Il latte e le leggende alimentari

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  • 26-07-2013
  • di Giuliano Parpaglioni
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Nel campo della salute esistono innumerevoli terapie alternative, promosse da guru le cui pozioni promettono di guarire da tutti i mali, con percentuali di successo mirabolanti. La maggior parte delle volte, queste cure alternative sono definite dai loro proponenti “naturali” e si basano su prescrizioni relative all’alimentazione. Prendiamo ad esempio la dieta crudista, un regime alimentare vegano che fa a meno di cibi di origine animale, ma anche di prodotti cotti, come cereali e spesso anche legumi, prediligendo frutta, verdura, semi e frutta secca. Sui siti che la promuovono si sostiene che questo approccio alimentare consente di curare decine di mali, dalla stipsi[1] all’ipotiroidismo[2], passando per malattie come la sclerosi multipla[3] o l’immancabile cancro[4]. È indubbio che ciò che mangiamo abbia una forte influenza sulla salute, e forse per questo molti “esperti” cercano in questo campo soluzioni pratiche, veloci e soprattutto di facile comprensione per lucrare sulle malattie, o sulla paura delle stesse.
Gli alimenti impattano sulla nostra salute in molti modi diversi e uno dei problemi maggiori che la nostra società deve affrontare è legato al fatto che l’industria alimentare, per ottimizzare i profitti e massimizzare le vendite, tende a utilizzare nella fase di produzione ingredienti scadenti o di scarsa qualità, piuttosto che ingredienti di qualità e salubrità superiori che, inevitabilmente, costerebbero di più anche al consumatore. Ad esempio, per i prodotti industriali è molto comune l’uso di olio di cocco o di palma, ricchi di acidi grassi saturi, mentre sarebbe preferibile utilizzare olio extravergine d’oliva. Questa logica di mercato finisce con l’avere delle ricadute negative che alimentano un sentimento di generalizzata sfiducia e che costituiscono il brodo di coltura di accuse spesso infondate, dicerie, leggende metropolitane che non si fondano su riscontri concreti, o che esasperano ed estremizzano dei dati di realtà.

Il latte


Uno degli alimenti verso cui vengono rivolte più critiche è il latte. Esistono decine di accuse a latte e latticini, alcune fanno addirittura sorridere per quanto siano assurde, altre diffondono panico ingiustificato[5]. Ad esempio è possibile trovare scritto su un sito abbastanza noto «Il latte di mucca è un fluido malsano (NdR: specie quello pastorizzazione [sic]), proveniente da animali malati, specie di Tubercolosi (NdR: salvo quelli allevati in modo biologico e lasciati pascolare nei campi allo stato brado) che hanno un’ampia gamma di malattie pericolose (NDR: soprattutto perche’ [sic] vaccinati e questi sono anche trattati farmacologicamente ed allevati con alimenti malsani), quindi latte che contiene sostanze che hanno un effetto negativo cumulativo su tutti coloro che lo consumano, anche se non pastorizzato[6]». Addirittura si dice che il latte pastorizzato contiene batteri nocivi, quando la pastorizzazione è fatta appositamente per eliminare possibili contaminazioni.
Secondo i detrattori di questo alimento, la pericolosità del latte è dimostrata ad esempio dal fatto che nella specie umana si sia sviluppata l’intolleranza al lattosio, il principale componente del latte. I dati relativi a questa patologia mostrano che essa è effettivamente molto diffusa: nel mondo circa il 70% delle persone ha una bassa produzione di lattasi, l’enzima per digerire il lattosio, anche se non tutte sviluppano l’intolleranza[7].
Il motivo di questa diffusione è probabilmente evolutivo: gli uomini all’inizio della loro storia avevano la pelle scura, che protegge dai raggi del sole, ostacolando così la sintesi di vitamina D. Spostandosi verso il nord del mondo, pian piano la pelle si è schiarita e questo ha fatto sì che l’organismo producesse più vitamina D sfruttando l’azione dei raggi solari sulla pelle, anche se il clima freddo delle regioni più settentrionali impedisce per molti mesi all’anno questo sfruttamento. Inoltre, con la pastorizia si è cominciato a consumare anche il latte: chi assumeva latte aveva più calcio e vitamina D, ed era quindi favorito nella vita (meno fratture, meno rachitismo...). In questo modo l’usanza si è diffusa: il consumo di latte ha favorito le persone che riuscivano a digerirlo, quindi la tolleranza è diventata più comune. Il risultato è che, oggi, oltre il 50% degli africani sono intolleranti al latte (perché la selezione non ha agito su di loro), mentre la percentuale è più bassa in altre popolazioni. Allo stesso tempo, vi sono popolazioni, per esempio in Asia, che pur potendo sfruttare il sole non hanno sfruttato il latte, e in questo caso si registrano percentuali di intolleranza vicine al 100%.
Proprio la diffusione dell’intolleranza al lattosio ha alimentato l’idea che il latte non sia un alimento sano, un’idea sostenuta a volte con argomenti basati su fatti scientifici ma estremizzati, altre volte promossa con argomenti del tutto inventati.
Un punto sul quale tutti quelli che sconsigliano il latte sono d’accordo è che non si tratta di un alimento naturale: siamo l’unica specie al mondo a bere il latte di un’altra specie. Salvo eccezioni di animali in cattività[8], è in effetti improbabile che un lupacchiotto sia allattato da una cavalla o da una mucca, o che un cucciolo di gazzella possa venire allattato da una femmina di rinoceronte. Il problema però è mal posto: chi fa riferimento alla non naturalità del bere latte di vacca per un essere umano, dovrebbe riflettere sulla naturalità di mangiare mortadella e würstel (carni separate meccanicamente e mescolate tra loro), oppure di usare pesticidi per i raccolti. La realtà è quindi che di naturale c’è ben poco nella nostra alimentazione, ma allo stesso tempo bisogna osservare che proprio questo ha permesso di innalzare sia gli standard qualitativi sia quelli produttivi dei prodotti che consumiamo, con un effetto rilevante sulla durata della vita media delle persone.
Una seconda accusa che viene mossa nei confronti del latte è che questo alimento possa essere cancerogeno. Tale accusa si fonda su notizie reali, relative a studi seri, i cui risultati vengono però estremizzati, lasciando intravedere scenari non provati. Per esempio, uno studio neozelandese condotto su cinquanta bambini mostra come, in assenza di latte, questi tendono a crescere di meno e ad avere ossa più fragili[9]. L’effetto è dato (anche) dalla maggiore concentrazione nel sangue di una proteina[10], un Fattore di crescita simile all’insulina (IGF-I, Insulin-like Growth Factor I) che stimola la crescita cellulare e quindi, nei bambini, lo sviluppo. Questo fattore di crescita è aumentato nel sangue di chi consuma latte, il che da un lato è positivo in quanto chi consuma latte risulta avere ossa più solide, ma dall’altro potrebbe costituire un problema in quanto la stimolazione cellulare prodotta dall’IGF-I potrebbe portare a sviluppare tumori. Uno dei maggiori lavori sull’associazione tra cancro e alimentazione, il Diet and Cancer Report[11], ha riassunto la letteratura esistente e, riguardo al latte, ha concluso che questo alimento sembra avere effetti contrastanti[12]: pare che il latte abbia una qualche capacità protettiva per quanto riguarda il cancro al colon-retto (la si definisce probabile), ma potrebbe essere implicato nello sviluppo di quello alla prostata (è considerato solo come possibilità, ha un rischio limitato di carcinogenesi). Resta il fatto che anche da questa analisi emerge come dati definitivi non ce ne siano, né relativamente all’efficacia come fattore di protezione, né relativamente alla sua azione cancerogena. Da questo punto di vista, il consiglio che si può dare è quello di non esagerare con il consumo di latte, ma un nutrizionista serio sa che questo stesso consiglio vale per qualunque altro tipo di alimento. A questo proposito, vale la pena ricordare che lo studio CARDIA[13] (Coronary Artery Risk Development in Young Adults Study), ha dimostrato che un abuso di latte e latticini comporta dei rischi nello sviluppo di patologie a carico del sistema coronarico e arterioso come la trombosi coronarica. Tutto questo è stato sfruttato e distorto da molti per far credere che il latte sia l’equivalente di un veleno bianco, ad esempio con frasi come «Latticini e formaggi sono legati alle malattie della civiltà: insorgere di tumori, cisti, fibromi, cancro all’apparato riproduttivo femminile (seno, utero, ovaia), infezioni all’apparato uro-genitale (cistiti e candida, molto diffusa tra le giovani americane), malattie del sistema cardiocircolatorio (arteriosclerosi, trombi, infarti...) a causa dell’enorme quantità di grassi saturi[14]». In realtà, però, il fatto che l’abuso di prodotti caseari causi la sindrome metabolica non implica affatto che un consumo moderato produca lo stesso effetto.
Un altro argomento sulla cui base molti sconsigliano il latte è che non è un alimento indispensabile alla nostra salute. È vero: non c’è nulla nel latte che non si possa trovare in altre fonti, alimentari o meno (la vitamina D, come dicevo, è prodotta anche dalla nostra pelle grazie all’energia dei raggi solari). Sul piano della salute, per esempio, studi recenti hanno dimostrato che la dieta a base di grandi quantità di latte e latticini, che per lungo tempo è stata consigliata ai pazienti con osteoporosi, è ininfluente in relazione all’evoluzione della malattia[15]. Anche questo dato scientifico, relativo al fatto che il latte e i prodotti derivati non proteggano dall’osteoporosi, è stato del tutto travisato, tanto che ora vi è chi sostiene che esso sia la causa dell’osteoporosi[16].
Il legame tra latte e osteoporosi viene erroneamente stabilito anche attraverso un altro argomento. Si sostiene che il latte, ricco di proteine, faccia perdere calcio all’organismo attraverso le urine: le proteine che contiene acidificano il sangue, i sistemi tampone, cioè i meccanismi biochimici e fisiologici che mantengono fisso il pH del sangue, si attivano e per poter funzionare richiamano calcio dalle ossa, che in questo modo viene perso con le urine. Il risultato di questo processo è che se si beve latte si perde calcio.
Questa credenza è, tra tutte quelle nelle quali mi sono imbattuto, la più assurda. La quantità di proteine contenuta in 100 g di prodotto è di circa 3,3 g[17] e in una colazione abbondante si arriva a consumare circa 300 g di latte per un totale di circa 10 g di proteine, cioè più o meno un quinto del fabbisogno giornaliero di una ragazza di 62,5 kg. È quindi difficile sostenere la tesi secondo cui vi sarebbe un eccesso proteico in questo alimento.
Una smentita molto chiara arriva peraltro da un’analisi molto ampia (una review di varie meta-analisi, che riassume lo stato dell’arte della ricerca su questo argomento, mettendo a confronto lavori statistici estremamente ampi) pubblicata nel 2010[18], in cui si dimostra come le proteine non abbiano alcun effetto sulla perdita di calcio. Un’altra review, che ha analizzato i livelli di acidificazione del sangue e di perdita di calcio dovuti all’assunzione di latte[19], si esprime in termini molto chiari già nella presentazione iniziale:
«Insegnamenti chiave: la misura del pH delle urine non riflette l’acidosi metabolica o una avversa condizione di salute. La dieta moderna e il consumo di prodotti caseari non rendono il corpo acido. La dieta alcalina altera il pH delle urine ma non cambia il pH sistemico. La rete di escrezione degli acidi non ha una influenza importante sul metabolismo del calcio. Il latte non produce acidi. Il fosfato derivato dai prodotti caseari non ha un impatto negativo sul metabolismo del calcio, che è il contrario dell’ipotesi dei residui acidi».
Fondamentalmente quindi, è la teoria dell’acidificazione del sangue a non reggere, e, da questo punto di vista, l’assioma “bevi latte = perdi calcio” e l’idea che il latte causi l’osteoporosi non hanno fondamento. Il latte è quindi un alimento non essenziale, anche se un suo consumo ragionevole comporta benefici sul piano dello sviluppo, come indica lo studio neozelandese citato sopra. Quel che è certo è che dipingerlo come un pericolo, una cosa da evitare a tutti i costi, è sbagliato.

L'aspartame


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©tuoblog.it
L’aspartame è un prodotto sintetico con un potere dolcificante molto superiore allo zucchero e per questa ragione è possibile utilizzarlo in quantità molto minore per ottenere lo stesso effetto; inoltre è una molecola che non apporta calorie, perciò viene suggerito a chi deve seguire un regime ipocalorico. Su molti siti, per esempio su disinformazione.it[20], è visto come un attentato alla salute, un prodotto alla stregua dei più potenti veleni che le multinazionali alimentari vorrebbero costringerci ad assumere: «L’aspartame causa danni “lenti e silenziosi” in tutte quelle persone che sono così sfortunate da non avere reazioni immediate e che non hanno quindi un motivo per evitarlo. Potrebbero volerci una [sic], cinque, dieci, quarant’anni, ma alla lunga si manifesteranno gravi problemi (alcuni reversibili e altri no) per tutte quelle persone che ne fanno uso abituale».
Come nel caso del latte, anche contro questo dolcificante vengono formulate numerose accuse. La prima è quella di contenere metanolo, un alcol potenzialmente tossico che verrebbe liberato durante la digestione del dolcificante. Il metanolo può causare cecità e problemi neurologici ma anche la morte, come dimostrarono i numerosi decessi che avvennero in Italia nel 1986[21] a causa dell’alterazione del vino. L’EFSA o Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, l’ente deputato alla valutazione dei rischi connessi agli alimenti e agli integratori, si è occupato molto approfonditamente dell’aspartame, e ha prodotto documenti tecnici e divulgativi nonché una pagina di FAQ[22] consultabili sul sito dell’Ente stesso. Per quanto riguarda la relazione tra metanolo e aspartame, la risposta che si trova nelle FAQ è:
«Sebbene il metanolo sia tossico, occorre comprendere che è anche presente naturalmente nella dieta ed è necessario per una serie di funzioni organiche a livello molecolare. La sua tossicità diventa un problema per la sicurezza quando l’esposizione a esso è estremamente alta, come ad esempio quando si consumano alcuni superalcolici distillati in casa. Di gran lunga la maggiore quantità di metanolo negli esseri umani (circa l’80% in media) è prodotta naturalmente dal nostro corpo. In base alle prove scientifiche disponibili, gli esperti dell’EFSA hanno concluso che è improbabile che l’esposizione alimentare al metanolo derivante dal consumo di aspartame sia tossica».
Quello che sottolinea la risposta è che per comprendere adeguatamente la questione è necessario soffermarsi sulle sue dimensioni quantitative: il metanolo non è un veleno di per sé, lo diventa solo se assunto in quantità rilevanti, e le quantità di metanolo che si liberano dal metabolismo dell’aspartame non sono sufficienti a creare danni.
Un altro pericolo che viene spesso evocato in relazione a questo dolcificante è relativo al fatto che sarebbe una sostanza cancerogena. Nel recente passato sono stati pubblicati alcuni studi su animali che sembravano suggerire l’esistenza di questo rischio. Il problema è, come sottolinea anche in questo caso l’EFSA sul suo sito, che gli studi in cui si evidenziano questi effetti sono progettati male, in quanto non sembrano tenere adeguatamente conto del fatto che se lo studio è prolungato oltre una certa età della cavia, la probabilità di sviluppare tumori cresce indipendentemente dall’aspartame. In questo senso, l’EFSA ha stabilito che i risultati così ottenuti non sono attendibili.

Lo zucchero


Alla pari del latte, lo zucchero bianco è spesso criticato[23] per i suoi effetti negativi sulla salute. È fuor di dubbio che l’abuso di dolci e di zuccheri semplici causi problemi: obesità, diabete, ipertensione, dislipidemie sono tutte patologie causate anche dal consumo elevato di zucchero. Nelle linee guida dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN)[24] si suggerisce di non superare il 10-15% delle calorie totali provenienti da zuccheri semplici (aggiungendo gli zuccheri complessi, come per esempio quelli contenuti in pasta o pane, si può arrivare anche al 60%), proprio perché una quantità eccessiva di questo nutriente è deleteria per la salute. Ma troppo spesso i tecnici parlano di zuccheri semplici e le persone decodificano queste informazioni pensando che ci si riferisca al solo zucchero bianco. Lo zucchero bianco è uno degli zuccheri semplici, ma non è l’unico a dover essere limitato: le stesse problematiche sono causate anche da un uso eccessivo di zucchero grezzo o di zucchero di canna, per quanto questi prodotti abbiano un colore diverso e un sapore leggermente diverso dallo zucchero bianco. Infatti, un grammo di zucchero bianco apporta circa quattro kcal, esattamente come un grammo di zucchero di canna o di zucchero grezzo; l’indice glicemico (la capacità di alzare la glicemia) è sostanzialmente uguale; la quantità di minerali contenuti in più nello zucchero grezzo o di canna è talmente irrisoria da essere trascurabile. Di fatto si tratta dello stesso prodotto.
Se gli effetti negativi di un consumo eccessivo di zucchero sono quindi ben chiari, molto meno convincenti appaiono altre critiche che vengono rivolte verso questo alimento. Per esempio, ne viene valutato negativamente il processo di lavorazione, a causa degli ingredienti che permettono lo sbiancamento dei grani. Il processo di lavorazione dello zucchero è in realtà identico sia per quello grezzo sia per quello bianco, la sola differenza è nelle ultime fasi, che mancano in quello grezzo, ma che sono semplicemente finalizzate a ottenere un ulteriore sbiancamento. Soprattutto, tutti i composti che si usano (latte di calce, acido solforoso e altri) vengono persi nella lavorazione, e non ne rimane nessuno nel prodotto finito. In questo senso è importante ricordare che la chimica non ha memoria, al saccarosio (la molecola dello zucchero da cucina) non interessa nulla di cosa era prima o di come ha fatto a diventare saccarosio, fa quel che fanno tutte le molecole di saccarosio del mondo: dolcifica e, dopo la digestione, libera fruttosio e glucosio. Le proprietà delle specie chimiche non dipendono dalla loro storia, ma solo dalla loro struttura attuale: la vitamina C presente in un integratore viene dall’amido di mais ma è chimicamente e funzionalmente identica a quella presente in un’arancia.

Note


9) Black, R.E. et al. 2002. Children who avoid drinking cow milk have low dietary calcium intakes and poor bone health. “Am J Clin Nutr” (3) 76: pp 675-680
10) Cadogan, J. et al. 1997. Milk intake and bone mineral acquisition in adolescent girls: randomised, controlled intervention trial. “BMJ” (7118) 315: pp 1255-60
13) Pereira, M.A. et al. 2002. Dairy consumption, obesity, and the insulin resistance syndrome in young adults: the CARDIA Study. “JAMA” (16) 287: pp 2081-9.
15) Feskanich, D. et al. 2003. Calcium, vitamin D, milk consumption, and hip fractures: a prospective study among postmenopausal women. “Am J Clin Nutr”. (2) 77: pp 504-11.
18) Cao, J.J., Nielsen, F.H. 2010. Acid diet (high-meat protein) effects on calcium metabolism and bone health. “Curr Opin Clin Nutr Metab Care” (6) 13: pp 698-702
19) Fenton, T.R., Lyon, A.W. 2011. Milk and acid-base balance: proposed hypothesis versus scientific evidence. “J Am Coll Nutr”. (5 Suppl 1): pp 471S-5S. Trad. dell’abstract
accessToken: '2206040148.1677ed0.0fda6df7e8ad4d22abe321c59edeb25f',