentici: le prime cronache scritte di questo prodigio risalgono infatti a non prima del 1323.
Sembra però vero che questo evento miracoloso abbia affrettato la decisione di Urbano IV di dichiarare la festa del Corpus Domini obbligatoria per tutta la Chiesa. L'anno seguente egli emanò la bolla Transiturus de hoc mundo, nella quale istituiva la festività in memoria del miracolo di Bolsena. Urbano IV ordinò inoltre la costruzione di una nuova cattedrale ad Orvieto, per conservare le sacre reliquie, che vi si trovano tuttora.
Un'ispezione del 1950 ha identificato i resti dell'ostia, il corporale, oltre a vari frammenti di lino, seta e alcune scritte su pergamena. Il miracolo di Bolsena divenne presto il più famoso del secolo, celebrato e commemorato nell'arte e nella leggenda. La sua rappresentazione più famosa si trova in un affresco di Raffaello, nelle Stanze Vaticane, nel quale anacronisticamente papa Giulio II assiste alla messa di Bolsena.
Indipendentemente dalla fede che si possa avere nel mistero della transustanziazione eucaristica, il miracolo di Bolsena potrebbe avere una spiegazione più microbiologica che metafisica. Un articolo di Johanna C. Cullen[1]comparso sulla rivista della American Society of Microbiology ha recentemente fatto il punto su questo problema in modo assai completo e documentato.
Per secoli si è osservata la comparsa inesplicabile di "sangue" sui cibi; sono documentati storicamente non meno di ottanta casi. Nel 332 a.C. i soldati di Alessandro Magno durante l'assedio di Tiro furono terrorizzati dalla comparsa di sangue nelle pagnotte. Forse anche la proibizione di mangiare fave e fagioli, che i Pitagorici potrebbero avere tratto dagli Zoroastriani, i quali a loro volta l'avrebbero appresa dagli egizi, si potrebbe spiegare con la leggenda secondo la quale le fave, lasciate alla luce lunare, si coprirebbero di sangue. Ma anche durante la cristianità episodi simili non sono stati infrequenti. Tra gli altri:
- Ostie sanguinanti a Parigi (Estate 1290); Bruxelles (giugno 1369 e luglio 1379); Wilsnack, Germania (agosto 1383); Sternberg, Germania (luglio 1492); Berlino (estate 1510);
- sangue su un dolce a Stennwitz, Germania (luglio 1693);
- sangue su del pane a Chalons, Francia (settembre 1792);
- sangue su della polenta a Legnaro (Padova) nell'agosto 1819.
A Legnaro si ebbe la comparsa di "sangue" su della polenta nella casa di un contadino, Antonio Pittarello, con grande emozione nel paese. Nei giorni seguenti il fenomeno si diffuse anche in altre case. Ma questi avvenimenti ebbero luogo in un'epoca in cui la scienza iniziava a possedere gli strumenti per comprenderne la vera natura. Padre Pietro Melo, inviato dalle autorità ecclesiastiche ad indagare questo caso di possibile "infestazione diabolica", affermò in una breve nota su un giornale letterario che la sostanza rossa era un prodotto di fermentazione. L'università di Padova, tale fu il clamore suscitato dal caso, incaricò delle indagini una commissione scientifica. Vincenzo Sette, dotto medico della cittadina di Piove, concluse trattarsi di una muffa che cresce bene in ambienti umidi e caldi. Il giovane farmacista Bartolomeo Brizio, intanto, aveva studiato indipendentemente l'argomento, riconoscendo la presenza di un organismo vivente, che egli fu anche in grado di fare riprodurre, e che battezzò Settatia marcescens. Serratia in onore del dimenticato fisico fiorentino Serrati che inventò una barca a vapore nel 1787; marcescens perché il microrganismo, giunto a maturazione e dopo avere prodotto un pigmento dall'intenso colore rosso, marcisce e si decompone velocemente in una massa viscosa, di aspetto mucillaginoso, fluida.
Più tardi, nel 1848, Christian Ehrenberg, a Berlino, indagando casi analoghi, fu in grado di vedere per la prima volta il microrganismo grazie ai migliori microscopi allora disponibili.
Ehrenberg riconobbe anche che le condizioni necessarie al suo sviluppo (un substrato ricco di amido e non troppo acido, come erano le ostie nel medioevo, ed un ambiente caldo ed umido), bene si adattavano al caso di Bolsena. Non fu forse una coincidenza che la maggior parte dei "miracoli microbiologici" si siano verificati in estate, oltreché in epoche storiche in cui le scarse condizioni igieniche favorivano questo tipo ili contaminazioni.
Da allora, dimenticate le singolari circostanze che portarono alla sua scoperta, la Serratia marcescens è stata oggetto di studi sempre più approfonditi[2]. I lavori pubblicati su di essa sono ormai centinaia. Si sa che si tratta di un batterio gram-negativo. Non è particolarmente pericoloso ma può causare infezioni in neonati e pazienti debilitati, di solito in ambienti ospedalieri.
Il pigmento rosso, appropriatamente battezzato "prodigiosina", fu isolato nel 1929; la sua struttura chimica determinata nel 1934; la sintesi di laboratorio eseguita nel 1960. Si sa che esso possiede proprietà citotossiche, antimicrobiche ed antimalariche.
Sarebbe molto interessante compiere un ultimo test: analizzare le reliquie di Bolsena e cercare di identificare possibili frammenti di DNA, per stabilire se esso abbia origine umana oppure provenga da una colonia di Serratia.
Un'analisi scientifica delle reliquie, richiesta da mons. Grandoni, vescovo di Orvieto nel 1978, fu però negata dal Capitolo della Cattedrale, [3]. Nell'attesa, le scommesse sono comunque aperte...
A chi ha accesso ad un laboratorio di microbiologia, non è difficile riprodurre il "miracolo di Bolsena". La Serratia marcescens, anche se è talvolta causa di infezioni (più frequenti, paradossalmente, in ambienti ospedalieri) non è particolarmente pericolosa da maneggiare; si prepara una fettina rotonda di pane e la si pone in una capsula di Petri; vi si aggiungono alcune gocce di una coltura di Serratia, e dopo averla leggermente inumidita con acqua sterile, la si tiene in incubazione a circa 30 °C per un paio di giorni. Si producono macchie di un intenso colore rosso, spesso di aspetto mucillaginoso, molto simile al sangue. Se si lasciano seccare le fettine di pane, il pigmento resta stabile per lunghissimo tempo. Per evitare contaminazioni da microrganismi estranei, sarebbe opportuno operare secondo le tecniche microbiologiche atte a garantire la sterilità delle operazioni, ma di solito, anche senza utilizzare le apparecchiature prescritte (un'autoclave, una cappa a flusso laminare, ecc.), gli inquinamenti sono assai rari.
Sembra però vero che questo evento miracoloso abbia affrettato la decisione di Urbano IV di dichiarare la festa del Corpus Domini obbligatoria per tutta la Chiesa. L'anno seguente egli emanò la bolla Transiturus de hoc mundo, nella quale istituiva la festività in memoria del miracolo di Bolsena. Urbano IV ordinò inoltre la costruzione di una nuova cattedrale ad Orvieto, per conservare le sacre reliquie, che vi si trovano tuttora.
Un'ispezione del 1950 ha identificato i resti dell'ostia, il corporale, oltre a vari frammenti di lino, seta e alcune scritte su pergamena. Il miracolo di Bolsena divenne presto il più famoso del secolo, celebrato e commemorato nell'arte e nella leggenda. La sua rappresentazione più famosa si trova in un affresco di Raffaello, nelle Stanze Vaticane, nel quale anacronisticamente papa Giulio II assiste alla messa di Bolsena.
Indipendentemente dalla fede che si possa avere nel mistero della transustanziazione eucaristica, il miracolo di Bolsena potrebbe avere una spiegazione più microbiologica che metafisica. Un articolo di Johanna C. Cullen[1]comparso sulla rivista della American Society of Microbiology ha recentemente fatto il punto su questo problema in modo assai completo e documentato.
Per secoli si è osservata la comparsa inesplicabile di "sangue" sui cibi; sono documentati storicamente non meno di ottanta casi. Nel 332 a.C. i soldati di Alessandro Magno durante l'assedio di Tiro furono terrorizzati dalla comparsa di sangue nelle pagnotte. Forse anche la proibizione di mangiare fave e fagioli, che i Pitagorici potrebbero avere tratto dagli Zoroastriani, i quali a loro volta l'avrebbero appresa dagli egizi, si potrebbe spiegare con la leggenda secondo la quale le fave, lasciate alla luce lunare, si coprirebbero di sangue. Ma anche durante la cristianità episodi simili non sono stati infrequenti. Tra gli altri:
- Ostie sanguinanti a Parigi (Estate 1290); Bruxelles (giugno 1369 e luglio 1379); Wilsnack, Germania (agosto 1383); Sternberg, Germania (luglio 1492); Berlino (estate 1510);
- sangue su un dolce a Stennwitz, Germania (luglio 1693);
- sangue su del pane a Chalons, Francia (settembre 1792);
- sangue su della polenta a Legnaro (Padova) nell'agosto 1819.
A Legnaro si ebbe la comparsa di "sangue" su della polenta nella casa di un contadino, Antonio Pittarello, con grande emozione nel paese. Nei giorni seguenti il fenomeno si diffuse anche in altre case. Ma questi avvenimenti ebbero luogo in un'epoca in cui la scienza iniziava a possedere gli strumenti per comprenderne la vera natura. Padre Pietro Melo, inviato dalle autorità ecclesiastiche ad indagare questo caso di possibile "infestazione diabolica", affermò in una breve nota su un giornale letterario che la sostanza rossa era un prodotto di fermentazione. L'università di Padova, tale fu il clamore suscitato dal caso, incaricò delle indagini una commissione scientifica. Vincenzo Sette, dotto medico della cittadina di Piove, concluse trattarsi di una muffa che cresce bene in ambienti umidi e caldi. Il giovane farmacista Bartolomeo Brizio, intanto, aveva studiato indipendentemente l'argomento, riconoscendo la presenza di un organismo vivente, che egli fu anche in grado di fare riprodurre, e che battezzò Settatia marcescens. Serratia in onore del dimenticato fisico fiorentino Serrati che inventò una barca a vapore nel 1787; marcescens perché il microrganismo, giunto a maturazione e dopo avere prodotto un pigmento dall'intenso colore rosso, marcisce e si decompone velocemente in una massa viscosa, di aspetto mucillaginoso, fluida.
Più tardi, nel 1848, Christian Ehrenberg, a Berlino, indagando casi analoghi, fu in grado di vedere per la prima volta il microrganismo grazie ai migliori microscopi allora disponibili.
Ehrenberg riconobbe anche che le condizioni necessarie al suo sviluppo (un substrato ricco di amido e non troppo acido, come erano le ostie nel medioevo, ed un ambiente caldo ed umido), bene si adattavano al caso di Bolsena. Non fu forse una coincidenza che la maggior parte dei "miracoli microbiologici" si siano verificati in estate, oltreché in epoche storiche in cui le scarse condizioni igieniche favorivano questo tipo ili contaminazioni.
Da allora, dimenticate le singolari circostanze che portarono alla sua scoperta, la Serratia marcescens è stata oggetto di studi sempre più approfonditi[2]. I lavori pubblicati su di essa sono ormai centinaia. Si sa che si tratta di un batterio gram-negativo. Non è particolarmente pericoloso ma può causare infezioni in neonati e pazienti debilitati, di solito in ambienti ospedalieri.
Il pigmento rosso, appropriatamente battezzato "prodigiosina", fu isolato nel 1929; la sua struttura chimica determinata nel 1934; la sintesi di laboratorio eseguita nel 1960. Si sa che esso possiede proprietà citotossiche, antimicrobiche ed antimalariche.
Sarebbe molto interessante compiere un ultimo test: analizzare le reliquie di Bolsena e cercare di identificare possibili frammenti di DNA, per stabilire se esso abbia origine umana oppure provenga da una colonia di Serratia.
Un'analisi scientifica delle reliquie, richiesta da mons. Grandoni, vescovo di Orvieto nel 1978, fu però negata dal Capitolo della Cattedrale, [3]. Nell'attesa, le scommesse sono comunque aperte...
A chi ha accesso ad un laboratorio di microbiologia, non è difficile riprodurre il "miracolo di Bolsena". La Serratia marcescens, anche se è talvolta causa di infezioni (più frequenti, paradossalmente, in ambienti ospedalieri) non è particolarmente pericolosa da maneggiare; si prepara una fettina rotonda di pane e la si pone in una capsula di Petri; vi si aggiungono alcune gocce di una coltura di Serratia, e dopo averla leggermente inumidita con acqua sterile, la si tiene in incubazione a circa 30 °C per un paio di giorni. Si producono macchie di un intenso colore rosso, spesso di aspetto mucillaginoso, molto simile al sangue. Se si lasciano seccare le fettine di pane, il pigmento resta stabile per lunghissimo tempo. Per evitare contaminazioni da microrganismi estranei, sarebbe opportuno operare secondo le tecniche microbiologiche atte a garantire la sterilità delle operazioni, ma di solito, anche senza utilizzare le apparecchiature prescritte (un'autoclave, una cappa a flusso laminare, ecc.), gli inquinamenti sono assai rari.
Note
1) The Miracle of Bolsena - ASM News, 60 (4), 187-191(1994)
2) Merck Index, XI ed., n. 7774
3) Famiglia Cristiana, 23, 1994, p. 70